Una lettera di Alberto Abruzzese a Stefano Rolando e Luigi Covatta
Roma, 19 luglio 2008
Caro Stefano Rolando (e caro Luigi Covatta, che sei tra i primi interlocutori che mi hanno sollecitato a esprimere un parere)
finalmente tento di partecipare alla discussione recentemente aperta con la presentazione al pubblico milanese del monumentale libro – imponente raccolta di scritti e spesso scritti-evento introdotti e commentati con implacabile memoria dal loro autore – che il caro amico Stefano ha pubblicato presso l’editore Bompiani scegliendo per frontespizio untitolo agrodolce: Quarantotto.
Rolando – mio attuale collega nell’insegnamento universitario presso la IULM e con un passato professionale vissuto anche nell’impresa privata – è tra i pochi grandi “dirigenti” che io abbia incontrato e visto lavorare negli apparati pubblici. Lo dico subito: questa sua eccellenza è alta e indubbia, ma – dato il suo carattere istituzionale – è anche ciò che ci divide sui contenuti (pur essendo noi amici di lunga data e legati da una, spero, reciproca stima).
Il motivo per cui intervengo così in ritardo dipende quindi dalla difficoltà di trovare il modo giusto per dire questa differenza, oltre che dallo scarso tempo di cui dispongo e che evidentemente non so far fruttare come altri (a questo proposito sono ammirato delle doti che Stefano rivela in tal senso). Ma veniamo alla questione che mi preme chiarire.
Intanto un breve teaser. La storia, quella vicina a noi che viviamo, si misura più o meno per decenni. Decenni simbolici, da aggiustare di volta in volta in base ai fatti sociali e a quelli privati. Dato che alla vita civile e incivile degli adulti si accede più o meno dai vent’anni in poi – tanto poco la società si è interessata dei giovani almeno sino a quando non sono diventati utili al marketing – quelli nati all’inizio degli anni Quaranta entrano davvero a far parte della storia negli anni Sessanta. E’ il mio caso: sono arrivato dunque già in ritardo alla svolta giovanilista del ‘68. Quelli nati appena poco più di un lustro dopo di me nella storia sono entrati negli anni Settanta. Ritengo che tra i due decenni e le due generazioni vi sia una bella differenza. Se il problema fosse davvero quello di decidere chi tra gli adulti di oggi si senta più sconfitto dal tempo che ha vissuto – e se la questione potesse essere discussa guardando soltanto a quanti in Italia hanno nutrito l’aspirazione di costituire il ricambio delle classi dirigenti – tenderei a rivendicare il primato della mia generazione, generazione assai più anonima della successiva (come della precedente, e a maggior ragione di quelle dei padri fondatori della nostra Prima Repubblica).
Mi spiego: a differenza della mia, la generazione successiva ha potuto mettersi alla prova ed essere messa alla prova. Ha avuto la possibilità di fare politica nei diversi modi e luoghi in cui la politica si fa. La mia generazione è stata scavalcata di netto (abbandonata in ruoli privi di potere reale – la politica è anche questo – e quindi subordinati, esecutivi anche quando di qualche prestigio).
Questo devo dirlo: a fare da tappo è stata in gran parte la piccola quota di cooptati che il decrepito sistema istituzionale e sociale degli italiani si è concesso volente o nolente. Dei tanti personaggi trattati in questa Storia d’Italia che Stefano ha scritto per noi in forma di Diario – personaggi da lui incontrati in ogni sfera pubblica e privata della nostra vita nazionale – c’è davvero qualcuno che, a suo tempo e quando magari avrebbe potuto avere un qualche margine per farlo, si è preoccupato di aprire i “recinti” in cui era riuscito a entrare o che gli erano stati addirittura affidati?
La domanda mi pare di qualche rilevanza di per se stessa ma fa anche da utile premessa alla sostanza dei contenuti che mi interessa trattare con Rolando, Covatta e chi altro si senta di fare parte del loro discorso. Per parte mia, credo che il ricambio di quadri dirigenti avvenuto tra gli anni Sessanta e Novanta – ricambio forse neppure tanto modesto, per una progressiva convergenza tra scelte volontarie e scelte obbligate – sia stato generazionale assai più che culturale. Intendo dire che chi è entrato nella macchina delle istituzioni, dei partiti e anche dell’impresa, era giovane di età assai più che si contenuti; era nuovo assai più che innovativo. Certo, non mancano eccezioni. Tuttavia a me sembra di potere dire che in linea generale chi è entrato ai vertici degli apparati pubblici e privati, è potuto entrare e restare in posizioni di comando solo perché ha amministrato e magari perfezionato gli stessi valori e obiettivi di chi ha sostituito, affiancato o scalzato. Mi direte che non potrebbe essere altrimenti. A me basta dire che non ho quasi mai incontrato dirigenti che mostrassero il dramma interiore di una intelligenza frustrata dall’impossibilità di non essere nella condizione di esprimere la radicale diversità dei propri contenuti.
