Lettera di Celestino Spada su “Quarantotto” – Roma, 1 agosto 2008

Caro Stefano,
avevo sentito gli interventi alla presentazione del libro a Roma, poi c’è stato l’articolo di De Rita sul Corriere e da qualche giorno mi trovo a leggere il tuo Quarantotto. Comincio con metodo, presto mi attira un altro argomento avanti di decenni, poi torno da un’altra parte, ecc.. Si capisce che lo si può leggere in tanti modi, con i tuoi scritti d’epoca e le piccole introduzioni di oggi che aprono finestre e sorprese di merito, di ambiente, di sguardo, di prospettiva ieri su oggi e viceversa: un bell’esercizio intellettuale e per me anche adrenalinico visto che mi trovo a triangolare la tua esperienza con la mia quando le situazioni, le aspettative, i successi, gli smacchi, le questioni chiuse o ancora aperte e i problemi, talvolta le persone, sono le stesse.

Nell’insieme mi sembra di essere entrato in una sorta di terapia, che mi fa riandare dov’ero anch’io e, nella gran parte dei casi, dove non ero – ma la contemporaneità, la notorietà e talora le coincidenze fanno scattare analogie e differenze – con il vantaggio, vitalizzante, di misurarmi continuamente con altro da me, mentre mi torna alla mente qualcosa e metto a punto un ricordo, aggiusto un giudizio o sento che non abbiamo visto o non vediamo allo stesso modo una cosa o l’altra. Sicché questo tuo aver ripreso le “irripudiate carte” mettendole in prospettiva e misurandole sul fare e i problemi di oggi e sull’aspettativa di futuro, non solo per te ma per i tuoi studenti e i tuoi nipoti e figli, finisce per raccontare l’amore per la vita che ti è stata data e che ti sei costruito – tu lo chiami “il possesso sereno del proprio tempo, del proprio presente” – ben più e ben altrimenti che “una strana sconfitta” come tu lo intendi (e certo questa non è cosa secondaria e ci tornerò). Con un risultato così estraneo al narcisismo psico-politico di tanti libri annunciati e promossi (che evito), così denso di un ottimismo adulto, nutrito di conoscenza ed esperienza – che tu chiami “condizione progettuale” e che spesso, a questo punto del “viaggio comune”, è sfibrato quando non finito – da mettermi decisamente di buon umore, anche per la percezione di non pagare pedaggi impropri alla nostra amicizia. Cerco di mettere in fila alcuni temi che mi hanno colpito e qualche considerazione.
 
La dimensione della generazione. Qui dici due cose che non sai fino a che punto condivido, pur nato prima del 1945. La prima è generale, anche se per certi versi la schiacci sull’anagrafe (1948 ecc.): la nostra fortuna per “i doni dei Magi”, per il beneficio ricevuto di un mondo almeno qui in Europa senza più guerre, di una Costituzione italiana che inorgoglisce per i valori, le libertà e la democrazia dei diritti che sancisce e garantisce, del pluralismo dei valori formativi e dell’etica del lavoro di ogni genere, a cui legare e su cui verificare il riconoscimento del merito. Questi ultimi, più che doni, da rendere concreti ancor sempre per tutti e in specie per chi era “pronto a considerare irrinunciabili la libertà e la memoria, indisponibile alla censura, tendenzialmente non retorico”, nel tuo ritratto ideale (p. 21-22). In ogni caso, questa è la percezione che anch’io ho avuto fin da ragazzo: io, noi, siamo venuti “dopo”, a un certo punto della vicenda umana, e italiana in specie, e, se possiamo considerarci fortunati per quegli aspetti lì, abbiamo ciascuno – lo sappiamo o no, la accettiamo o no – la responsabilità di fare un uso ragionevole e utile a noi e agli altri (compresi quelli che verranno dopo, aggiungo adesso) dei benefici ricevuti. Per questa via è entrata e resta nel mio orizzonte vitale la politica, l’attenzione al bene comune, la lotta e la ricerca di alleati per affermarlo in concreto, nella vita sociale e nelle strutture che sono (dovrebbero essere) organizzate per renderla possibile e migliore. (Credo che noi, che avevamo fatto scelte politiche diverse, ci siamo incontrati su questo e ora vedo qui per quale comune convincimento.)
