Testo interventi integrali presentazione “Una voce poco fa” di S. Rolando Camera Deputati 14 lug 09
Una voce poco fa
Politica, comunicazione e media
nella vicenda del Partito Socialista Italiano dal 1976 al 1994
Presentazione del libro di Stefano Rolando
edito da Fondazione Craxi/Marsilio editore
il 14 luglio 2009
alla Sala della Mercede alla Camera dei Deputati a Roma.
Interventi di Andrea Spiri, Stefania Craxi, Simona Colarizi,
Enrico Mentana, Walter Veltroni e Stefano Rolando.
Il commento del Corriere della Sera (Andrea Garibaldi)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
Andrea Spiri
Iniziamo la nostra presentazione. Vorrei prima di tutto esprimere un ringraziamento al pubblico che in modo numeroso ha affrontato il caldo di oggi per partecipare a questo evento. E un ringraziamento ai nostri relatori che hanno accolto l’invito della Fondazione Craxi e che oggi sono qui accanto a Stefania Craxi e a Stefano Rolando, autore del libro che presentiamo. Simona Colarizi, Enrico Mentana, Walter Veltroni. Una storica, un giornalista, un politico. Tre voci, tre ottiche necessarie per inquadrare il contributo che presentiamo. Questo lavoro innanzi tutto rappresenta una responsabilità e un obiettivo che la Fondazione Craxi persegue. La Fondazione ha promosso la ricerca che il libro sottende. E che ha promosso in questi anni analoghi percorsi di approfondimento e di ricostruzione storica. Di riflessione sul passato prossimo dell’Italia, sul socialismo, sulla figura di Bettino Craxi. Sempre con attenzione costante a saldare l’impegno della ricerca storica alla maggior chiarezza e alla maggiore libertà di analisi. Ed è un merito che va riconosciuto in pieno a Stefania Craxi. Un tema difficile, quello affrontato da Stefano Rolando, per molti versi anche controverso. Cioè il rapporto tra la politica del Partito Socialista dal 1976 al 1994 con tre aspetti della questione comunicativa. La comunicazione rivolta a se stesso, cioè ai propri militanti, per esprimere identità, linea, orientare la condivisione del cambiamento e stimolare la partecipazione. Quella rivolta ai cittadini e agli elettori per accrescere i voti e i consensi. Quella rivolta ai media per affermare posizioni e combattere una lotta politica legata a una realtà di emarginazione nel contesto politico italiano. Un lavoro analitico che pone le basi per un più ampio processo di contestualizzazione del percorso comunicativo del PSI, aperto alla partecipazione di studiosi, di storici, di esperti di comunicazione, degli stessi esponenti del gruppo dirigente socialista di quegli anni e anche esponenti di altre forze politiche, che hanno vissuto in presa diretta gli eventi trattati nel libro e che rispondono a vari quesiti nel contesto del trattamento dei fatti. Rispetto a questi contributi si può anche dissentire. Ma essi colgono però degli aspetti importanti di una vicenda che la ricerca identifica come anticipatrice della evoluzione della cultura politica italiana. Il tema della rappresentazione della politica stessa, quindi della dinamica comunicativa. Il libro permette di cogliere luci e ombre. Dalla sua lettura emergono gli aspetti salienti di un grande percorso politico e anche le criticità di un percorso di gestione. Ma su questo lascio volentieri la parola ai relatori. E il compito di esprimere opinioni più compiute. Cominciando da Stefania Craxi.
Stefania Craxi
Consentitemi innanzi tutto di ringraziare l’autore, Stefano Rolando, che attraverso questa ricerca, una ricerca complessa, ci ha consentito di giungere al risultato che Andrea Spiri ci ha appena descritto. Vorrei anche ringraziare Cesare De Michelis, qui presente, che in questi anni è stato l’editore dei libri che la Fondazione Craxi ha promosso. Attraverso questa analisi Stefano Rolando scava nella comunicazione politica del PSI e scava a fondo nella storia di Bettino Craxi, che è stato l’uomo che ha più innovato nella politica italiana degli anni ottanta. Un libro che sia aggiunge a altri nostri contributi. E come di consueto abbiamo lasciato all’autore la più ampia libertà di trattamento, di espressione e di conclusioni. Ciò non fa venire meno naturalmente i nostri convincimenti.