Per iniziare, prendo a pretesto l’elzeviro (La rivoluzione vista dal palazzo, “Corriere della Sera” di giovedì 17 luglio) che Giuseppe De Rita ha dedicato al libro. La capacità argomentativa di De Rita è quella di andare al succo delle cose. La sua professionalità è quella di inchiodare le classi dirigenti alla responsabilità che esse dovrebbero sentire nei confronti della “vita quotidiana” a loro affidata perché ne abbiano cura. L’intelligente sintesi che ci dà delle centinaia di pagine di Rolando è questa: a) siamo smarriti in un presente che ha perso la capacità di individuare il “bene comune” che la società dovrebbe avere il compito di perseguire; b) tanto i comunisti, quanto i socialisti e i democristiani, affrontando la “infinita transizione che stiamo vivendo” sono stati sconfitti; c) la ragione di questa sconfitta sta nel non avere saputo e non sapere “fare i conti con il nostro passato prossimo”; d) “l’unica valida eredità del passato prossimo è quella lasciata sotto traccia da coloro che hanno silenziosamente fatto branding pubblico”.
Queste quattro proposizioni costituiscono un enunciato generale su cui De Rita sembrerebbe coincidere con l’intento che ha animato l’operare umano e ora l’opera cartacea di Rolando: riflettere sul passato per affrontare il presente. Dico sembrerebbe, perché De Rita mi pare assai meno interessato a trattare quel cumulo infinito di fatti e faccende che costituiscono la storia passata e persino recente, anzi attuale, dei nostri partiti, delle nostre istituzioni e del nostro Stato. Ecco, questo è il secondo punto – sul primo, il ricorso al passato come necessità del futuro, dico in conclusione – che mi divide dal libro di Rolando e dalle appassionate testimonianze che rinfocola tra i vari protagonisti di (o intorno a) una esperienza socialista tanto più fallita, dolorosamente crollata e ingiustamente denigrata quanto più è stata obiettivamente matura e avanzata rispetto a quella dei comunisti, democristiani, e cattocomunisti.
Ma, caro Luigi, a che serve rimestare dentro gli anni della delusione? Può solo confermarci che nulla più c’è da ricavare dal sistema di contenuti e relazioni di quegli anni, anni ancora oggi così presenti in forme varie e dissimulate. Tanto i protagonisti del fallimento socialista quanto quelli che di quel fallimento hanno avuto la loro parte di responsabilità sono affogati perché è il loro ambiente naturale – ovvero appunto la natura dei loro contenuti – ad essere una palude. E quando non si accorgono di essere affogati, affogano ridicolmente di nuovo. Se ha ancora un senso avere qualche nostalgia per il trascorso sogno di una sinistra intelligente e democratica – e non ne sono convinto, perché non si può continuare a avere nostalgia di un sogno – allora tanto vale sentirsi soddisfatti di esser caduti sul campo. Nostalgia per nostalgia, è meglio essere nostalgici di una sconfitta rivelatrice invece di una vittoria che ci avrebbe confermato nella natura di uomini della palude.
E veniamo al mio primo punto di dissenso. Là dove non riesco ad essere in sintonia con Rolando è il suo costante riferimento – anche quando critico e anzi tanto più se critico – alle tradizioni del passato (quello di Rolando risale giustamente al Risorgimento) e a vicende della Prima Repubblica (e Seconda) trattate passo passo, nel dettaglio di una storia che, così sminuzzata, si fa cronaca e di una cronaca che, così valorizzata, ostenta una epoca troppo misera per meritare tanta attenzione. “Misera” con tutte le prove d’arte e pensiero che Quarantotto documenta? Dovremmo discuterne, cercando di non confondere l’impegno umano e culturale degli italiani con il senso più profondo di ciò che dei loro prodotti celebriamo.
Ma il punto sostanziale è un altro. Io credo che il modo più interessante di leggere il richiamo di De Rita a ripercorrere le tracce di branding pubblico sia quello di capire che le esperienze sociali e culturali alle quali lui si riferisce riguardano chi si è saputo muovere dentro quel sentire immediato e per così dire vergine che caratterizza la comunità presente, il suo corpo vivo, il suo donarsi. L’opportunismo politico e intellettuale che ha intorbidato sempre più la differenza sostanziale tra sentimento laico e sentimento religioso del mondo, ci ha portato a credere o a dire di credere che un “bene comune” come questo sia e debba essere condiviso da tutti. Ma è un grande errore (fa parte del micidiale unanimismo propagandato dagli slogan neo-rinascimentali sulla creatività urbana e sulla bellezza che ci salva).
La prospettiva che traluce dal breve testo di De Rita mi appare distante da quel passato – prevalentemente istituzionale o visto prevalentemente dalle istituzioni – che mi sembra attrarre il vigoroso illuminismo di Rolando, ma anche la più parte di chi oggi ragiona sulla nostra vita nazionale. Costoro lo fanno continuando imperturbabili a ragionare sul “che fare” nello stesso modo “di prima”, pur messi di fronte a una fase critica come quella attuale. Dunque di fronte a una realtà invasa dal presente e da un presente che ha avuto ragione del passato, lo ha distrutto, reso irrecuperabile.