Invece, mi ha sempre convinto poco l’idea di una generazione sincronica, di coetanei o quasi, come siamo noi, proiettata sugli altri, perché qui siamo in balia delle immagini che ce ne propongono i media – e vedo che hai il tuo daffare qua e là nel libro a smarcarti e a districarti da varie marchiature, editoriali più che esistenziali. Dagli anni 1960, nei decenni trascorsi fra la scuola, l’università, i media e in particolare la Rai, vivendo a Roma – attività sociali e luoghi cruciali nelle immagini ancora oggi più accreditate della nostra “generazione” – mi sono spesso chiesto quanto potesse riconoscersi in esse, leggendo giornali e settimanali che avevano i “giovani” come target o come ossessione, e quale potesse essere la reazione di un mio coetaneo e poi di un ragazzo o di una ragazza “di paese”, di provincia, che non vivessero a Roma, Milano, Torino, Genova … e fossero nati, cresciuti e avessero la prospettiva di vivere negli altri, ben più numerosi e variegati ambienti sociali e culturali del nostro paese – quelli, fra l’altro, dai quali tanti giovani di valore sono partiti e partono direttamente per andare a lavorare e a vivere in Usa, in Europa o altrove. La sensazione di non esserci, di non esistere? cui poteva seguire che cosa? il rifiuto di quelle immagini o il desiderio di entrarci non dalla porta di servizio, magari, a sorpresa, dalla clandestinità terroristica? Mi ricordo di aver pensato cose del genere quando si è saputo di Patrizio Peci e poi di Mario Moretti, mi pare entrambi marchigiani. A riprova che loro avevano visto giusto, viene ora questa tua frase, peraltro tra parentesi: “lo dico in un contesto di scienze della comunicazione – il sanguinario pentito o impudico fa più notizia del badilante del riformismo, del meno drammatico esercito di chi ha lavorato al cambiamento” (p. 55). Adoro questo “badilante”, lo sento mio, nelle corde dei miei maggiori, socialisti riformisti siciliani, e nelle mie corde di comunista italiano fino alla maturità. (Ma nella Rai, mi viene di aggiungere, abbiamo sprecato e poi, nell’87, gettato via la possibilità concreta di una terza rete televisiva regionale-nazionale. Da qualche parte, anni fa, ho letto che le scelte politiche “nordiste” di Umberto Bossi sarebbero maturate completamente anche a seguito di quella sterzata romano-centrica.)
L’altra cosa, più circoscritta, è la tua, vostra di liceali milanesi, convinzione – che dati al 1966 – “di essere all’alba di una meravigliosa stagione di trasformazione che avrebbe coinvolto innanzi tutto la nostra scuola, poi la nostra società e da lì a poco la nostra vita politica” (p. 121). Questa è esattamente la sensazione che avevo proprio in quell’anno – quando occupammo l’università di Roma dopo la morte di uno studente di lettere, Paolo Rossi, e costringemmo alle dimissioni un rettore che da anni non impediva le violenze dei neo-fascisti – e che mi accompagnò nella Rai di fine anni ’60, ricca di intelligenze e calamita di talenti, stimolante per le proiezioni politiche, non partitiche, delle capacità di proposta e di realizzazione e delle esigenze espressive e creative maturate nei più vari mestieri e ruoli professionali della radio e della televisione del monopolio. Tanto più concreta e corrispondente a quelle aspettative liberatorie e progressive la Rai rispetto all’università, dove intanto era cominciato il “Sessantotto” e dove, ancora assistente volontario di filosofia del diritto con Sergio Cotta, non mi riuscì di partecipare a una sola assemblea che non fosse interrotta dopo pochi minuti dal grido “polizia, polizia”, con “repressione” successiva. Faceva uno strano effetto vedere appoggiati se non esaltati sui giornali che leggevo io, ed esecrati sugli altri, senza che si facessero distinzioni di un qualche tipo, quel deliberato avvitamento nello scontro fisico e nel parossismo mentale, prima