Una voce poco fa

Stefano Rolando
Una voce poco fa
Politica, comunicazione e media nella vicenda del PSI dal 1976 al 1994
Marsilio Editori
Un testo di ricerca promosso dalla Fondazione Bettino Craxi.
Una prima analisi di un fenomeno di anticipazione e innovazione nella cultura politica italiana.
Le linee della comunicazione (interna, diretta ai cittadini e attraverso il complesso rapporto con i media)
del Partito Socialista Italiano nel corso della leadership di Bettino Craxi,
dal 1976 all’epilogo e allo scioglimento del partito nel 1994.
Stefano Rolando
Una voce poco fa
Marsilio giugno 2009
Domande all’autore
(15 giugno 2009)
La Fondazione Craxi ha annunciato che a metà luglio sarà presentato a Roma il libro frutto di una sua ricerca svolta per conto della stessa Fondazione. Ritiene che il periodo analizzato (1976-1994) sia già materia per una analisi storica o che le polemiche che hanno coinvolto la vicenda dei socialisti italiani rendano ancora difficile una analisi distaccata?
Ma io non ho ritenuto di svolgere una “analisi distaccata”. E anzi credo che le “polemiche” costituiscano una parte stessa della materia da analizzare. Perché esse sono state tali in quanto hanno avuto evidenza, mediatizzazione, confronto pubblico. Quindi sono una parte del processo di comunicazione che il libro intende esaminare e preliminarmente discutere. Se dico “non distaccata” è perché accetto di avere avuto un ruolo – anche se certamente non da protagonista – in quelle vicende, cosa che mi offre chiavi di lettura non solo attraverso le carte, ma anche attraverso dirette percezioni. Per il resto quindici anni dopo lo scioglimento del PSI credo che sia possibile lavorare su processi (dalle insorgenze ai declini) e sul contesto delle conseguenze. Insomma su un arco dei temi che consenta di discutere al di là delle polemiche immediate della metà degli anni ’90. E infatti il trattamento del libro è per metà analitico e per metà ricostruzione di un dibattito con più di una trentina di opinioni.
Tra coloro che intervengono in questo dibattito che il libro ospita ci sono soprattutto ex-socialisti. Nessuno che si richiami all’ex PCI e nessuno della storica “destra”. Per qualche ragione?
Mah, la parola ai socialisti è stata intesa come un coinvolgimento del gruppo dirigente. Quindi è stato necessario essere larghi. Qualcuno non ha voluto rispondere, qualcuno non ha potuto. Nel caso di Claudio Martelli non sono riuscito materialmente a recapitargli né a mano né per posta elettronica le domande. Certamente fu un protagonista attorno al tema. Spero che voglia e possa intervenire a libro in circolazione. Gianfranco Fini è stato tra gli invitati a rispondere, non lo ha fatto. Ugualmente sono stati invitati a rispondere Massimo D’Alema, Piero Fassino e anche Fausto Bertinotti e non lo hanno fatto. Walter Veltroni potrebbe essere tra chi discuterà il libro nelle presentazioni. E ciò mi fa piacere. Anche tra gli ex-DC ci sono state defezioni. Pronta e ampia è stata la risposta di Francesco Cossiga.
Qual è la tesi centrale del lavoro?
Difficile dire così in una battuta. Innanzi tutto è una risposta a chi ha pensato di sostenere la tesi che il PSI dell’età di Craxi ha fatto più comunicazione che politica. Per il tempo e per il contesto generale della politica italiana e internazionale, il Partito Socialista è stato soggetto di proposta politica forte tanto da comportare forti conflitti e molte discontinuità. Si è servito con forza della comunicazione così come ugualmente la ha pesantemente subita. Ciò riguarda in modo particolare il rapporto con il sistema mediatico che – proprio sull’argomento – fa segnare storie di passioni e incomprensioni, di poteri e ineluttabilità, di interessi e di prevenzioni. Qui credo di avere solo sollevato qualche velo. C’è ancora molto da indagare e analizzare.
Dalle risposte degli ex-socialisti si vede che dalla monoliticità del PSI di Craxi si è formata una diaspora clamorosa. Comunque con uno schieramento a destra e uno a sinistra. Qual è il punto discriminante?
Intanto vorrei dire che anche sulla monoliticità dei tempi di Craxi si potrebbe discutere (come dimostra il pluralismo di voci che ho raccolto, alcune delle quali in stretto rapporto con lo stesso Craxi ma articolate per pensiero e per giudizio). Certo quel partito era cosciente della sfida innescata al sistema: quella politica verso la DC, quella ideologica verso il PCI, quella del primato della politica rispetto alle lobbies. Era necessario avere una leadership e questo aspetto era largamente condiviso. Quanto alla “diaspora” essa è forse più ampia e profonda dell’apparente distribuzione in due schieramenti (intanto collocando in posizione sofferente ma vigile gli “astensionisti”). Essa dipende anche dalla censura che il paese, per mediocri convenienze e brutte miopie, ha espresso sulla storia del Partito Socialista (solo ora si schiudono un po’ le porte) e quindi dalla mancanza di condivisione delle analisi. Io provo a dire nel libro che essa dipende anche dal rapporto che i socialisti hanno rielaborato in ordine alle cause della loro sconfitta.
Cosa vuol dire esattamente?
La battaglia politica e quindi anche comunicativa che Craxi condusse comportava la previsione (di tradizione illuministica) di vedere in vita i cambiamenti di cui si era portatori. Quindi accanto alla proposta c’era anche un messaggio di ottimismo sugli esiti. Una sorta di sicurezza del successo. Chi era dotato di strumenti culturali solidi capiva il senso “comunicativo” di questo profilo. Molti l’hanno preso però sul serio fino in fondo, cioè un po’ a-criticamente. Il risultato è stato che è mancata una scuola della “sconfitta possibile”, alla quale – per loro ragioni di formazione politico-culturale – erano più predisposti comunisti, cattolici e forse anche i più intelligenti tra gli ex-fascisti. La modesta elaborazione comune di “sofferenze” ha trasformato la sconfitta in uno sfacelo. Di merito e di metodo. Qui si sono aperte due letture fondamentali: chi ha dato tutta la colpa agli altri (comunisti e magistrati) e chi ha dato tutta la colpa a sè (e al proprio capo). Non voglio dire che qui stiano la ragioni dell’attuale schierarsi a destra o a sinistra, ma qualcosa di vero c’è. Per mio conto (e questo credo che sia anche il profilo di lettura che sta tentando la nuova serie di Mondoperaio diretta da Gigi Covatta a cui collaboro) credo che sia bene fare un passo indietro rispetto a queste due modalità un po’ di maniera, per distinguere, valutare contesto per contesto, insomma per accorpare diversamente storie e ragioni.
