Una nota di lettura di Celestino Spada (15 novembre 2011)
Celestino Spada, per molti anni dirigente della Rai
e attualmente coordinatore redazionale di “Economia della cultura” (Il Mulino)
ha scritto il 15 novembre la seguente nota di lettura
e attualmente coordinatore redazionale di “Economia della cultura” (Il Mulino)
ha scritto il 15 novembre la seguente nota di lettura
Caro Stefano,
ti scrivo del vs libro in giorni di attesa e di speranza che quando abbiamo cominciato a scambiarci queste note erano circoscritte a Milano e davvero timidamente guardavano alla scena nazionale. Oggi dominano i sentimenti e le percezioni immediate e non è male per me mettere in fila considerazioni e riflessioni che mi consentono di rimanere, per così dire, laterale rispetto al presente.
Come si scriveva una volta, Giuliano Pisapia, l’uomo e il politico, è offerto al lettore più o meno ignaro (mettimi fra i medi) che ha la possibilità di scoprire una persona originale per scelte di vita e percorsi di pensiero anche politico. Rispetto alla campagna elettorale, che lo ha rivelato ai suoi concittadini e a quanti vi hanno seguìto, sapete voi cosa non c’è: qui prevale la messa a distanza, la riflessione e l’approfondimento in varie direzioni e c’è più di una traccia per intuire la ricchezza e la varietà della scoperta da parte vostra di persone e realtà anche già note. Quanto alla portata politica generale dell’esito elettorale, mi sembra che Aldo Bonomi, sulla Stampa di sabato scorso, sia ottimista: sarebbe prudente dire che con la vittoria di Pisapia a Milano comincia la fine del berlusconismo (e non è stato uno scherzo, l’inizio).
Le riflessioni che mi ha suscitato la lettura del vs libro ruotano attorno a tre nuclei tematici:
– l’orizzonte politico del candidato Pisapia,
– la possibilità e la necessità di ridefinire i caratteri e la qualità della “conversazione” pubblica in Italia,
– le condizioni della sfida del sindaco Pisapia.
A. L’orizzonte politico del candidato Pisapia
E’ molto interessante tutta la parte dell’intervista in cui vengono esposte le considerazioni del candidato sulla sua esperienza politica e sui rapporti con il suo stesso ambiente di riferimento. Non la faccio lunga perché questa non è una recensione e vengo subito al sodo del mio punto di vista. Per me la liquidazione della presenza in Parlamento delle formazioni alla sinistra del Pd a seguito dell’esperienza del Prodi 3, e come risultato delle elezioni del 2008, fatte tutte le tare possibili, è stata il segno e la conseguenza del fatto che quelle formazioni avevano deluso, se non tradito, l’aspettativa di governo dei loro elettori. Anche chi aveva votato per loro nel 2006 aveva dato credibilità e fiducia a quello schieramento di centro sinistra e si aspettava un’azione efficiente di governo. Nella gestione di quel capitale di consensi ha prevalso invece in quelle formazioni la testimonianza della propria diversità e un contributo attivo all’indebolimento e al discredito di quell’alternativa di governo al centro destra: un’attitudine che i loro gruppi dirigenti hanno pagato subito.
Ho avuto l’impressione, leggendo, che alla base della decisione di Giuliano Pisapia di candidarsi a Milano ci siano state anche considerazioni di questo tipo. C’è una frase che chiude un lungo scambio fra voi che mi sono segnata: “Il mondo di oggi richiede soluzioni, ragioni di governo del cambiamento, non nenie” (p. 136).
La posta era chiara: il governo della città. Mentre una profonda convinzione, qui resa esplicita e ribadita alla tue molte domande, ha guidato e sorretto i modi e i caratteri impressi alla sua campagna – “non collocare i soggetti che stanno in quel perimetro in posizioni pregiudizialmente in contrapposizione (cosa che a livello nazionale non sta succedendo)” (p. 106), raccordare gruppi e segmenti più o meno organizzati o dispersi nella delusione e fare di essi la base di una piattaforma sociale e territoriale di consenso e la prima maglia di una rete più vasta di relazioni socio-culturali nella città, da rendere efficiente a livello elettorale.