che politico, del “movimento studentesco” e la proposta di riforma del servizio pubblico che in quegli anni cominciava a prendere forma e a trovare sempre più vasti consensi dentro e fuori la Rai. Era ancora, quella, la “Rai di Bernabei”, in cui ero entrato nel 1968, per una scelta che mi aveva visto “passato dall’altra parte”, inglobato nel “potere” da molti miei compagni. Salvo poi rivederne qualcuno, anni dopo, consulente della controparte, che ci annunciava – a noi “addetti alla macchina” funzionari, dirigenti, autori e registi di programmi – la fine dell’individuo che si crede creatore e magari anche soggetto titolare di diritti e libertà al servizio del pubblico, la fine di “un’illusione storica che ha fatto il suo tempo e tanti danni” e l’avvento del protagonismo delle strutture e dei processi comunicativi, delle prassi tecnologiche e mediatiche, della spersonalizzazione come emblema della fine dell’umanesimo e della relativa modernità. In sostanza, una polifonia e talora uno stridore di “messaggi”, di convergenze ambientali e di linee di fuga mentali, che per me furono presto e restano ancora oggi il fondale – variegato e talora frastornante – di un breve colloquio (poteva essere il ’72-’73) in cui l’allora direttore generale ebbe a dire a Carlo Galluzzi, responsabile della sezione Informazione della Direzione del Pci, di cui ero collaboratore e che me lo riferì quasi provocatoriamente: “Lei pensa che quelli ce l’abbiano con noi democratici cristiani? Quelli che vi fanno ora gli alleati faranno fuori anche voi. Ce l’hanno con i partiti, con tutti i partiti.” (Oggi, che l’imprenditore prestato alla politica che è al governo i partiti li ha riportati nel consiglio Rai, da cui li aveva allontanati la legge del 1993, sappiamo quanto ciò segni una sconfitta per il servizio pubblico e per la collettività nazionale.)
 
Le opere e i giorni. Oppure anche: Razza lombarda. Spigolando e leggendo mi è venuto in mente prima quel titolo riassuntivo (purtroppo risaputo, ma è bello) perché in quel tuo battere il chiodo delle risorse finanziarie e umane da rendere utili e da usar bene per “liberare la crescita”, modernizzare, alias migliorare, la nostra vita, con i molti dettagli definiti o indicati per un lavoro (quanti lavori!) fatto bene e con l’indicazione di fini di progresso civile e di migliore qualità dello “spazio pubblico” e dei servizi ai cittadini e di ricchezza e varietà dell’espressione, delle industrie e dei consumi culturali – in breve le cose per le quali ci siamo ritrovati soci di Economia della cultura – in quel paziente dissodare, veder crescere e maturare oppure dover constatare i danni dell’incoltura antica o di ritorno, ci ho visto qualcosa di contadino, nel tuo caso di proprietario non assenteista, una figura che dalle tue parti si è messa in marcia da secoli e che, evidentemente, con pazienza e tenacia continua a macinare conoscenza e azione. E a questo punto mi è venuto naturale il secondo titolo (fra l’altro, potresti mandare, se non l’hai già fatto, il libro ad Arbasino che anche lui non si stanca di coltivare questa pianta, con i suoi scritti civili e il culto di Gadda), per quanto la religione civile degli italiani, i valori etici che hanno fatto uno e sovrano il nostro paese, deve a questo tipo di italiano, la cui insegna è, nelle tue parole, la “fede laica” .. di saper fare e poi di fare cose per gli altri ovvero per migliorare le condizioni del prossimo”. (Cristianesimo, socialismo, leghe, biblioteche, Umanitaria … fantastico!) Un valore per tutti, cui si è aggiunta e si aggiunge, nell’opera se non nelle parole di tanti, la politica quando crea e mantiene le condizioni perché ciascun cittadino e tutti, e comunque il più gran numero, possano decidere e sappiano fare e facciano mestieri e lavori utili a quei fini – che su questo metro va giudicata: persone e azioni.