Tornando al tema della comunicazione politica, dove vanno individuate le innovazioni introdotte nell’esperienza del PSI?
Prima di tutto in una lettura della storia e dei simboli. Aver integrato la storia sociale (classi, lavoro, emancipazione, lotte per la libertà e i diritti) con la storia della Nazione e con il farsi dell’Europa è il merito di un partito e di un gruppo dirigente che ha saputo, anche simbolicamente, fare quello che nessuna forza politica italiana aveva fatto (la DC lo avrebbe potuto fare ma la sua “dispersione quantitativa” di partito di massa ne rendeva più blanda e meno prorompente la comunicazione); e che, facendolo (nella grafica, nelle affissioni, nei congressi, eccetera) muoveva sentimenti e cambiamenti. La presa di distanza dal fascismo e dal comunismo, il raccordo con la tradizione risorgimentale italiana e con il presidio della libertà e dei diritti umani nel mondo, insieme al sostegno dell’Italia competitiva e dei nuovi ceti produttivi è tuttora la linea di comunicazione di un ideale partito moderno che fatica a vedersi in giro. Poi ci sono aspetti legati alla leadership in cui c’è stata anticipazione. E infine una connessione con la visibilità (grazie anche alla cura che i tecnici della comunicazione del PSI, come Angelo Molaioli, hanno avuto per curare la coerenza e la non dispersione stilistica almeno dalla fine degli anni settanta in poi).
Ma questo libro non è solo sulla comunicazione dei socialisti ma anche sulla politica riguardante la comunicazione dei socialisti. Ha avuto senso mescolare le due cose?
La visione del problema comunicativo le connette. Da un lato c’è una storia del rapporto “diretto” con i cittadini e gli elettori. Dall’altro lato c’è una storia del rapporto “mediato”, quello che passa attraverso le molteplici superfici – professionali, imprenditoriali, tecnologiche – dell’informazione e della comunicazione. In questa visione c’è una storia piuttosto maiuscola di alcuni anni di progettazione e proposta (fine anni settanta, metà anni ottanta) in cui i socialisti hanno cercato di modernizzare tutto il sistema della cultura e della comunicazione del paese. Producendo eredità di cui si sono serviti in molti (senza pagare copywriting spesso). Aver concepito prima di tutti che nella comunicazione c’era una nuova economia planetaria e aver immaginato che servivano regole per generare concorrenza e libertà resta un capitolo storpiato e poco applicato, in cui sono scritti errori della politica italiana degli ultimi venti anni.
Nel discorso destra e sinistra che riguarda oggi la posizione dei socialisti il ruolo della Fondazione Craxi appare delineato. Ciò ha influito sulle ricerche e sui risultati del libro?
La Fondazione Craxi opera per valorizzare l’esperienza politica e istituzionale di Bettino Craxi e quindi inevitabilmente non può essere schierata dal momento che chi ha strettamente lavorato attorno al progetto socialista di Craxi ha preso strade multiformi. Questa è anche la visione del Comitato scientifico della Fondazione ed è anche la volontà personale di Stefania Craxi che, anche in questa occasione, ha avuto nei miei confronti l’identica cristallina attitudine di suo padre, di cui a Palazzo Chigi sono stato direttore generale : lasciarmi la più piena libertà.
CORRIERE DELLA SERA
15 LUGLIO 2009 – pOLITICA – pAG. 16
15 LUGLIO 2009 – pOLITICA – pAG. 16
La figlia Stefania, sottosegretario in carica: felice di sentirgli dire queste parole
Veltroni su Craxi:
«Innovò più di Berlinguer»
«Innovò più di Berlinguer»
Svolta dell’ex leader pd: solo lui capì davvero la società, insufficienti gli sforzi di Enrico
Ottobre 1983: l’allora presidente del Consiglio, il socialista Bettino Craxi e il segretario del Pci Enrico Berlinguer
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ROMA — Craxi? «Interpretò meglio di ogni altro uomo politico come la società italiana stava cambiando». La sua politica estera? «Fu grande. Ci fu l’episodio di Sigonella ma anche la scelta di tenere l’Italia nella sfera occidentale, senza intaccare autonomia e dignità del Paese». Parole di Walter Veltroni (dirigente per trent’anni di Pci, Pds, Ds, ex segretario pd) davanti a Stefania Craxi, la figlia del leader socialista che fu capo del governo dall’83 all’87. Occasione, il libro di Stefano Rolando, Una voce poco fa. Politica, comunicazione e media nella vicenda del Psi dal 1976 al 1994.
