Torno oggi a salutare Manlio Cancogni (Fiumetto, Marina di Pietrasanta, 11 agosto 2011)


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Torno oggi a salutare Manlio Cancogni, nella sua casa platealmente senza manutenzione esteriore, zeppa di libri e quadri, sul viale a mare in Versilia, a qualche centinaia di metri dalla mia, seduto nella stessa poltrona in cui due estati fa mi ha concesso un lunghissimo colloquio, parzialmente pubblicato e in altra parte in attesa di avere luce in un libro che ho finito, sull’8 settembre, in realtà dedicato a mio padre. Anche lui classe 1916, anche lui guerra di Grecia.
Dunque 95 anni, lucido e scettico. Fu un grande giornalista italiano (l’Europeo, l’Espresso), autore di celebri inchieste, romanziere di grande spessore (Goffredo Fofi di recente ne ha scritto come un autore ancora da scoprire) ha vinto il Bagutta, lo Strega, il Campiello, il Viareggio e il Grinzane. Gli parlo di Roma e di Milano. Città che – insieme all’America – abitano di più la sua memoria. Ne avrebbe piena facoltà fisica, ma tende non solo a non allontanarsi da casa ma neppure dalla sua poltrona. Attorno a cui ha chiuso al tempo stesso in questi giorni la lettura di  La grande storia degli zar di Henry Troyat (abbiamo fatto congetture sulla visita del 12 agosto di Berlusconi a Putin, ma ne riparlerò), un libricino stampato dal Poligrafico dello Stato nel ’45 di Arrigo Benedetti L’estate crudele e il capolavoro di Mark Twain (su cui ci siamo molto intrattenuti) Le avventure di Huckelberry Finn. Mi comunica (lui versiliesissimo, nato per caso a Bologna) il suo epitaffio: “Qui giace MC, milanese”. Dice: “Ci sono arrivato appunto nel ’45 e resta la città in cima ai miei pensieri”. Attorno a ferragosto si prevede un supplemento di colloquio, questa volta registrato, su questo specifico tema. Milano.