Insomma, caro Stefano, adrenalina pura e a più riprese. Per tutte, due: l’inchiesta dei primi anni Settanta su Isola, il “quartiere fantasma” di Milano, e l’intervento in sede di commissione della Camera dei Deputati, nel gennaio scorso, su “Cittadini, informazione e sicurezza”. 
 
La Rai e la politica nazionale negli anni Settanta-Ottanta. Ma questa non è una recensione. Non ti sorprenderà che la mia attenzione si sia concentrata sugli scritti che ripropongono vicende e temi di quel “mondo – la televisione – in cui cultura, informazione, politica, si incrociavano con la maggiore concentrazione professionale (allora anche di alta qualità) del sistema italiano delle comunicazione”, nella tua sintesi di p. 63. Non esageri. Era la realtà in cui ero entrato nove anni prima di te, nel 1968, e che avevo visto evolversi nel corso degli anni: tanta gente di valore, più che formata e per me competentissima, che aveva le idee chiare e molto da dire e, soprattutto, da fare, di tutte le tendenze culturali e delle più varie opinioni politiche, chi più chi meno portato a prendere l’iniziativa o a farsi interprete degli umori generali e comuni, che si rispettava sempre, in specie nel dissenso, almeno in quella che risultò l’avanguardia del movimento per la riforma: i programmisti radiotelevisivi e la loro associazione. Molti di noi novizi demmo una mano a far nascere finalmente, nel 1975, quello che si voleva: una condizione più aperta e garantita a chi i programmi li concepiva e li faceva, plurale negli incarichi e nelle responsabilità, con maggiori opportunità di far valere le proprie capacità e a chi aveva filo di tesserlo, cui pochi si sottrassero. Il risultato di una legge che consacrava una scelta politica della maggioranza di centro-sinistra, liberalizzante e progressiva in termini di lavoro creativo dentro e attorno alla Rai e di informazione e programmi offerti al pubblico. Il massimo, secondo me, per il paese e per la Rai in quella fase et ultra, da tutelare da attacchi diretti (anche terroristici alle persone, che ci furono, ricorrenti) e da insidie, anche a costo di polemiche con chi, nella mia parte, lamentava una certa sottorappresentazione, nelle prime linee, della “ditta”, come diceva (credo non fosse il solo) Aldo Tortorella, responsabile della sezione Cultura della Direzione del Pci, con cui pure collaboravo.
Siccome voglio renderti chiaro un punto di dissenso con te, devo richiamare qui un episodio della mia esperienza politica di cui non ti ho mai parlato. La sezione culturale del Pci, allora, era una cosa seria, rimessa in piedi qualche anno prima, motivata e proiettata sui problemi della creazione e dell’industria culturale da Giorgio Napolitano e affidata a metà decennio a Tortorella. I responsabili di settore (cinema, musica, teatro, editoria, radiotelevisione, ecc.) lavoravano sodo ed erano in genere poco loquaci fra loro (anch’io lo ero), tanto più quando ci fu chiesto di preparare materiali per il segretario del partito che, in un convegno apposito, avrebbe formulato una proposta organica di politica culturale rivolta ai lavoratori e ai professionisti della cultura, al mondo politico e a tutta la società italiana. Nei tempi giusti, i dossier furono pronti e consegnati al nostro capo: ciascuno di noi si aspettava di udire, nella relazione introduttiva, parole chiare e, quanto possibile, circostanziate e consapevoli sugli aspetti strategici e magari anche specifici, sugli obbiettivi socio-culturali o politici che, a quanto potevo sapere, avevamo sottolineato o richiamato (c’era stata, fra l’altro, una sessione del comitato centrale sui temi della cultura e delle politiche culturali, qualche tempo prima). Insomma, quello fu il famoso convegno dell’Eliseo in cui Enrico Berlinguer lanciò il tema dell’ “austerità”. Nella sala si percepiva la sorpresa (che certo era voluta) di tutti e lo sgomento di molti, i cui occhi erano atoni. Non ci fu, che io ricordi, nella sezione culturale una riunione di bilancio del convegno e il seguito fu business as usual. Stando a quello che si vedeva o, almeno, che vedevo io, il Pci, al 34% dei consensi elettorali, rinunciava a farsi interlocutore “politico” di ceti e ruoli professionali, di attività