Veltroni, asciutto e disteso, in attesa dell’uscita a fine agosto del suo nuovo romanzo, effettua, nella Sala della Mercede della Camera, un altro strappo con il suo passato. Ricorda che Craxi aveva di fronte due grandi partiti, uno sempre al governo — la Dc — e uno sempre all’opposizione — il Pci — in un sistema che stava bene a entrambi: massimo di stabilità e massimo del debito pubblico: «Craxi decise che bisognava cambiare gioco, porre la sinistra di fronte al problema di una nuova leadership ». Il Pci, intanto, si trascinava quella grande macchia, il 1956, l’invasione dell’Ungheria: «Ho riletto i verbali delle riunioni del partito, fanno accapponare la pelle». Craxi nel ritratto tutte luci e niente ombre che ne fa Veltroni, disegna un partito diverso, rispetto ai modelli del Novecento, Pci e Forza Italia, «un partito fluido, moderno, capace di raccogliere anche ciò che non è omogeneo a sé, ma che si unisce attorno a determinate idee». E sembra che rievochi il suo Pd. Craxi innovava ma, negli stessi anni, anche Berlinguer trasformava il Pci. Con uno sforzo, dice Veltroni, già giovane collaboratore di Berlinguer, «non sufficiente al processo che bisognava mettere in campo. Il Pci soffriva l’innovazione come tale». Eppure Berlinguer non era certo un conservatore: «Sono tra quelli — dice Veltroni — che pensano che l’Unione sovietica abbia fatto di tutto, ma proprio di tutto, per togliere di mezzo Berlinguer…». La platea è piena di socialisti di un tempo. Antonio Ghirelli, già portavoce di Pertini. Gennaro Acquaviva, che fu trait d’union fra socialisti e cattolici. Luigi Covatta, sottosegretario di Craxi. Enrico Mentana, prima tessera Psi nel 1974, a 19 anni. Ma spuntano anche l’ex ministro Francesco De Lorenzo, come Craxi coinvolto in Tangentopoli e Gustavo Selva. Nella ricostruzione di Veltroni un’ombra, per la verità, c’è e riguarda l’ultima fase del craxismo: «Referendum 1991, sulla riforma elettorale: Craxi anziché dire ‘andate al mare’, avrebbe dovuto usare quella leva per promuovere il bipolarismo. E la riforma sarebbe potuta avvenire solo con una leadership riformista e non con una post-comunista». Era Craxi, insomma, il capo naturale a sinistra. Nella memoria di Veltroni c’è anche spazio per un ricordo che lo accomuna al leader socialista. «Nel ’96 io dissi: ‘Un giorno o l’altro si dovrà arrivare a un’Internazionale né comunista né socialista, ma democratica. Nel mio campo, un’affermazione difficile da fare. Ma era lo stesso concetto che esprimeva Craxi. Oggi è naturale per tutti pensare che Obama e il partito indiano del Congresso stiano assieme nel medesimo organismo mondiale». Stefania Craxi dice che è «felice di sentire Walter parlare così». Ma non è indulgente come Walter. Afferma che il Psi di Craxi cadde anche per mano dei grandi giornali di proprietà dei «poteri forti», Fiat e De Benedetti, in disaccordo con Confindustria sul decreto che tagliava la scala mobile: «Quei grandi giornali si portarono dietro altri giornali, come l’Unità , diretta all’epoca da Veltroni, qui presente…» .
Veltroni, asciutto e disteso, in attesa dell’uscita a fine agosto del suo nuovo romanzo, effettua, nella Sala della Mercede della Camera, un altro strappo con il suo passato. Ricorda che Craxi aveva di fronte due grandi partiti, uno sempre al governo — la Dc — e uno sempre all’opposizione — il Pci — in un sistema che stava bene a entrambi: massimo di stabilità e massimo del debito pubblico: «Craxi decise che bisognava cambiare gioco, porre la sinistra di fronte al problema di una nuova leadership ». Il Pci, intanto, si trascinava quella grande macchia, il 1956, l’invasione dell’Ungheria: «Ho riletto i verbali delle riunioni del partito, fanno accapponare la pelle». Craxi nel ritratto tutte luci e niente ombre che ne fa Veltroni, disegna un partito diverso, rispetto ai modelli del Novecento, Pci e Forza Italia, «un partito fluido, moderno, capace di raccogliere anche ciò che non è omogeneo a sé, ma che si unisce attorno a determinate idee». E sembra che rievochi il suo Pd. Craxi innovava ma, negli stessi anni, anche Berlinguer trasformava il Pci. Con uno sforzo, dice Veltroni, già giovane collaboratore di Berlinguer, «non sufficiente al processo che bisognava mettere in campo. Il Pci soffriva l’innovazione come tale». Eppure Berlinguer non era certo un conservatore: «Sono tra quelli — dice Veltroni — che pensano che l’Unione sovietica abbia fatto di tutto, ma proprio di tutto, per togliere di mezzo Berlinguer…». La platea è piena di socialisti di un tempo. Antonio Ghirelli, già portavoce di Pertini. Gennaro Acquaviva, che fu trait d’union fra socialisti e cattolici. Luigi Covatta, sottosegretario di Craxi. Enrico Mentana, prima tessera Psi nel 1974, a 19 anni. Ma spuntano anche l’ex ministro Francesco De Lorenzo, come Craxi coinvolto in Tangentopoli e Gustavo Selva. Nella ricostruzione di Veltroni un’ombra, per la verità, c’è e riguarda l’ultima fase del craxismo: «Referendum 1991, sulla riforma elettorale: Craxi anziché dire ‘andate al mare’, avrebbe dovuto usare quella leva per promuovere il bipolarismo. E la riforma sarebbe potuta avvenire solo con una leadership riformista e non con una post-comunista». Era Craxi, insomma, il capo naturale a sinistra. Nella memoria di Veltroni c’è anche spazio per un ricordo che lo accomuna al leader socialista. «Nel ’96 io dissi: ‘Un giorno o l’altro si dovrà arrivare a un’Internazionale né comunista né socialista, ma democratica. Nel mio campo, un’affermazione difficile da fare. Ma era lo stesso concetto che esprimeva Craxi. Oggi è naturale per tutti pensare che Obama e il partito indiano del Congresso stiano assieme nel medesimo organismo mondiale». Stefania Craxi dice che è «felice di sentire Walter parlare così». Ma non è indulgente come Walter. Afferma che il Psi di Craxi cadde anche per mano dei grandi giornali di proprietà dei «poteri forti», Fiat e De Benedetti, in disaccordo con Confindustria sul decreto che tagliava la scala mobile: «Quei grandi giornali si portarono dietro altri giornali, come l’Unità , diretta all’epoca da Veltroni, qui presente…» .
