Un appunto di memoria sull’amicizia riguardante l’amb. Boris Biancheri

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Come mi ero ripromesso, ho trovato un momento di tempo per scrivere un appunto di memoria su alcuni episodi nati nei contesti professionali in cui ho maturato un sentimento di  stima e di amicizia per l’amb. Boris Biancheri, di recente scomparso, dopo avere segnalato il dispiacere per il triste evento riportando i commenti scritti su di lui da Ferdinando Salleo e da Marta Dassù. Qui limito a quattro spunti che scorrono in oltre venti anni.

 
Milano, 23 settembre 2011 – Voglio ricordare alcuni  episodi che riguardano i miei rapporti con Boris Biancheri, un diplomatico italiano di visione, di competenza, di eleganza e di consistenza di opinioni che ha servito molto bene il Paese e la sua amministrazione. E che sarà certamente ricordato con alta stima dai molti amici che ha annoverato in vita.
L’ho conosciuto nel corso del “famoso” viaggio in Cina di “Craxi e i suoi cari” del 1986. Ero da un anno nelle mie funzioni di direttore generale dell’informazione e dell’editoria a Palazzo Chigi (al tempo avendo anche competenze nella promozione dell’immagine e della cultura italiana, in evidente sinergia con la Farnesina). In realtà il viaggio aveva dossier preparati sui molti fronti ed era apripista – in quella fase (Deng) ancora di transizione (erano i tempi dei furori di stato contro “la banda dei quattro”) che doveva poi generare ribaltamenti completi delle relazioni internazionali tra occidente e oriente. Accanto ai cari c’era una squadra di direttori generali della Presidenza del Consiglio e degli Esteri che “fece squadra”, che ragionò sulle opportunità e che lavorò non solo di passerella. L’amb. Biancheri era in quel momento  – se ben ricordo – direttore generale agli affari politici ed era stato ambasciatore a Tokio. Fu, per le evidenti combinate ragioni, un punto di riferimento essenziale per capire e per stare con i piedi per terra. Il posizionamento dei rapporti bilaterali fu segnato positivamente da quel viaggio, al di là del modo con cui giornalisti come Chiara Valentini (di Panorama) scrissero e continuarono a scrivere negli anni occupandosi solo e soltanto dei “cari” di Craxi.
Quasi alla fine del mio percorso alla Presidenza del Consiglio venni invitato dall’ambasciata americana a Roma a svolgere un viaggio di conoscenza e di studio negli Stati Uniti. Avevo in tutto dieci giorni, da costa a costa, per visitare – nel 1995, anno in cui internet ha cambiato la storia del mondo ma prima negli USA, e poi, dall’anno dopo, in Europa – istituzioni e imprese importanti per capire il cambiamento del sistema di comunicazione americano. Un’esperienza rilevante (il diario divenne un libro, edito da Armando, La grande mela e altri frutti proibiti. Breve viaggio nell’America dei new media). Avevo avuto l’incarico di organizzare a Villa Madama a settembre l’incontro del Comitato scientifico internazionale del Museo della radio e della televisione di New York, presieduto da Henry Kissinger. Il presidente Lamberto Dini teneva molto all’evento – che portò anche personalità italiane del calibro di Gianni Agnelli e di Renato Ruggiero – e riservai una serata finale di quella “corsa” ad una cena a Washington con Boris Biancheri, ambasciatore d’Italia negli USA.
Ebbe la cortesia di invitare in un ristorante simpatico due bravi giornalisti italiani come Paolo Passarini e Francesca Barzini, per consentirmi di percepire il clima di quel momento negli USA (presidenza Clinton in fase ascendente) senza mediazioni. Ed ebbe grande attenzione per il mio proposito di promuovere a valle di quell’evento un meeting bilaterale su regole e trasformazioni nel campo delle comunicazioni tra italiani e americani (con i quali avevo già nel 1992, allora come presidente di Eurovisioni, impostato una sessione intera del forum a Villa Medici con  un triangolare Europa, Giappone USA sui rapporti tra cinema e tv). Ne parlammo appassionatamente. Mi chiese di mandargli la traccia del progetto, sapendo quante difficoltà avrebbe incontrato, ma dichiarandomi tutto il sostegno. Proprio al rientro di quel viaggio (in aprile) maturai l’idea di lasciare, dopo dieci anni,  l’Amministrazione e cambiare ambito di esperienza, andando a dirigere le relazioni esterne del gruppo Olivetti e quel progetto restò tra i tanti nodi nostalgici nel fardello delle mie incompiute.
Due anni dopo ricevetti una sua telefonata e mi fissò un colloquio. Lui era tornato a Roma come segretario generale del Ministero degli Esteri e io – a conclusione dell’anno in Olivetti (che finì per tutti con la fuoriuscita della prima linea aziendale) ero stato chiamato dal Consiglio regionale della Lombardia come coordinatore dei direttori generali. Spiegai che ero piuttosto contento di riprendere un rapporto di lavoro stabile nella mia città, unendo anche un maggiore impegno in Università. La sua proposta era maturata per una indicazione venuta dall’interno del management dell’Unione Latina a Parigi (organismo affiancato all’Unesco, con cui avevo strettamente collaborato), per avermi come segretario generale aggiunto dopo l’uscita del segretario fondatore Philippe Roussillon (che a sua volta aveva fatto il mio nome).