e strutture produttive, di rilevanza centrale nei processi creativi e di socializzazione della cultura realizzati nei media e attorno ai media: ceti e ruoli professionali e dirigenti di strutture pubbliche e private, nelle regioni appena nate e a livello nazionale nello Stato e nelle altre istituzioni, gente colta preparata competente, che era alla ricerca di alternative concrete e credibili di direzione e di impulso anche dall’esterno, per uscire dalla stagnazione burocratica, dall’arretratezza, da gestioni senza obbiettivi che non fossero di convenienza o soltanto clientelari, e per dare nuove o migliori finalità ad attività e funzioni a vari livelli della pubblica amministrazione e alle imprese in mano pubblica. (A riprova che la cosa andava allora molto al di là della mia diretta esperienza, è venuta anche la notizia, data qualche mese fa da Giampaolo Fabris, in una lettera a Repubblica, di una riunione, in quegli anni, di manager di vario livello delle imprese a partecipazione statale, prima convocata dal Pci e poi annullata senza spiegazioni, di cui a suo tempo non si seppe nulla.) Si doveva constatare che non si attivavano o erano bloccati i circuiti informativi e comunicativi pubblici (nel senso della luce del sole e nel partito) e partecipati (nel senso del ruolo e dell’interlocuzione delle persone), gli organi vitali e la fisiologia dei rapporti fra il Pci e questi settori della società, che vi cercavano un nuovo, diverso, interlocutore “politico”, come fin allora e tradizionalmente era accaduto a operai, contadini, ceto medio produttivo e anche, in certe regioni, ai commercianti. Tanto più rilevante, quindi, era il caso della Rai, dove questi canali erano aperti. E, tuttavia, nessuno poteva ignorare che, in assenza di una politica, c’era lì a chiedere e a premere, al centro come alla periferia, la “ditta”: una realtà concreta che vanamente, da allora e fino alla sua fine, Berlinguer tentò di esorcizzare e di arrestare alzando la diga della “questione morale” e la bandiera della “diversità comunista”, che avevano tutte e due la loro bella faccia interna, non solo quella insolente e offensiva, che “faceva unità” nel partito, nei confronti del Psi e che tu ricordi.
Erano quelli, per il Pci, gli anni della politica di “unità nazionale come rito di sospensione di una democrazia impossibile” (p. 287) – definizione ineffabile – e nulla avrebbe impedito, ove ve ne fosse stata la capacità, di impegnare le forze politiche della maggioranza, con cui si era pur contrattata l’astensione, in un confronto ravvicinato sulle politiche culturali e la razionalità e gli obbiettivi della presenza pubblica nel settore, avendo presente proprio un “interesse nazionale” da individuare e, spesso, da ridefinire. O di accettare il confronto se altri avesse preso l’iniziativa, come fece il Psi nel novembre 1978 con il convegno romano del Parco dei Principi. Ma in quegli anni non ne mancarono altre e di altri partiti, anche se di minor rilievo mediatico e, senz’altro, meno precisate e continue nel tempo. Invece, quella che era un’opportunità fu considerata e presentata, in vari modi, anche evitando di entrare troppo o punto nel merito, come una manovra pretestuosa, mirante a conservare o conquistare nuovo potere, di un partito che, dati elettorali alla mano, di potere ne aveva già troppo. E per la seconda volta, in quell’anno, le novità di merito avanzate in una relazione introduttiva a un’assise di rilievo primario nella vita di un partito – cerimonie e rituali oratori su cui per solito nei partiti e fra i partiti, soprattutto a sinistra, ci si confrontava fino alle virgole – furono esorcizzate e ignorate per il tono della voce o il piglio polemico dell’oratore (l’altra era stato il congresso di Torino del Psi, con la relazione introduttiva scritta, poi si seppe, soprattutto da Giuliano Amato e Giorgio Ruffolo). E le cose non cambiarono fino a quella che tu chiami “la stagione di Meriti e bisogni” – con la conferenza programmatica del Psi a Rimini di inizio aprile 1982 e la convention del “Club dei Club” di fine maggio a Bari – chiusa alla fine di quell’anno, quando il segretario del Psi chiamò Claudio Martelli e gli annunciò che la ricreazione era finita.