Andrea Garibaldi
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La riabilitazione di Craxi non salverà i giustizialisti
Fabio Ranucci
Veltroni riabilita Craxi: un gesto postumo, tardivo, a dispetto della pubblica disapprovazione di buona parte degli ex Pci e destinato ad alimentare inutili speranze. E il perché è presto detto. L’ex segretario del Partito democratico sceglie una platea a prevalenza socialista, a Roma, in occasione della presentazione del libro di Stefano Rolando “Una voce poco fa”, per dire che Bettino Craxi aveva intuito, in anticipo rispetto agli altri, la necessità di una svolta nella società italiana. “Craxi – sostiene Veltroni – interpretò in quegli anni meglio di ogni altro uomo politico il cambiamento della società in Italia, sia dal punto di vista del mutamento sociale che della politica estera e delle strategie di comunicazione”. Ma poi ha dovuto “fare i conti con un paese bloccato, dove c’erano due grandi partiti di cui uno sempre al governo e l’altro sempre all’opposizione e, particolarità tutta italiana, con il massimo della stabilità nonostante l’assenza di alternanza. Quindi decise che bisognava cambiare gioco e dare alla sinistra una nuova leadership. Purtroppo – prosegue Veltroni – altrettanto non avvenne nel Pci: Enrico Berlinguer non comprese quel mutamento della società. E anche Craxi commise un errore nell’ultimo periodo della sua segreteria: aveva perduto la misura di ciò che stava accadendo e così non seppe cogliere l’opportunità offerta dal referendum elettorale sulla preferenza unica del ‘91 e invitò gli italiani ad andare al mare. Ma quella era l’occasione – secondo Veltroni – per dar vita in Italia a un vero bipolarismo, che avrebbe fatto prevalere nella sinistra una leadership riformista e non postcomunista”. Craxi innovatore e lungimirante, dunque, a differenza di Berlinguer.
D’accordo. Non è un mistero per nessuno che il leader del garofano, davvero statista, aveva preconizzato che nel momento in cui la globalizzazione stava prendendo il sopravvento occorreva creare una nuova forza riformista attraverso un processo graduale, che il Psi aveva già avviato a metà degli anni Settanta. Certo, oggi Veltroni utilizza le argomentazioni giuste anche se lo fa “a titolo personale”. Non osserva però che nel ‘91, in occasione della consultazione referendaria, in Italia c’era già un clima anticraxiano, capeggiato dal Pds di Achille Occhetto con l’avallo di una parte della magistratura e di alcuni poteri forti europei e statunitensi. In sostanza, da coloro che contribuirono a isolare il segretario socialista e la sua politica. Adesso anche Walter è solo e dovrà fare i conti con la deriva del Pd e con le altre posizioni in vista del congresso del partito: quella populista di Pierluigi Bersani, quella anticlericale di Ignazio Marino e quella velleitaria e inconcludente di Antonio Bassolino. Senza contare l’avanzata degli alleati massimalisti e giustizialisti guidati da Antonio Di Pietro. La storia si ripeterà. Ché il gruppo dirigente che nascerà dal congresso del Pd non sarà all’altezza della situazione e quindi non avrà la capacità di avviare una approfondita analisi politica che possa condurre l’intero centrosinistra fuori dalle secche.
Veltroni e l’ex leader socialista
Il libro
di Guglielmo Giuliese
Da qualche giorno è possibile acquistare il libro di Stefano Rolando dal titolo rossiniano: “Una voce poco fa” ( aria del primo atto del “Barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini ) edito da Marsilio. Il libro voluto dal presidente della Fondazione Craxi, Stefania Craxi, fa luce su quel periodo che va dal 1976 al 1994, in cui il Partito Socialista Italiano guidato da Bettino Craxi, fece scuola nel modo di fare politica, comunicazione e nel modo di gestire e utilizzare i media. Quella “voce” nel titolo è naturalmente quella di Bettino Craxi, che in questi trent’anni (dalla sua morte in esilio ad Hammamet) non ha fatto altro che riecheggiare così come un’aria lirica particolarmente bella che ha lasciato un segno indelebile nella nostra anima imprimendosi per sempre nella nostra mente. Gli anni ricordati da Stefano Rolando nel suo libro, evocano un periodo in cui Craxi e i suoi illustri compagni di partito e di avventura politica, pensavano in grande e in modo lungimirante. I quattro anni di governo socialista a Palazzo Chigi, furono anni in cui si ridiede “voce alle istituzioni”, attraverso una comunicazione moderna e aggressiva. Una lezione che il socialismo in Europa di ieri ed europeo di oggi, non ha dimenticato. Inevitabilmente i ricordi oscillano tra quelli belli e quelli meno belli come ben raccontato nel libro. Tra quelli meno belli anzi forse sarebbe meglio dire tristi, due in particolare colpiscono perché indiscutibilmente emblematici: l’ultimo congresso socialista del 13 novembre 1994 in cui fu cancellato definitivamente il simbolo storico del PSI e la valanga politico-giudiziaria provocata dai giudici di Mani Pulite. L’opera di Stefano Rolando su Bettino Craxi e sul socialismo è una lettura da consigliare a tutti perché attuale e puntuale nel trasfonderci una verità apodittica su una eredità politica (di un grande uomo e un grande partito) lasciata non per essere sperperata ma condivisa e perpetuata
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Una voce poco fa – 15 luglio 2009, La Repubblica (M.Favale) su Veltroni e Craxi e altri interventi |
La Repubblica — 15 luglio 2009 pagina 12 sezione: POLITICA INTERNA
Craxi fu un innovatore la riabilitazione di Veltroni
MAURO FAVALE
ROMA – Tante luci: la politica estera, l’ organizzazione del partito, l’ innovazione nella comunicazione. Poche, pochissime ombre: la principale, aver sbagliato la valutazione sul bipolarismo e sul referendum del 1991. Bettino Craxi visto da Walter Veltroni è «un innovatore», l’ uomo politico che «meglio ha interpretato il cambiamento della società». Meglio anche di Berlinguer che, nel 1980, davanti ai cancelli di Mirafiori «si immolò dimostrando di non aver colto appieno ciò che stava accadendo». L’ elogio del politico Craxi, mai così netto, è arrivato ieri alla presentazione del libro di Stefano Rolando “Una voce poco fa“, commissionato dalla Fondazione Craxi, che prende in esame il rapporto tra Psi, media e comunicazione dal 1976 al 1994. Davanti a Stefania Craxi e a una platea di ex socialisti, Veltroni («finalmente libero di parlare solo per la mia persona») loda l’ ex premier, il cui unico neo è stato pronunciare quel «andate a mare» in occasione del referendum sulla preferenza unica del ‘ 91. «Se avesse colto quell’ occasione – afferma Veltroni – avrebbe dato vita ad un bipolarismo che avrebbe potuto incardinarsi solo su una leadership riformista, certo non post-comunista». Per Veltroni, Craxi innovò anche nell’ organizzazione del Psi. Perché, dice, guardando all’ oggi «non è possibile che le uniche forme-partito a cui rifarsi siano il Pci o Forza Italia. Ci dev’essere una capacità di esprimere una comunità, con una selezione di classe dirigente». Alla fine applausi. E mentre va via, un socialista gli sussurra: «Bravo, ma dovevi farlo prima». –
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http://www.fainotizia.it/2009/07/15/veltroni-va-alla-corte-di-bettina-certo-di-venirne-bacchettato-fatto-ma-ritorner%C3%A0
Veltroni va alla corte di Bettina, certo di venirne bacchettato. Fatto, ma ritornerà.