Biancheri – con la flemma e la naturalezza con cui trattava le cose – aveva indossato quella proposta facendo così una piccola rivoluzione (piccola per il carattere di non dirompente importanza di quella organizzazione, ma inusuale). Cioè di proporre, per incarichi che la Farnesina teneva sempre stretta per i suoi, un “esterno” per giunta anche uscito dall’Amministrazione dello Stato. Per questa ragione ebbi con lui parole di grande gratitudine. Gli chiesi di comprendere il mio argomento nel subordinare quell’incarico – interessante, ma con fragilità di varia natura – alla possibilità che la Presidenza del Consiglio, avendo quattro posti liberi di direttore generale, mi reintegrasse per lasciarmi compiere quel mandato (massimo di quattro anni) in condizione di aspettativa senza assegni con rientro operativo dopo quel periodo. Credo di non sbagliarmi se dico che né Romano Prodi (presidente) né Walter Veltroni (vice-presidente) vibrarono di calore per questa ipotesi di reintegro (il sottosegretario Arturo Parisi in un colloquio girò attorno al profilo “non evanescente” con cui avevo esercitato il mio incarico per dieci anni)  che fu lasciata cadere in sostanza senza prendere decisioni. Così che rinunciai e restai a Milano nel Consiglio regionale. Dove puntualmente dopo quattro anni fui nelle condizioni di dover lasciare dopo che un vicepresidente – decisivo per la maggioranza – ebbe il mio rifiuto a un trattamento inusuale di contribuzioni a giornalisti e tv (su cui non voglio dire di più). Salvo il favore del presidente dell’assemblea, questo e altri episodi simili con gli esponenti in consiglio della maggioranza mi indussero a svolgere il concorso a cattedra alla Facoltà di Economia di Ca’ Foscari e , una volta idoneato, di scegliere l’università di ruolo al posto di un incarico da me svolto nella cornice della mia abituale tesi per cui  “io propongo loro decidono”, mentre la loro tesi era stata così modificata dai cambiamenti tra prima e seconda repubblica: “lui propone quello che noi proponiamo e poi noi decidiamo”.
Raccontai in amicizia, tempo dopo, questo sviluppo a Boris nel corso di un viaggio fatto insieme. Apprezzò molto la mia serenità nel passaggio di ruolo in università. Constatando insieme che quel vicepresidente che mi aveva osteggiato era nel frattempo finito in galera per la stessa ragione su cui aveva sollevato grandi ire nei confronti dei miei fermi comportamenti. E che il segretario generale aggiunto dell’Unione latina,  dopo avere io declinato, alla fine mandato a Parigi, nella persona del presidente fondatore del Premio Grinzane Cavour, aveva dedicato modeste e non costruttive attenzioni a quell’incarico e legato ai suoi interessi (e al suo modo di gestire gli interessi) del Premio Grinzane era a sua volta finito in galera. Boris osservò che era uno spunto magnifico per un racconto sui nostri tempi.
Ci si incontrava comunque in vari contesti, e sempre con la stessa cordialità. All’European Press club generato a Roma dalla Rappresentanza della Commissione europea allora diretta da Gerardo Mombelli, ai Consigli di Aspen Institute Italia e poi a Milano agli eventi dell’ISPI che l’amb. Biancheri presiedeva. Nelle magnifica sede dell’Istituto, nella galleria affrescata dal Tiepolo, l’amb. Biancheri aveva accolto, tra l’altro,  le delegazioni europee di una conferenza del Club of Venice  da me promossa, intervendo in chiusura di cena con humor e competenza, ben al di là dei convenevoli che di solito con gradevole garbo i diplomatici fanno.
Per l’ultimo incontro, piuttosto recente, in chiusura della sua presidenza dell’ANSA, lo andai a trovare a Roma a via della Dataria. Credo nel 2008.  Avrei molto tenuto ad sua presidenza di tavola rotonda per un evento sulla comunicazione istituzionale di grande rilievo europeo che stavo organizzando. Mi disse di sì volentieri (poi l’agenda a ridosso dell’evento non lo permise) e scambiammo per la prima volta alcune parole di verità su persone che in un’epoca così ambigua come quella degli anni ‘90 avevamo conosciuto per le responsabilità che al tempo o in seguito avevano avuto. Di una – Giulio Andreotti, a lungo suo ministro – mi stupì la nettezza di giudizio, rispetto al modo abitualmente vago e sornione con cui i diplomatici hanno sempre parlato di Andreotti, anche in privato. Dell’altro, non posso dire né nome né circostanze, a entrambi note, ma prima o poi, quando tutti i punti quadreranno, nelle forme che certe storie meritano, sarò meno reticente.
S.R.