Tu, naturalmente, ne parli, ma presenti il tutto come il punto di arrivo di un tuo impegno professionale e l’inizio di un altro. C’era dell’altro, ovviamente. C’era, lo ricordi, la formulazione e la proposta di un’iniziativa politica esplicitamente volta “Contro l’occupazione carpe diem del potere nella cultura e nella comunicazione”: l’insegna di un documento di fine 1979 pubblicato su l’Avanti (p. 249). C’era l’alleanza riformista fra il merito e il bisogno declinata per problematiche, per soggetti sociali, per comparti e strutture della creazione culturale e di rilevante impatto sociale e comunicativo, che apriva ipotesi e prospettive di sviluppo nuovo non solo nella Rai ed era rivolta e aveva come interlocutori primi proprio quei ceti e ruoli professionali, proprio i responsabili e i quadri, dirigenti e non, in genere molto qualificati di quelle attività, strutture e settori produttivi, pubblici e privati, i quali – almeno sul mio versante – non riuscivano a capire che tipo di proposta politica fosse la “diversità” comunista, un approccio che sembrava escludere perfino la parola “alleanza”. Ora, anche dal mio punto di vista, bisogna dare a Claudio Martelli quello che è di Claudio Martelli, e conta poco che dieci anni dopo si sia saputo per quale seria bisogna egli era stato allontanato da quel settore di lavoro del suo partito. Martelli (e chi lavorava con lui) aveva capito, e contribuiva a far capire a tutti, me compreso, che un partito che facesse davvero “politica” in tutti questi settori, avrebbe acquisito un ruolo primario nella società e nella politica italiana, spostando su di sé l’attenzione e il consenso di masse qualificate di lavoratori e di quadri, e avrebbe intercettato per una fase non breve il desiderio e il bisogno di rinnovamento e di modernizzazione della produzione culturale e in generale in tutto il comparto dei servizi, che veniva sostituendo l’industria nel suo ruolo di guida dello sviluppo. Era, se vogliamo, l’applicazione a questi soggetti e realtà di quella “politica delle alleanze” culturali e sociali, prima che politiche, che come modello di azione e come strategia politica non aveva niente di comunista e che aveva consentito fino ad allora al Pci di accrescere il suo ruolo e di divenire una presenza significativa nella società italiana, molto più, enormemente di più, di quanto non fosse, e da non pochi continuasse ad essere considerato, la sezione italiana della Terza Internazionale ormai morta.
Resta tuttora, nelle tue parole, “la voglia di aprire una discussione sull’altro ’68, sull’altro ’77, sulle tante pagine possibili per vivere una grande stagione formativa e offrire un contributo nuovo a ciò che era più importante per un paese come il nostro. Fare classe dirigente con l’impegno di modernizzare, fare accedere, ridistribuire, allargare la conoscenza e le opportunità” (p. 43). Anche senza dover stabilire se tu hai dato, come io credo, un contributo in questa direzione, ti chiedo: capisco il Pci, geneticamente e per strutture mentali sperimentate incapace di fare i conti con una realtà sociale e di mercato che produce classe dirigente diffusa nella società e nelle sue più varie articolazioni espressive e comunicative, mediali e non mediali, ritenendosi depositario e detentore tendenzialmente esclusivo di questo ruolo – come partito e, per tutti, come stato maggiore – e quindi sordo e incapace di elaborare alcunché al riguardo; ma perché Craxi il socialista, il non-comunista, ha rinunciato anche lui a impegnarsi nella battaglia liberalizzante, per soggetti coinvolti e protagonisti, e progressiva per l’uso e la finalizzazione e la verifica dell’uso delle risorse umane e finanziarie a questi fini – una battaglia che nelle condizioni della modernità investe la parte più qualificata, per ruoli professionali e comparti produttivi, e socialmente influente dei cittadini – per scegliere, invece, di giocare il solito gioco a scacchi fra stati maggiori, fra gestori di quote di quel potere anche straccione fin allora accumulato (e dopo 25 anni, insomma, siamo lì, con qualche rendita di posizione in più), senza fertilizzare e allargare la base di produzione del capitale sociale, di reclutamento di valorizzazione di ricambio generazionale, e far saltare davvero il tavolo tradizionale della politica italiana? Sicché, tanto per restare al servizio pubblico radiotelevisivo, il bilancio di trentatre anni di riforma – un bilancio che riguarda il paese – in termini di capitale di talenti e di risorse professionali messo a patrimonio dalla Rai è quasi nullo rispetto al tre-quattro anni della gestione Guala a metà degli anni 1950, dei cui frutti ha campato per altri venti anni anche la Rai della riforma. (Sbertucciato, ironizzato perfino nel ricordo, “l’ingegnere”, il “trappista”, dai famosi “politici di professione”.)  