La comunicazione è l’espressione dei valori che sottostanno all’azione politica di un uomo e di un’organizzazione. Vorrei fare una prima annotazione sul libro. Non è solo una intelligente trattazione dei temi ma anche la raccolta di tante testimonianze. Ogni argomento è attraversato dalle opinioni di circa trenta soggetti. E questo può dare al lettore un ampio spettro di considerazioni, che spesso condivido, altre volte no. Un metodo che comunque appaga molto il lettore. Che cosa non ha innovato Craxi? “Il Psi – scrive Rolando – fu un partito di forte proposta politica che ingaggiava confronti con il Partito Comunista e una forte competizione con la Democrazia Cristiana al governo. Ma anche un confronto con le lobbies e con i poteri forti nel rapporto tra istituzioni e mercato”. Da qui la necessità di una rivoluzione anche simbolica, di tutta la simbologia del Partito, cominciando da quel garofano rosso che Craxi riprende da una vecchia tradizione riformista dell’inizio del secolo, in contrapposizione alla falce e martello mutuati da Bombacci sul modello dell’Unione Sovietica, quel Bombacci massimalista finito poi a piazzale Loreto con i fascisti.
Ma non è stato solo il garofano. Come vedete, nell’appendice del libro ci sono tutte le tessere, la grafica del PSI, di tutti i manifesti, di tutte le pubblicazioni. Ne affidò il design ad un artista di valore come Ettore Vitali. Promosse un’oggettistica firmata. Rinnovò l’architettura congressuale. Identificò il PSI con il made in Italy promosso da Craxi. I manifesti, le tessere, i colori ricordano spesso i colori della bandiera italiana. Tutto è rinnovato in quegli anni, come le testate giornalistiche del partito, innanzi tutto l’Avanti! e Mondoperaio.
Nel libro di Rolando si trova anche una vera perla, un capitolo che racconta in quegli anni il rapporto del PSI con il mondo dello spettacolo. Naturalmente poi negli anni seguenti vi è chi ha smentito quel rapporto. Ma il mondo dello spettacolo è una componente fondamentale della rivoluzione di immagine compiuta dal Partito Socialista e in quel contesto è Craxi svolge proprio il ruolo di cerniera con quegli ambienti: musica, cinema, teatro. Lo sforzo di rivolgersi ad ambienti meno plumbei, quelli che generalmente gravitavano nella sinistra italiana. Un’intera generazione che si ritrova in quella linea di rappresentazione di una realtà più sorridente. Con Craxi presidente del Consiglio e Lagorio ministro del Turismo e Spettacolo si vara la riforma per il fondo unico dello spettacolo, tesa a smettere di finanziare quelli spettacoli che non vede nessuno e una certa faziosità del cinema di Stato. Insomma considerare lo spettacolo un vero e proprio settore produttivo. Franco Bruno, allora presidente dell’Agis, invita Craxi a presentare a Villa Miani la riforma. E’ presente tutto il mondo dello spettacolo. Qualcuno aveva le lacrime agli occhi. Molti applaudivano.
Va molto meno bene nei confronti della stampa. Stefano Rolando osserva che “Craxi piace poco alla stampa italiana”. Cita Pansa che cita gli amici di Berlinguer che dicono che Craxi è il nuovo Mussolini e cita Guido Gerosa, socialista, che scrive che “Bettino ha sempre avuto un rapporto difficile con la stampa”. Su questo punto vorrei dire qualcosa di più. Intanto non è vero che Craxi non piaceva alla stampa. Se disponessimo di sondaggi credo che Berlusconi avrebbe altri record da battere. La verità è più cruda. Non esiste in Italia la stampa di opinione. La stampa italiana sottostà a interessi politici ed economici e a poteri. Craxi combatteva questi interessi e questi poteri. Riceveva attacchi personali, denigrazioni, falsificazioni. Un esempio: non si trova un giornale italiano che dia risalto alla firma del Concordato che fu un evento storico. Da dove parte la distruzione del Partito Socialista? Parte dai due maggiori giornali italiani, il Corriere della Sera e la Repubblica. Dietro a cui non ci sono “liberi giornalisti” ma poteri forti, i due capitalisti Agnelli e De Benedetti che al tempo della scala mobile stavano contro la gestione di Merloni della Confindustria per cercare di farla votare contro. E quindi contro Craxi. Questi due giornali trascinano tutta la stampa italiana che dipinge i socialisti come i ladri del secolo. Segue anche l’Unità di cui qui presente vi è qui il direttore del tempo. Contraddicendo un fatto incontrovertibile e cioè che ad accumulare soldi alle spalle dell’Italia sono loro, i Romiti e i De Benedetti.