15/07/2009 – 17:12
Una voce poco fa qui nel cor mi risuonò canta Rosina nel Barbiere rossiniano. Ed “Una voce poco fa” ha scritto Stefano Rolando, già grand commis statale negli ’80-’90 (direttore generale dell’informazione sotto diversi premier, Craxi, Fanfani, Goria, De Mita, Andreotti, Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi) e poi regionale lombardo nei 2000. Il libro però Rolando l’ha pubblicato nella sua seconda vita, quella di docente dello Iulm, per la materia di Teoria della comunicazione, che da un bel pò è la più calda, la più rimirata e la più osservata: perchè si pensa subito Tv, ed il discorso si sposta su Tv e stato, cioè Tv e politica, quindi Tv e partiti. Più che una, le voci di Rolando sono molte, anche troppe, un coro di tanto tempo fa, tutte le voci di un partito di ormai trent’anni fa, il Partito Socialista Italiano dell’ascesa e caduta di Bettino Craxi nel ’76-’94. Anche stavolta lo sguardo degli storici cerca l’innovazione in quel tempo, sottintendendo l’uso della tv, e quello che ne avrebbe fatto poi Berlusconi.
Timidamente da un pò anche l’accademia si è decisa a considerare gli anni ’80 come un periodo storico e non solo un buffo caracollare di grease, ciuffoni post moderni reaganiani e volontà distruttive. Forse per questa scoperta tanto ritardataria degli addetti ai lavori il libro diventa la prima analisi sulla comunicazione del Psi del periodo. E’ dubbio che davvero in quegli anni la Tv ed i suoi messaggi avessero tanto peso per non parlare dell’uso praticamente nullo, talvolta censorio, sempre destruens che ne faceva l’apparato statale. Fortunatamente molto tempo è passato ma molto di noi l’hanno vissuto per poter testimoniare a correzione dei paraocchi degli storici. Così un esperto al di sopra di ogni sospetto, Enrico Mentana, tessera Psi ’76, delegato al congresso della diarchia Lombardi Craxi fa strage e strame di tante ubbie. Il Psi? un partito strutturato come il Pci, con cui condivideva tutto, Cgil, Arci, case del popolo, antifascismo, in un’epoca in cui l’anticomunismo non solo non poteva esistere, ma era semplicemente vietato e non solo a sinistra. Craxi? in un Psi residuale, nè medio, nè intermedio, un capo di transizione, leader della più piccola componente socialista, di cui non si sospettavano le capacità di leader, il programma, i contenuti che erano antitetici in fondo alla formazione dei militanti della sua organizzazione. I contenuti di Craxi, assai poco e male comunicati, da una stampa sempre pronta a deformarli, sono il punto dell’epoca, non la comunicazione, parola di giornalista. Ed in quanto tale proprio per un riflesso condizionato poi Mentana, non riesce a far meno di accostare l’idea della riforma della VIII° legislatura, col piano di rinascita democratica di Gelli. Docente alla Sapienza, Simona Colarizi ha scritto di Psiup, delle lacerazioni a sinistra, dei cambiamenti nella società italiana ed anche ne “La cruna dell’ago”, di Psi e Craxi, di cui ha messo una a fianco dell’altra le tessere del mosaico inconcluso nella memoria lacerata rimasta: affiancate le idee di soggetto più innovativo nel sistema politico italiano e di simbolo della partitocrazia in disfacimento, allarga le braccia lasciando ad un futuro la comprensione degli anni ’80, solo dentro i quali si potrà capire anche Craxi. La storica che è riuscita a definire precisamente ruolo e forza della pattuglia radicale di Pannella che per anni, a Psi morto, da mosca cocchiera, ne ha scippato il ruolo della sua forza libertaria di massa resta sempre interdetta, anche da amica, davanti l’argomento. Finisce per giudicare colpa di tutti l’aver rinunciato alla grande riforma per le semplici riforme elettorali, vera rovina di tutto. E le fa eco Mentana, trovando l’errore di Bettino- perché invitare ad andare al mare?- prima di lanciare la palla all’ospite importante di Stefania Craxi, Walter Veltroni che forse per la prima volta le siede accanto e sicuramente mai tanto rilassato. Su Craxi Uolter va in angolo, perché in fondo cosa si dice dei leader dipende dall’editore.. Poi la sua è una comica, volontaria e ben interpretata in cui tutti i gatti sono bigi, ma che colpa abbiamo noi, come si fa a ricostruire la partecipazione alla vita politica, come si reinventano le sezioni, dove mai sono finite. A parte il consiglio inevitabile di fare un corso presso l’ex An o la Lega, nel politico di professione che impunemente ammette l’arretratezza di Berlinguer finito sui cancelli Fiat, sembra lontana l’idea che ci vogliano dei contenuti per interessare la gente alla politica. a parlare del volume di Rolando, il trittico Mentana, Veltroni e Stefania Craxi, dà un quadro di malinconia. Il fondatore dei tg della Tv privata, uscitone con un tratto di penna. L’ex leader della capitale e della sinistra votato a milionate e che ora dice, sono libero di parlare (e di inseguire i grandi della terra con Clooney) Ed infine Bettina, che anche da sottosegretaria agli esteri, dove sembra più salda del fratello, alza in alto la bandiera di una stagione chiusa. Stefania Craxi però, anche incompresa dalla platea dei reduci, non recita esequie ma ripropone e ripropone testardamente di trarre conclusioni, guardare l’ovvio, imparare dai fatti. E’ un’impari lotta, portata al Senato ed a Casa Pound, al Campidoglio, tra i leghisti e tra gli industriali e che oggi segna un