Qui, secondo me, c’è di fatto una proposta da considerare per costruire l’alternativa elettorale e politica al centro destra a livello nazionale. Non è il vecchio adagio pas d’ennemis à gauche che resta nel perimetro della politica politicante (so di essere impreciso, ma siamo in Italia). Nelle risposte di Pisapia, l’attenzione ai gruppi e ai ceti ai margini della vita sociale e politica cittadina, e anche alle enclaves gauchistes mantenute in vari modi da decenni, è alla base di un lavoro non solo o tanto “politico”, quanto piuttosto di rammendo del tessuto sociale (quasi che la forma “politica” da essi assunta sia stata qualcosa che ha tenuto ferme la frattura e la patologia più che sanare quelle membra, reintegrandole nel metabolismo di una comunità rinnovata). Questa visione e questa intenzione non tattiche mi sembrano il motivo e la base dell’incontro con l’iniziativa nel sociale dei gruppi cattolici, parte costitutiva e così significativa dell’esperienza della Chiesa ambrosiana. Ma anche la base e il motivo del suo dialogo con ceti e ambienti non associati o addirittura lontani ed estranei alla dimensione partitica dell’alternativa al centro destra: l’idea di Milano come una comunità e dell’egemonia e del ruolo politico del centro destra sui ceti un tempo dirigenti la città come un fraintendimento e quasi una patologia, causa e seguito di una delega protratta negli anni, dalla quale riscattare le sue istanze vitali per recuperare il presente e ambire a un futuro degno.
(Quasi che il berlusconismo sia “passato” a Milano e nel paese e sia divenuto egemone quando le classi dirigenti urbane e i ceti medi di paese hanno cessato di considerarsi parte di una comunità, con un ruolo da svolgere in essa e nella quale costruire il futuro proprio e dei propri figli, e si sono dati a un privato individualistico e totalizzante (la Lega si porta dentro, al confronto, più città e territorio (e, vediamo anche, più famiglia), mentre si capiscono le alleanze anche politiche con i ceti urbani del Sud dove le tradizioni civiche sono meno radicate – per tutti la Sicilia fin dal 1994). Forse una buona iniezione di sociologia urbana farebbe capire più di quanto abbia fatto in questi anni la sociologia centrata sui modelli e gli stili di vita, pronta più a fare il verso e ad esaltare questi fenomeni, che a spiegarli nel loro radicamento sociale e territoriale.)
Sul campo Pisapia si è dimostrato un politico ben più consapevole di questa dimensione della politica e più capace di molti dei suoi interlocutori preclari, che tu citi uno per uno e ai quali egli dedica quelle che mi sono apparse espressioni di affettuoso congedo. E più capace anche del Pd che nella prospettiva del berlusconismo mi pare abbia vissuto tutta la fase del “si salvi chi può” del dopo-Pci e oltre, fino ad oggi, almeno e soprattutto nei suoi esponenti nazionali. (Non parlo di Torino e della sua classe dirigente di cui il Pd è parte integrante e per la quale, come sai, ho un debole.)
Ed è stato bello vedere l’ex “cane sciolto relazionato” farsi, da “indipendente” della rifondazione comunista, protagonista e testimone in prima persona di una possibile ripresa dell’iniziativa riformista in Italia, a cominciare da Milano. (Personalmente ho avuto sempre un debole per i cani sciolti in generale e per gli “indipendenti” nelle liste del Pci in cui militavo, fino a dare talvolta le mie preferenze solo ad essi, come mi fu fatto notare con rammarico in sezione da un compagno-amico.)
B. La possibilità e la necessità di ridefinire i caratteri e la qualità della “conversazione” pubblica in Italia
Le scelte e il patrimonio di esperienza, la persona e l’immagine di Pisapia-giurista garantista hanno certamente contribuito a rendere passibile di “universalità” la sua candidatura di parte. Nell’intervista questo aspetto è ben evidenziato soprattutto nel senso di posizioni non precostituite e di prova della probità personale, oltre che professionale, del candidato. Secondo me questi elementi, oggettivamente rilevabili nei pareri espressi, possono aver “lavorato” anche a un altro livello.
