Un brano di commento al libro di Sergio Zavoli “Il ragazzo che io fui” (Mondadori, 2011)
Sergio Zavoli , Il ragazzo che io fui, Mondadori 2011
Da un commento personale scritto all’autore
Il trasferimento della cronaca della vita nel piano alto della letteratura in un certo senso antropologica, con il realismo dei fraseggi che, come quelli di Tonino Guerra, più sono semplici più sono poesia, aiuterebbe qualunque lettore sensibile.
A me fa un grande effetto, anche quello delle storie personali che scorrono, di generazioni epocali che abbiamo amato, di lunghe periodizzazioni valoriali che trascendono le scansioni plebee che stiamo vivendo. Insomma, qualche ora di trasferimento nella maestria di “scenari e interrogazioni” (come dice il risguardo del libro) in cui alla fine il tuo messaggio riguarda il primato del lavoro, della scrittura, della parola e della memoria rispetto a quello dei poteri e degli incarichi che pure la vita non ti ha lesinato.
E dentro quella parola e quella memoria – rendendo così definitivamente sensato il sogno vivente di Federico Fellini (il capitolo che lo riguarda e’ in assoluto maiuscolo per sintesi e per intensità) – c’e il grumo generatore dell’età’ tenera, la mitologia dei luoghi, la spiegazione di questo nostro essere italiani nelle mille radici di una condizione per tutti sentimentale. Se fossimo tedeschi, sarebbero le mille radici di una condizione romantica ed estetica. E via comparando. Ed e’ allora quella del sentimento la metafora del “fui” così da riportare a casa, la tua casa, il senso anche aspro della vita che abbiamo vissuto (le pagine insistite sul brigatista rosso Moretti ne sono un esempio).
A me fa un grande effetto, anche quello delle storie personali che scorrono, di generazioni epocali che abbiamo amato, di lunghe periodizzazioni valoriali che trascendono le scansioni plebee che stiamo vivendo. Insomma, qualche ora di trasferimento nella maestria di “scenari e interrogazioni” (come dice il risguardo del libro) in cui alla fine il tuo messaggio riguarda il primato del lavoro, della scrittura, della parola e della memoria rispetto a quello dei poteri e degli incarichi che pure la vita non ti ha lesinato.
E dentro quella parola e quella memoria – rendendo così definitivamente sensato il sogno vivente di Federico Fellini (il capitolo che lo riguarda e’ in assoluto maiuscolo per sintesi e per intensità) – c’e il grumo generatore dell’età’ tenera, la mitologia dei luoghi, la spiegazione di questo nostro essere italiani nelle mille radici di una condizione per tutti sentimentale. Se fossimo tedeschi, sarebbero le mille radici di una condizione romantica ed estetica. E via comparando. Ed e’ allora quella del sentimento la metafora del “fui” così da riportare a casa, la tua casa, il senso anche aspro della vita che abbiamo vissuto (le pagine insistite sul brigatista rosso Moretti ne sono un esempio).
Stefano Rolando
La foto è dei primi anni ’80