grande punto, la venuta anche di Uolter, silente nelle ammissioni ma ben presente, quando lo tsunami dell’ospite lo investe. Dopo una voce poco fa, Rosina terribile chiarisce che se mi toccano dov’è il mio debole, sarò una vipera e cento trappole prima di cedere farò giocar. Il giornalista, la storica, l’ex leader Pd sognano oggi di avere ancora Craxi, di partecipare a quell’Unità socialista, scritta all’ultimo nel logo di Bettino. Oltre il desiderio di tornare indietro, non c’è niente. Non vedono i contenuti craxiani, ora contrapposti a quelli berlusconiani, ora assimilati ma sempre considerati un niente, un comunicare il vuoto. Quei contenuti assenti nei discorsi degli storici, per non parlare dell’Uolter, Bettina li snocciola con nome e cognome: la lotta implacabile alla morte dei poteri forti, Fiat e De Benedetti, la campagna mai finita, falsa e bugiarda, dai toni di social fascismo gestita dal gotha dell’informazione, il tradimento cinico del Pci che ripagò l’entrata nella socialdemocrazia europea col giustizialismo di chi ha la trave nell’occhio; la promozione della libertà, dell’individuo, delle sue capacità anche fuori dalle corporazioni, la lotta alle dittature che per tutt’oggi sono per lo più comunismi, la riforma della scala mobile come difesa del lavoro nella realtà; ed ancora le in emendate incapacità di ammettere sbagli, errori e delitti come il sostegno delle dittature, dell’arretratezza, come l’antioccidentalismo, l’antiriformismo ed in fondo il cinico desiderio di potere con l’alibi di un’ideologia smentita anche nel profondo dei cuori. Ci sono colpevoli chiari, dice Bettina e di questi tempi sono le ultime parole, non c’è replica, se non le chicche di Rolando che ricorda per analogia le campagne del Financial Times contro Bettino. Uolter se ne va a palmi ben strigliati. Non è lontano il tempo in cui le responsabilità verranno ammesse. Meno chiaro è se il Pd ci arriverà o se per allora si sarà già sciolto.
L’Attimo fuggente
Direttore Cesare Lanza
UNA VOCE POCO FA:
POLITICA, COMUNICAZIONE E MEDIA NELLA VICENDA DEL PSI
Nel saggio di Stefano Rolando il tentativo di risvegliare gli storici da quel sonno della memoria che ha impedito un’analisi serena della storia italiana negli anni della leadership craxiana
Francesco Canino
“Una voce poco fa”è il titolo dell’ultimo libro di Stefano Rolando, docente di Politiche pubbliche per le comunicazioni e di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica allo Iulm di Milano, dove dirige anche il master universitario annuale in management della comunicazione sociale, politica e istituzionale. Uomo di stato, membro straordinario del Consiglio superiore delle comunicazioni, è stato per dieci anni, dal 1985-1995, direttore generale e capo del dipartimento informazione ed editoria alla Presidenza del consiglio dei ministri lavorando al fianco di Craxi, Fanfani, Goria, De Mita, Andreotti, Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini.
Perfetto conoscitore della pubblica amministrazione, presiede tra l’altro il Consiglio scientifico di forum P.A., Rolando ha accettato una sfida tanto ardua quanto ben riuscita: riuscire a raccontare le innovazioni e le intuizioni, apportate dal Partito socialista italiano e da Bettino Craxi nell’ambito della comunicazione politica e sociale. Un saggio dinamico ed incuriosente, edito da Marsilio e dalla Fondazione Craxi, nel quale l’autore accompagna per mano il lettore attraverso gli anni della segreteria Craxi, dal 1976 al 1994, raccontando risvolti e retroscena di un’epoca che ha segnato una svolta per la politica e la storia italiana e, al contempo, analizzando quei cambiamenti i cui frutti ancora oggi sono ben impressi sulla scena socio-politica del nostro Paese. L’analisi che trova spazio in un volume non si segnala per essere una critica feroce al partito del garofano rosso, ma nemmeno una stucchevole agiografia, come troppo spesso è capitato nell’ultimo quindicennio alle riflessioni attorno al Partito socialista e a Craxi. È piuttosto un tentativo di risvegliare gli storici e i contemporaneisti da quel “sonno della memoria” che ha impedito un’analisi serena su fenomeni e rapporti i cui riflessi si stagliano sulla realtà politica italiana.
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Come nasce questo libro? Lei parla di una sollecitazione da parte della Fondazione Craxi.
“Esatto. O forse è più preciso dire che c’è stato un mio intento raccolto dalla Fondazione. Raccolto giustamente, aggiungerei, perché è importante che una fondazione promuova studi e analisi di aspetti che la riguardano direttamente. Ma c’era soprattutto un mio interesse personale”.
Interesse che parte dal suo lavoro di docente legato alla comunicazione pubblica.
“Un’attenzione universitaria, che sollecita molte chiavi di lettura partendo dall’osservazione dell’esperienza, che mi fa pensare in primo luogo al cambiamento. C’è stato un ritorno alla tematica della leadership, argomento di grande attualità mi pare, che in Italia è stato sempre molto depresso, come in tutti quei paesi che hanno conosciuto la dittatura. E poi perché la presenza sul panorama politico della Democrazia cristiana ha impedito, di fatto, che si parlasse di leadership. Non si può dire che il Psi non abbia anticipato i tempi e un cambiamento che ha pesantemente condizionato la futura scena politica italiana”.