E cioè, nel contesto bipolare ormai ventennale di un’opinione dichiaratamente e programmaticamente partigiana e di un confronto pubblico non solo militarizzato nell’offerta televisiva come dell’informazione quotidiana a stampa, ma anche incanaglito da attitudini diffuse e incoraggiate al discredito e alla squalifica degli interlocutori, l’avvocato e politico Giuliano Pisapia, uomo di parte, testimoniava, nel corso degli stessi anni, di un’altra attitudine e di altre possibilità della stessa politica: il riconoscimento del carattere oggettivo dei problemi anche più controversi, la possibilità e anzi la necessità di misurare le ideologie e gli orientamenti più diversi sulla realtà, e di ricercare, in piena libertà da posizioni precostituite, le soluzioni più adeguate in termini di concretezza e più valide in termini di tutela dei diritti e del valore e della dignità della persona. Metodo, valori e obbiettivi in cui tutti ci si può riconoscere, che possono essere posti alla base e devono regolare la nostra convivenza anche nelle fasi più turbolente e sulle questioni più controverse.
Nella sostanza, nel clima di opinione in cui siamo immersi e da cui molti si sentono soffocati, il tratto personale e il credito professionale di Giuliano Pisapia hanno assunto una particolare valenza politica, generale. Questo, a mio parere, è stato ed è il presupposto intellettuale e politico della “gentilezza”: non, credo, solo un efficace slogan per la fase finale della campagna – in paradossale contro-tendenza quanto più si arroventava lo scontro – ma la proiezione di una scelta di rispetto per gli altri (e per sé) che apre la strada alla rifondazione della politica: non una “verità” centrata sull’esprit de coterie e sulla appartenenza, né una coesione nutrita anche, se non soprattutto, di connivenza – certo a spese dell'”altro” ma anche del bene comune, come mostra il fenomeno della “casta” – ma, prima di tutto, la ricostruzione e la manutenzione del tessuto della “civile conversazione” con una competizione che sia soprattutto ricerca e confronto di risposte, che si propongono alla condivisione, e di soluzioni di problemi da verificare in concreto nell’amministrazione della cosa pubblica, della comunità cittadina e nazionale.
In qualche modo, chi ha dato credito a Pisapia anche al ballottaggio ha negato alla politica il ruolo totalizzante che ad essa è stato dato (che i partiti, i leader, il leader si sono presi e hanno imposto a giornalisti e media, più o meno lottizzati) in questi anni nel discorso pubblico. E’ possibile che sia stato questo orizzonte mentale a motivare a farsi attivi e a formulare proposte, fin dall’avvio della campagna conoscendo il candidato, persone, ceti e ambienti professionali che in questi anni hanno delegato molte funzioni ai partiti o ne hanno accettato egemonia e dominio, con risultati per molti deludenti, e tutto sommato e alla prova dei fatti, anche deplorevoli. Un orizzonte mentale che dà spazio e riconosce l’utilità per l’azione pubblica e per la collettività di apporti non “schierati”, in particolare dell’analisi della realtà e delle valutazioni e dei giudizi della ricerca sociale, che in questi anni ha visto ridurre quasi a zero la sua presenza e la sua capacità di influenza nella formazione dell’opinione pubblica, nelle scelte amministrative, nelle politiche pubbliche – e nella verifica dei loro risultati. Dopo tanti anni di pensiero davvero debole, un bel ritorno di fiamma dell’illuminismo e del positivismo proprio con il contributo decisivo di Milano, che ne dici? (Potrebbe essere questo, anche Mario Monti?)
C) Le condizioni della sfida del sindaco Pisapia
La vostra conversazione sull’impegno e la sfida del nuovo sindaco, così circostanziata per i terreni e le molte implicazioni delle modalità che può o deve assumere il rapporto con i cittadini e delle scelte amministrative, e così aperta e anche insistita su premesse o finalità non partitiche o “politiche” in senso stretto, relative all’elettorato da conquistare e ai cittadini, tutti, da attrarre nel e con il buon governo, è una bella lezione di ambizione ed esigenza, di sguardo lucido e di rifiuto della demagogia.
In effetti, lo sfascio è tale – non saremmo a Monti presidente del consiglio incaricato, altrimenti – che non si sarà mai abbastanza ambiziosi ed esigenti nel porsi gli obbiettivi di una ripresa e di un rilancio, che non possono che assumere i caratteri di un riscatto. E per quel che Milano ha rappresentato e può tornare a rappresentare, di certo non è da lì che si può cominciare al ribasso.
