Un pensiero personale su Quarantotto, libro di un anno e mezzo fa.

 Il mio Quarantotto, un anno e mezzo fa.
Davvero il tempo è una macina impietosa. Avevo costruito quel mattone corposetto forse anche per una patetica lotta contro il tempo, per “fermarlo” ad una data, ad una periodizzazione. Per sagomare la mia vita con questo equilibrio, già un po’ estremo per essere un “equilibrio”, ma insomma…accettabile. 1948-2008, con quella gigantesca boa in mezzo, il sessantotto. E poi il settantotto del “caso Moro”. Insomma il decennio nero, da ripensare per rivendicare un po’ anche le storie di chi ha chiesto progresso senza violenza, di chi non ha ceduto alla tentazione di riconoscersi “né con lo Stato né con le BR”. Un anno e mezzo allontana ormai in modo percepibile ogni equazione su quell’impossibile omeostasi. Sposta avanti le lancette, aumenta la gravità del cammino, restituisce quello stesso libro come un oggetto storico, non come uno stato creativo.

Il giorno dell’inaugurazione del nostro anno accademico – a metà novembre, meno di un mese fa  – Giampaolo Fabris è tornato nell’ateneo che aveva lasciato polemicamente. Dove assumerà un piccolo impegno, ma dove ha interagito per anni autorevolmente con tutti. Mi ha dedicato un pensiero spontaneo e affettuoso per quel libro: “Mi tolgo il debito di dirtelo, è stata una lettura importante della scorsa estate, un magnifico libro, pieno di sottigliezze, carico di racconti, una cultura difficile di un arco di storia e di una generazione”.
Siccome parole così non le ho sentite in modo netto, pur avendone sentite altre, sensibili e intelligenti, le richiamo qui. Vi è chi ha colto una certa coerenza politica, chi ha colto il servizio reso alle istituzioni, chi la curiosità culturale di una stagione formativa, chi l’orgoglio di una appartenenza oltraggiata. Ma l’accento che avevo cercato di porre attorno all’esigenza in capo a una “generazione fortunata” di svolgere in tempo un bilancio serio delle carte avute in mano e del modo con cui ha inteso giocarle, questo è stato oggetto di un riscontro meno attento, meno reattivo, quasi addormentato sul modo con cui – nei risguardi o in copertina – ho ricordato io stesso il tema. Ma facendo poi per la verità domande che sono restate poco evase.
Quella generazione aveva usato molto il “noi” e il “voi” (ce lo ha ricordato bene Shel Shapiro poche sera fa in un bel recital alla tv scritto da Edmondo Berselli). Per alimentare negli anni sessanta le tante discontinuità che hanno reso quel decennio leggendario, quella dialettica – diversa, fino ai toni estremi della politica ma anche fino a evoluzioni creative della moda, della musica, del design, della scrittura, dei media, del cinema – era divenuta una bandiera. Ma è durato poco. Da Giorgio Gaber a CL alla signora Thacher,  in molti si sono peritati di dire – con qualche verità – che quel “noi” non era autorizzato ad essere attribuito alla “società”. Ma caso mai ad individui, anche tanti, ma individui, persone. E la dialettica poi è ripresa all’insegna dell’io (la favoletta per Amelia, alla fine del libro, è un piccolo apologo attorno a questa questione).
Non vorrei ridurre la complessità di quella proposta di bilancio. Sento che è difficile approfondirlo ma che sono in tanti – letterati, musicisti, cineasti, sociologi – a provare strade di “racconto” per dare contributi sul tema.
L’ apprezzamento di Giampaolo mi ha fatto risvegliare il sentimento leggermente deluso di una mancanza di vero dibattito. Tanto che – brandello a brandello – vado collezionando questi “contributi” – esterni, estranei, intersecati, difformi, parentali, affini, accidentali, derivati, conseguenti, precedenti – come fossero “album di famiglia”, dunque scambi affettivi. Quando forse, invece, sono percorsi “individuali”. Sguardi affrettati, come i miei un po’ egocentrici, che non hanno quasi mai la forza di sostare, di aspettare le risposte. Che lente, da dentro, forse si leverebbero. Se ci fosse etica nel nostro tempo. Se ci fosse convinta tessitura tra una storia comune e un  futuro pur competitivo tra di noi.
Noi non so più nemmeno io a chi riferirlo. Il lungo colloquio con Marco Pannella – che chiude ora un anno e mezzo dopo con un altro libro anch’esso edito da Bompiani questa ricerca, allegra e sofferente, fervida e delusa – mi farebbe dire che c’è una connessione di vivi e morti affini che hanno abitato e abitano ancora “le nostre storie”. Ma non sono più molto sicuro che questa cosa sia capita, accettata, rispettata.
S.R.
Milano, 11 dicembre 2009