Paralizzato su questo versante il cervello politico, era naturale, darwinianamente naturale, che nel Pci (“così vicino al potere”) crescesse la pressione della “ditta”, perché si facesse valere almeno la sua dimensione fisica, per assicurare le condizioni della sua sopravvivenza (e di quella dei suoi membri titolati e accreditati, al centro come in periferia) accedendo alle risorse disponibili al sistema politico o reperibili nella società, mettendo a frutto il suo ruolo in esso. Dopo decenni di “accumulazione primitiva” di capitale sociale nella forma e nel soggetto politico, ci si affidava a quelli che si offrivano come finanzieri, capaci di piazzare al meglio gli asset reali e virtuali dell’azienda sul mercato politico. (Forse consapevoli, i “professionisti della politica”, di quanto valessero come imprenditori, come si è visto poi a fronte del “dilettante” Berlusconi.) Ed è a loro che Craxi ha fatto le sue aperture di credito, ritenendo di giocare a suo favore la partita dopo la morte di Berlinguer, col dosare le condizioni e i canali di approvvigionamento del Pci e cercando di legare a sé le controparti, tanto più per certi versi obbligate (ma certo non tenute alla riconoscenza), in quanto prontamente plebiscitate in comitati centrali e in votazioni di congressi e assurte ai ruoli dirigenti del dopo-Natta e del dopo-1989. Per il Pci in quanto soggetto sociale, è la mia opinione, la lotta per la vita fuori di una dimensione “politica” era cominciata ben prima del 1992-1993 e di Mani Pulite, sicché il personale dirigente così selezionato aveva sviluppato attitudini, intelligenza e tecniche di comportamento più che sufficienti, come si è visto, a superare la caduta del Muro di Berlino e del sistema sovietico, nonché la caduta degli dei della Prima Repubblica. Nell’opacità, certo, e talora nella manipolazione delle loro ragioni e motivazioni passate e presenti e soprattutto, per quanto attiene alla collettività nazionale, nell’indifferenza verso le istituzioni della Repubblica democratica, come fu chiaro quando, cito due casi per tutti, l’onorevole Oscar Mammì fece presente nel 1993, inascoltato, che una legge del 1957 sanciva l’ineleggibilità del titolare di un’impresa concessionaria di pubblici servizi, e quando il ministro Antonio Maccanico, nel 1997, subì l’inserimento nel suo testo di legge sull’Autorità di Garanzia per le Comunicazioni della norma, che consegnava ai leader della maggioranza e della opposizione parlamentare la formazione e la composizione del relativo consiglio (Maccanico pubblicò poi un libro-intervista con Marco Mele per far sapere che lui non era stato e non era d’accordo con la sua maggioranza parlamentare).