Si capiscono quindi le domande di p. 239-241 su quanto possa e debba fare il nuovo governo della città e una rinnovata azione amministrativa per trarre i cittadini fuori dall’attuale degrado della coscienza civile prima ancora che pubblica – etica del lavoro, produttività, senso civico e responsabilità anche verso i giovani e il futuro -, ma si capisce anche la tenace replica che dalla politica, anche a livello di un’amministrazione comunale così importante, non ci si deve aspettare che vengano tutte le risposte. A parte l’implicazione “totale” per così dire di una tale aspettativa (che ovviamente non c’è nelle tue domande) qui è in gioco e alla prova proprio il carattere “plurale” della società, dell’economia come delle agenzie di formazione e informazione, l’assetto pluralistico in termini di ruoli autonomi, di poteri indipendenti, di responsabilità, di trasparenza e di controlli efficaci, che lo Stato e la politica devono tener libero dalle posizioni dominanti e da tutti i conflitti di interesse (possibili anche a livello locale): il terreno di coltura di quella specie di democrazia totalitaria sperimentata in questi anni, che sussiste anche nell’attuale eclisse della leadership politica di Berlusconi e sopravviverà ad essa, se non si agisce con determinazione e costanza a tutti i livelli.
Un problema, che non riguarda solo Milano ovviamente, e che si potrebbe enunciare così: quanto è integrata nei circuiti istituzionali e di gestione amministrativa o politica la cd. società civile? e che cosa si può fare per coinvolgerla nell’azione di governo sciogliendo questi nodi ed evitando che essi tornino a strangolare nei cittadini i processi di identificazione e di partecipazione alla vita della città, che la campagna elettorale e l’affermazione di Pisapia hanno contribuito a riattivare?
E’ evidente che qui i singoli – il sindaco e anche la sua squadra – non bastano, e a ragione Pisapia nota che anche i partiti devono cambiare. Stando e guardando a Roma direi anche e piuttosto che i partiti sono oggi integrati, organicamente integrati, in quel circuito politico-sociale – anzi, hanno contribuito a crearlo e ora a conservarlo – che salda ruoli e funzioni che l’alternativa di governo deve, non può non, separare se si vuole tornare a un governo efficiente della città, a ricondurre l’attività quotidiana di lavoratori, impiegati e dirigenti del “pubblico” agli obbiettivi di servizio dei loro uffici e delle loro funzioni. Presupposto indispensabile e condizione per promuovere e ottenere la disponibilità dei cittadini a partecipare, a contribuire con proposte e attività, a farsi parte attiva del rinnovamento e del rilancio della loro città.
Scusami se mi faccio trascinare un po’ dall’argomento: dell’arancione si è esaltato il gioco e la beffa, ma questa leggerezza d’animo e il senso inebriante di libertà ritrovata che si vede negli occhi di tante ragazze e ragazzi, e donne fatte e uomini di Milano, fotografati e filmati in quei giorni – e che sembra fuor di luogo a quelli che, giustamente, anche in questi giorni, ci ricordano che Berlusconi-premier è stato votato dalla maggioranza degli italiani e che qui non c’è una dittatura – nasce secondo me da un senso ritrovato di dignità, della propria dignità, personale prima ancora che politica (connessa, cioè, al successo proprio e alla sconfitta dell’altro). Perché quello che abbiamo scoperto in questi anni è che ci sono uomini e donne che possono liberamente rinunciare alla propria dignità, nel privato come nel pubblico, e che anche coloro che, potendo, non vogliono rinunciarvi, se sono minoranza o si fanno passivi o assenti, finiscono per perderla. Con il berlusconismo, chiamiamolo ancora così, ci siamo avviliti o siamo stati sviliti tutti, lo vedano o meno gli stranieri. Non si tratta di etica, ma di una condizione di fatto che induce negli individui un degrado etico. In piccolo, per così dire, lo si vede a Roma, da oltre dieci anni (e quindi già prima dell’attuale sindaco) città lasciata a se stessa (e non in buone mani) che si degrada giorno dopo giorno nello sfacelo della pulizia e del decoro urbano fuori del centro storico (ma anche qui spesso), nelle condizioni della viabilità, nello stato di molti servizi e, in particolare, del trasporto pubblico, nella latitanza quotidiana e diurna (salvo in orari e giorni di straordinari) dei vigili urbani sul territorio, nel collasso incombente del suo metabolismo quotidiano – una condizione così umiliante per la dignità di chi ci vive da poter essere sopportata giorno dopo giorno, solo distogliendo gli occhi e rimuovendola dalla coscienza, adattandosi appunto al degrado e, così, degradando se stessi. Non sono dinamiche psicologiche e sociologiche inedite, anzi; e certo c’è stato e c’è di peggio nella vita e nel mondo, ma a questo siamo, qui. Nelle risposte e nelle considerazioni del sindaco Pisapia c’è la consapevolezza della urgenza e della dimensione della sfida che sta di fronte a lui e alla coalizione di partiti e movimenti con cui ha vinto la battaglia elettorale: l’affermazione quotidiana nel governo della città del rispetto e del sentimento della cittadinanza come condizione ed esigenza del singolo e della collettività – la “buona politica”, che non c’è senza la dignità delle persone e il rispetto nei confronti degli amministrati. L’unica linea di azione e di impegno che può sperare di recuperare chi si astiene dal votare all’interesse e alla partecipazione alla vita della collettività cittadina e nazionale.