Ecco, Stefano, come tu sai ci è accaduto e ci accadrà ancora che i toni stessi del nostro dire non suonino alla stesso modo, perché il mio è all’insegna della distruzione e il tuo della costruzione. Per me il momento da vivere non può più essere quello della continuità per ragioni che non sono ideologiche ma oggettive. Il mondo che abitiamo sta recidendo i suoi legami con il passato al di là delle nostre stesse convinzioni e decisioni. L’essere umano ha forse la possibilità di scegliere tra continuità e discontinuità, ma è una scelta che riguarda solo la sua deriva in un mondo che gli è globalmente e localmente discontinuo. Dato che tragedia e dolore sono la matrice umana della politica, sarebbe bene che essa fosse consapevole della discontinutià in cui è precipitata la continuità dei suoi valori identitari. Questa consapevolezza passa per la fessura di una frattura ormai irreparabile tra istituzioni e comunicazione.
Nel pensiero, nella ricerca, nell’insegnamento e nelle prestazioni professionali di Rolando, la comunicazione assume un grande rilievo, né potrebbe essere altrimenti per chi ha messo al centro dei suoi studi e delle sue pratiche le “relazioni pubbliche”. Tuttavia a mio avviso questo riconoscimento non basta più, e si sgretola proprio guardando alla comunicazione come territorio e non più semplicemente come strumento (poiché questo la comunicazione è stata da sempre e con assoluta evidenza a partire dalla metropoli: territorio). La società delle reti sta giocando con forme di esperienza territoriale, quelle digitali, che ne sono il detonatore assai più che una rinnovata stabilizzazione delle risorse. L’enfasi con cui oggi parliamo di risorse immateriali sembra a mio avviso nascondere l’idea che esse siano la via d’uscita per le strutture del nostro passato prossimo. Credo che il ragionamento vada rovesciato. Siamo in una fase di esasperata trasmutazione dei valori non più su basi ideologiche ma materiali. Sono i fenomeni immateriali a essere oggi le nostre basi materiali, mentre tutto ciò che il passato prossimo ha preteso di darci in eredità insiste ancora su modi di pensare radicati sulle stesse basi materiali che hanno fatto da pilastro al pensiero moderno. Questi pilastri sono ormai fantasmi.
Già, il pensiero moderno. Il fronte in cui ci si divide – cari amici – è tra pensiero moderno e pensiero anti-moderno, pensiero umanista e pensiero anti-umanista, centralità dell’umano e presenza del mondo post-umano. Non sono quisquiglie. Non è semplice letteratura di intrattenimento, non è un pensiero che possa convivere con le politiche istituzionali o imprenditoriali che sono state e continuano ad essere il perno delle nostre società. De Rita il suo saldo punto di riferimento lo ha: è quel “bene comune” cui si riferisce in inizio del suo elzeviro e al quale sempre si è riferito come grande professionista, intellettuale e operatore. Un “bene comune” che De Rita tiene bene in equilibrio tra spirito religioso e civile, senso del sacro e senso delle istituzioni, borgo e mondo. Bisogna essere uomini di fede per avere la grazia di godere di questo equilibrio. E questo tipo di uomini, se si appellano al passato, lo fanno pensando a un tempo rivelato da sempre e sempre di nuovo cercato. Appunto un tempo oggetto di fede. Tempo dell’origine e dell’attesa. Il passato nascosto, celato, è la promessa divina. Dunque si tratta o quantomeno dovrebbe trattarsi di qualcosa di ben diverso dal “passato prossimo” verso cui amano guardare almeno i pensatori e i politici davvero laici, anche se armati da tutto l’integralismo che viene loro fornito dalla forza religiosa incorporata – mondanizzata e strumentalizzata – nei propri sistemi di potere statuale e nei propri regimi di appartenenza.
No, cari amici. Io non credo a questo tipo di “bene comune” e dunque non credo al passato che frutta futuro. Semmai credo a un futuro che riesca a trovare i modi per inventarsi un passato mai esistito, infondato, inatteso. E non credo che il tempo che ci attende sia lo spazio di una possibile riconciliazione tra le parti che in questi decenni hanno fallito le ragioni prime e ultime dei loro conflitti. Tra le ceneri dell’ammasso di opere e persone di cui leggiamo e tra le pagine del passato in cui siamo ancora soffocati, ci sono – per dirla con Benjamin – scintille? Se è così, sono scintille, non tracce e ancor meno reperti degni della nostra nobile arte nazionale del restauro e della conservazione. Da cercare e ritrovare non sono le strutture e i corpi da cui derivano queste scintille. Anzi, la cenere va spazzata via per accogliere tra le nostre mani la brace che vi si nasconde. Frutto di un processo di combustione che ha tradotto il passato in una composizione di fattori che con il passato non hanno più nessuna relazione. Semmai, le braci possono solo accendere nuovi fuochi. Abbiamo qualcosa da bruciare?
Alberto Abruzzese