La genesi di questo libro sta anche nella sua lunga partecipazione diretta agli eventi?
“Aver vissuto da testimone privilegiato certe dinamiche mi ha regalato la possibilità di tradurre lo stimolo tecnico-scientifico che deriva da anni di vita e di lavoro. In più ho colto una personale, ma non solo mia, reazione intellettuale”.
Si spieghi.
“Abbiamo vissuto quello che potremmo definire il “sonno della memoria”. Negli ultimi quindici anni ci si è ben guardati dal provare a raccontare la storia del nostro Paese considerando anche l’apporto fondamentale dato dal Partito socialista e dal suo leader. Se da una parte il tentativo di riconoscerne i meriti del grande ruolo svolto nello scenario della politica internazionale, sul piano interno non si sono spese poche parole, per di più connotate o da grande rancore o da nostalgia. Ora che le cose iniziano a cambiare, si possono scansare un po’ di equivoci e tentare di fare un po’ di ricerca, certamente appassionata, ma seria”.
Il fatto che la committenza del libro arrivi dalla Fondazione Craxi l’ha in qualche modo influenzata o si è sentito libero di scrivere quello che voleva?
“Ho ritrovato la stessa completa libertà che ho sempre riscontrato lavorando con i socialisti e con Craxi. Se non ne fossi stato più che sicuro non avrei accettato, mi creda”.
Del resto poi “Una voce poco fa”è il prodotto di una pluralità di riflessioni che lei ha stimolato. Sono più di sessanta gli interlocutori che animano quello che la storica Simona Colarizi ha definito “un coro polifonico, dove appaiono voci contrastanti, ma mai disarmoniche”. Lei appare come il direttore di questo coro.
“È una definizione che la professoressa Colarizi ha fatto alla presentazione del libro e che mi piace molto perché ha colto una delle tre piste che ho seguito per scrivere questo libro. La prima è stata quella di rileggere la letteratura storiografica, povera per la verità, e una parte dello sterminato archivio della Fondazione Craxi. Poi mi sono potuto avvalere di una risorsa preziosa, cioè la memoria personale, avendo vissuto determinate fasi in prima persona. E poi, terzo spunto, creare un “coro”, cioè un dibattito che irrobustisce tema per tema l’analisi e gli argomenti di ogni capitolo, con interventi dei protagonisti dell’epoca, dirigenti socialisti, storici e giornalisti. Questo metodo di dibattito non è usato a caso, visto che è espressione del mondo socialista per creare un terreno di dialogo e confronto nel quale si possono misurare e contrapporre posizioni, anche molto distanti tra loro, come Martinotti e Pini”.Una pluralità di voci che spesso stimolerebbe un’analisi nell’analisi, proprio perché dalle risposte di questi sessanta interlocutori emergono sfumature e visioni molto distanti.
Cosa l’ha colpita di più dalla lettura completa di queste testimonianze?
“Che si coglie un accordo sulle ragioni dell’ascesa di Craxi e del successo della strategia comunicativa del partito, e un sostanziale disaccordo su quelle del declino: da una parte c’è chi dice che la colpa è del “nemico” esterno, cioè i giudici, il Pci e via dicendo, dall’altra invece chi pensa che molto dipenda anche dalle divisioni e da una profonda crisi interna al partito. Queste differenze appaiono sin dall’inizio e danno una risposta a quanti ancora non si spiegano la cosiddetta diaspora dei socialisti. L’ardimento era anche vedere se la riproposta di lettura degli avvenimenti potesse portare ad una convergenza tra questi due universi. Il risultato appare chiaro: per ora resta un no”.
C’è qualcosa che però accomuna questi due mondi: lo si capisce quando lei scrive che “il dismesso gruppo dirigente dispone di poca inclinazione autocritica” oppure quando Simona Colarizi parla di mancanza di “scuola della sconfitta”. Vuol dire che Craxi non li aveva preparati a perdere?
“Craxi aveva fatto delle proposte dirompenti, quasi da utopia illuministica. Aveva sostenuto che il riequilibrio a sinistra fosse possibile, che i governi della Dc non potevano più governare senza l’apporto dei socialisti: ha annunciato una vittoria possibile e il gruppo dirigente ha accettato questa sfida seguendo il leader, ma non ha saputo preparasi anche alla sconfitta, che in politica è invece sempre dietro l’angolo. Così persino quando la sconfitta finale era più che prevedibile anche i più lucidi hanno barcollato e ne sono usciti con un senso di stordimento molto forte”.
È stato facile ottenere le risposte di questi 60 testimoni? Nell’introduzione racconta che alcuni non hanno risposto, altri, come Piero Fassino, hanno prima accettato, ma poi non hanno mandato le loro opinioni, altri ancora si sono negati.
“Nel complesso è stato facile perché mi sono rivolto a persone che conosco e con le quali ho lavorato. Tutti sapevano che mi sono sempre posto al servizio di quella che io chiamo una riflessione di qualità. E questo non vale solo per “Una voce poco fa”. Il primo libro in assoluto che ho pubblicato s’intitolava “Caro Avanti”, edito da Marsilio, ed era un’analisi su mille lettere arrivate al quotidiano socialista tra il ’76-’78, che considero il biennio fondativo di una nuova era per il Psi. Sto parlando di un libro pubblicato nel ’79”.
Si può parlare di un caso Martelli? Perché il delfino di Craxi non ha risposto alle sue domande?
“Forse perché non ho fatto tutto quello che era necessario per cercarlo… ho provato attraverso mail e telefonate, ma i tentativi sono stati inutili. Amici comuni mi hanno riferito che in quel periodo stava a Berlino”.
Pensa che abbia letto il suo libro?
“Ci siamo incontrati poco tempo fa in aeroporto e non mi ha detto nulla. Mi piace pensare che un giorno lo farà e mi contatterà per dirmi le sue impressioni e ciò che pensa. Del resto nel saggio gli viene riconosciuto un ruolo molto importante e ci sono commenti molto lusinghieri sul suo operato. Ma è una persona complessa ed è difficile fare previsioni”.