Beati voi che a Milano vi state ponendo questi problemi e con questa consapevole ambizione di buona società e di buon governo!
Per concludere,
mi piace citare qui alcuni passi nei quali si coglie uno stile di pensiero che capisco abbia sedotto la maggioranza dei milanesi.
– Quello di p. 148 sull’elettorato di destra in città e nel quadro nazionale: “Il messaggio serio che ho è piuttosto questo: la Milano che vorrei far maturare, far consolidare, è una città che va bene anche per molti di loro. Vorrei rassicurarli, non portar via il loro voto. Vedo disfacimento nel quadro che si sta annunciando.”
– Quello di p. 208 con la domanda sulla sconfitta dello “strapotere mediatico e televisivo che fino ad ora nelle elezioni ha sempre avuto la meglio, secondo la già citata formula ‘tot ascolti, tot voti'”. E la risposta: “Intanto è stato possibile. Forse anche perché tutto si è svolto in una città. E per giunta in una città relativamente piccola. Sarei cauto a trasferire l’esperienza di Milano su scala nazionale. Certo l’analisi approfondita di quanto accaduto sarà molto utile per le prossime sfide, non solo elettorali.”
– L’immediato approfondimento di p. 216-217:
“D. La campagna forsennata (zingaropoli, le moschee, gli estremismi, ecc.) si è scatenata come una scelta disperata proprio nel ballottaggio. Hai mai pensato che questa linea potesse crearti problemi? Cioè che intanto qualcosa potesse passare, stingere nell’opinione pubblica …
R. Sugli elettori del centro di Milano questa falsa propaganda, che spesso superava ogni limite di decenza, non spostava un voto. Nel mondo della rete creava effetti positivi per me, generava reazioni spiritose e ironiche. Ma nei quartieri popolari invece avrebbe potuto creare effetti seri. Mi è capitato di tornare in posti in cui solo due settimane prima avevo sentito grande vicinanza e grande sostegno, ritrovando diffidenza, paura, timori che io li avessi presi in giro o avessi raccontato cose non vere. E’ stato fondamentale disporre di una rete di testimoni radicati in quei quartieri, avere la forza di riprendere l’iniziativa, organizzare piccole e grandi assemblee, tornare a parlare, far vedere la realtà del mio programma elettorale, smascherare le bugie. La presa di certi discorsi c’è stata, ha spostato voti ma in modo insufficiente per la Moratti a ribaltare la tendenza. Abbiamo dovuto risalire giorno per giorno i rischi di quella che poteva apparire una folle denigrazione ma che in realtà mirava solo agli ambiti degli elettori più devoli e sprovveduti.” (p. 216-217) Dove vengono in primo piano ruoli e figure sociali, ceti e aree della città che solo, o soprattutto, la comunicazione televisiva e radiofonica mette in relazione e connette alla vita degli altri e della comunità locale e nazionale.
– E infine la domanda cruciale e la risposta a p. 210:
“D. Pensi di riuscire a conservare una eredità di questo clima?
R. Domanda non facile. Ci sono tensioni positive. Ogni aggregazione cerca ora una strada per mantenere la sua rete, le sue connessioni. I primi mesi di governo sono stati duri e non hanno ancora pienamente permesso di trovare percorsi per una fase nuova della sperimentazione, quella di gestione di attese molto alte in forma non demagogica.”
Fa bene, caro Stefano, mi fa bene, applicarmi alle vostre vicende. Chissà quando potremo pensare e parlare così di Roma. E intanto c’è Mario Monti …
Un abbraccio
Celestino