 
Branding pubblico senza cittadini? Vedo che mi sono dilungato, ma non posso finire senza toccare questo punto che mi ero annotato, anche per la percezione di un interrogativo, che mi sembra attraversi alcuni tuoi appassionati scritti recenti. Il fatto è che le famose “appartenenze”, come si sono ridotte, di politico hanno solo il posto che occupano nelle istituzioni e nello spazio pubblico coloro che le gestiscono, e già solo per questo ipotecano e tolgono l’aria di cui vive il libero confronto delle idee e la loro verifica sui fatti quando sono presidiate da culture, poteri e istituzioni autonome almeno altrettanto forti. Si è insediato nel corso degli anni, con il contributo fondamentale della “sinistra di governo” e di quella “radicale” – ed è, secondo me, la vera promessa mancata e l’autentico fallimento delle generazioni che sono state comuniste e, fammelo dire, socialiste degli ultimi decenni, i nostri –, l’atavico costume italiano dello scarto fra la poesia e la prosa nella vita pubblica, del divorzio fra la dimensione intellettuale – e partecipata nella “conversazione” dei cittadini – della vita pubblica e l’esercizio del potere, fra la politica come perseguimento consapevole e verificabile di fini collettivi e la “dura realtà dei fatti”, a partire dal conto spese personale e dal “costo della politica”, per continuare con gli arrangiamenti e i traffici all’ingrosso e al dettaglio del pragmatismo più o meno senza principi. Un ricorso storico che coincide, forse non per caso, con il ritorno sulla scena pubblica della destra, anch’essa protagonista e comprimaria a pieno titolo degli ultimi quindici anni. Che cosa è o finisce per essere, in questo contesto, il “branding pubblico”, cioè l’ “impegno a fare l’interesse collettivo e istituzionale” nella definizione di De Rita? Quando ciò che oggi non solo domina i rapporti sociali e la vita pubblica, ma è egemone nelle menti e nei cuori (direbbe l’amico del Presidente Bush), sono proprio le declinazioni proprietarie e da ottimati delle “appartenenze”, con il contorno delle corti personali ed degli appannaggi istituzionali (grazie a varie leggi, fino a quella elettorale che consegna loro la lista degli eletti) di un leader-padrone e di diversi notabili variamente posizionati. E, d’altra parte, quali modi, tempi e criteri ci potranno essere di perseguire l’ “interesse collettivo e istituzionale”, finché il movente primo e il fine ultimo dei soggetti politici in campo, e dei responsabili delle istituzioni su cui essi hanno potere e influenza, sarà la lotta per la loro propria sopravvivenza – scorporata e personale – che si alimenta, quando non le crea in modo artificioso nella comunicazione e con la propaganda, di tutte le emergenze, di tutti gli “stati di necessità”?
A me pare chiarissimo che l’idea di questo libro e quanto ne ho letto nasce dalla tua convinzione che in un paese democratico quale noi siamo – e siamo rimasti, per scelta e anche sacrificio personale (contro il terrorismo) delle generazioni che hanno fatto la “nostra comunità” repubblicana – quell’impegno e le conoscenze, le capacità e anche le tecniche che esso comporta in una società moderna ed evoluta, non siano semplicemente la materia di un corso di laurea – “tante belle idee da mettere in testa a quei poveri ragazzi” (direbbe la zia di Arbasino), prima che si misurino con la realtà. Tanto più che il cittadino al quale tu e i tuoi studenti pensate, anche sulla base dei concetti e delle pratiche nate e sviluppate in paesi più civili del nostro, il vostro civis in fabula – per dirla con Eco – assomiglia davvero poco alla plebe da convention o da gazebo e agli “ammessi” alle attività di questa o quella “fondazione”, che poi, anche loro, come i cittadini “comuni”, nell’arbitrio e nelle disfunzioni dei servizi pubblici e privati e delle strutture pubbliche di servizio al cittadino, passano il tempo a borbottare e a lamentarsi e a cercare l’appoggio dell’“amico”, del compare e del conoscente magari “politico”, per sfangarla – la “lunga durata” dell’italico ‘vivere insieme’, in cui tutti continuiamo a essere immersi.
Per quei ragazzi e per te stesso tu torni a proporre varie ipotesi e modelli di modernizzazione, che indicano, descrivono, esemplificano prassi possibili e necessarie nel presente e prospettive di futuro capaci di “restituire alla persona la centralità della politica” e di “liberare la crescita” dei singoli e del paese – prassi attuali e prospettive degne di persone fra loro uguali e di cittadini a pieno titolo. Perché, dopo una latitanza ormai più che ventennale, il ritorno della politica è, per tutti, anche una questione di dignità.
                                                                                                                                     Celestino Spada