Ci sono delle risposte che l’hanno particolarmente toccata?
“Ci sono incontri che mi hanno toccato, come quelli con Anna Maria Mammoliti, storica socialista, giornalista e fondatrice del Premio Minerva, che nonostante fosse già gravemente malata ha voluto dire la sua. Poi stupiscono le risposte di Giuliano Amato, considerato una persona fredda e distaccata, che invece ha espresso la sua chiave di lettura in maniera sofferta e partecipata”.
“Craxi innovò più di Berlinguer” hanno sintetizzato molti quotidiani parlando dell’intervento di Walter Veltroni alla presentazione di “Una voce poco fa”. Un discorso che ha spiazzato e ha creato la base per un ampio dibattito nel Partito democratico. Si aspettava una tale apertura da parte dell’ex segretario del Pd?
“No. Sapevo che Veltroni è aperto alle riflessioni storiche e ai cambiamenti, ma non mi aspettavo un ragionamento come il suo, che ribalta completamente la visione delle cose. Ha dimostrato un’onestà intellettuale fuori dal comune per un politico. Forse, una volta dismesso il suo ruolo dirigenziale nel partito, si è sentito più libero di dire ciò che pensa e medita da un po’ di tempo”.
Perché dice che Veltroni ribalta la visione delle cose?
“Le ribalta rispetto a quello che il Partito comunista ha sempre sostenuto e cioè che Craxi non aveva saputo interpretare i bisogni e i cambiamenti della società. Alcuni dei più importanti intellettuali comunisti, penso a Giuseppe Vacca, facendo un’analisi della disfatta del Psi hanno sempre sostenuto che il Partito socialista aveva perso di vista la realtà e che il potere non gli aveva permesso di comprendere i cambiamenti in atto. Anche D’Alema portava avanti questi ragionamenti quando parlava del declino degli anni ’80. Veltroni ribalta questa visione, smette di puntare il dito contro i socialisti, torna a parlare del grande ruolo di Craxi “uomo politico che meglio di ogni altro capì come la società italiana stava cambiando”. Dà una testimonianza forte e dà un contributo al dibattito su quegli anni”.
In questo cammino lungo diciotto anni quali sono state le innovazioni più grandi apportate da Craxi?
“Porre al centro della discussione politica la questione della leadership, imponendosi nel panorama politico come decisionista e pragmatico. Poi la grande rivoluzione simbolica, che passa attraverso il simbolo del partito che perde la falce e il martello, le grandi scenografie dei congressi e l’attenzione alla grafica delle tessere e dei manifesti. E poi ancora l’attenzione alla comunicazione intesa come accompagnamento alla politica, cioè annuncio degli obiettivi del partito e il loro raggiungimento. E poi il rilancio competitivo del paese Italia nonostante i grandi problemi che minavano la vita dello Stato, dal debito pubblico al terrorismo”.
Partiamo dalla scelta di togliere definitivamente la falce e il martello dal simbolo.
“È una decisione presa solo alla fine degli anni ’80, dopo una lunga e attenta riflessione. Craxi comprende che il partito vive da sempre una storia bicefala, con i massimalisti contrapposti ai riformisti e, benché pensasse da parecchio a cambiare il simbolo lo tiene fino all’estremo perché sa che rappresenta una sintesi importante. Non c’è insomma faciloneria nel cambiamento che è figlio di lunghe riflessioni e non del marketing come accade oggi”.
Nell’ultima parte del libro c’è una lunga carrellata attraverso i simboli del partito, appunto, ma anche dei manifesti elettorali, delle tessere del partito e delle varie pubblicazioni editate dal partito.
“L’ho voluta questa parte per far capire, soprattutto ai più giovani, quanto Craxi sia stato anticipatore da questo punto di vista: non a caso è il primo ad introdurre una sorta di presidio della grafica e ad intuire l’importanza del branding anche in politica”.
Pensando alla comunicazione molti ricordano le scenografie dei congressi come punto di svolta, molto criticato, ma poi molto copiato.
“Assolutamente. Le intuizioni di Filippo Panseca venivano tartassate, salvo poi copiarle qualche tempo dopo. C’era chi le considerava provocazioni al servizio del grande capo, ma erano invece intuizioni moderne e di grande impatto comunicativo. Il tempio a Rimini o la piramide a Milano sono scenografie che ancora ci ricordiamo e questo dice quanto fossero riuscite”.
C’è un capitolo dedicato ad un altro ambito dell’era craxiana sempre molto criticato e discusso: quello dei rapporti con il mondo dello spettacolo.
“Perché ci si ferma spesso all’apparenza dei rapporti, non capendo che Craxi aveva immaginato che accanto all’impegno ci potesse essere anche il disimpegno. Che attraverso il rapporto con artisti come Ornella Vanoni, Caterina Caselli o Lucio Dalla si potessero cogliere degli strumenti più lievi per capire la gente e per far capire alla gente che cosa si voleva comunicare. Era come avere un accesso privilegiato al Paese, un rapporto più diretto. Come ha detto anche Veltroni, Craxi intuì molto presto che bisognava essere capaci di raccogliere anche ciò che non è omogeneo a sé, ma che si unisce attorno a determinate idee: anche questo ragionamento fa capire la modernità di un leader attorno al quale possiamo cominciare a discutere più serenamente, senza pregiudizi o ruffianerie”.
Dice di sé.Francesco Canino.
Nato a Torino ventotto anni fa, laureato in scienze politiche. Avrebbe voluto scrivere un libro su Bettino Craxi e sul suo ruolo di innovatore nella comunicazione politica Italiana, ma c’è chi l’ha già fatto, e meglio di come avrebbe potuto farlo lui. Pur non credendo nella reincarnazione, nella vita precedente pensa di essere stato un ozioso aristocratico nell’antica Roma morto (continuando a mangiare) durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Collabora con i settimanali della Mondadori “Tu”, “Style” e “Confidenze”.