Il Partito Comunista viene dopo, molto dopo, a campagna giustizialista già iniziata, ad offrire il suo avallo politico a quella falsa rivoluzione che distrusse cinque partiti storici che avevano fatta grande l’Italia. Certo favoriti da un grande errore di Craxi che fu quello di pensare che sarebbero potuti cambiare i comunisti mentre non poteva diventare quello che avevano denigrato per settantenni, cioè riformisti.
Qui mi fermo. Spero che dopo gli interventi potremo continuare a dibattere. Grazie.
Simona Colarizi
Grazie ad Andrea per gli spunti di discussione che mi propone sulla storia del Partito Socialista. Prima vorrei fare una premessa sul libro di Stefano. E’ veramente un bel libro, un libro corale. Siamo abituati a libri a più voci, cioè con vari saggi. Questo è davvero espressione di una continua coralità. Credo che non sia stato facile scriverlo. Stefano Rolando è stato un po’ il direttore d’orchestra e di coro che, per tutto il testo e su vari temi di uno spartito che l’autore ha tessuto, vede ciascuno esprimere la propria voce. Sono voci non identiche, anche dissimili, che vengono ciascuna da proprie esperienze, sono voci che vengono da riflessioni, voci che vengono da passioni. L’autore è stato davvero un bravissimo direttore d’orchestra. Il coro non è identico ma non è disarmonico.
Fatti questi complimenti, sinceri Stefano, perché il libro è davvero bello e interessante e pieno di spunti, troppo pieno di spunti per discuterli tutti, svolgo alcune considerazioni. Diciamo le mie impressioni, dopo aver ascoltato quel coro e tenendo conto delle sollecitazioni del moderatore.
Questa riflessione – sostanzialmente centrata su che cosa sono stati gli anni ottanta – a livello storiografico si sta già facendo. Un gruppo di storici ci sta già lavorando. E l’orientamento è quello che vede gli anni ottanta come una transizione. La vera transizione dalla vecchia Italia a un’Italia nuova non comincia nel ’94. C’è chi parla di “transizione” appunto dal ’94, ma non mi sembra possibile classificare l’arco di un intero quindicennio come “transizione”, a meno che non si voglia considerare tutta la storia come una transizione, che potrebbe anche essere un legittimo approccio.
Il ’94, cioè quello che succede dopo il ’94, è preparato nel bene e nel male (e anche qui torna l’opportunità del coro) prima. E in questo quadro a me pare che il PSI di Craxi sia da considerare il vero interprete di quel cambiamento. E anche con un progetto di cambiamento. E questo discorso investe appunto la storia di quel partito. D’accordo, è un partito con elementi di leadership forte, un partito con elementi di leadership personale. Cose che si svilupperanno nella politica dopo il ’94. Ma al di là di ogni valutazione questo è chiaramente un processo di modernizzazione. Craxi aveva capito che i partiti di integrazione di massa erano declinati. E proprio questo il punto di partenza su Craxi e i socialisti con elementi di coralità. Craxi capisce che la società italiana è cambiata e lo capisce molto prima di tutte le altre forze politiche e prima comunque del suo principale antagonista, il Partito Comunista. Spiri ha fatto riferimento a La cruna dell’ago, un mio lavoro scritto con Gervasoni che parte da prima, dagli anni settanta. Se pensiamo a tutto il dibattito sulle trasformazioni che ha coinvolto gli intellettuali socialisti, capiamo che essi furono una sponda importantissima per Craxi nella conoscenza di quei cambiamenti, di quello che stava maturando nella società. Ci accorgiamo cioè che il Partito Socialista coglie tutti gli elementi di una società nuova, mentre altre forze politiche sono in affanno. Bisogna arrivare all’81, all’82 perché la classe operaia come riferimento generale sia messa da parte. E’ un mondo ormai post-industriale, un mondo regolato dalla conoscenza, un mondo in cui i grandi aggregati collettivi stanno scomparendo come sta scomparendo il ruolo dei partiti come soggetti di integrazione di massa. Si sta aprendo un nuovo modo di fare politica e di interpretare cosa sta succedendo nella società. L’accenno che faceva Stefania al referendum sulla scala mobile è uno degli elementi chiave per capire. C’è nel Partito Socialista una percezione e una capacità di intercettare il fortissimo cambiamento sociale del passaggio tra gli anni settanta e ottanta.
Queste questioni con il passare degli anni sono diventate di dominio pubblico. Tutti accettano oggi l’idea che c’era una mancanza di interpretazione adeguata, di lettura e di analisi, nelle altre forze politiche italiane, di quello che stava succedendo nella società. E’ assodato. Anche il Partito Comunista, quando si dissolve e si trasforma, comprende all’inizio degli anni novanta che c’era stata una gravissima arretratezza di tipo analitico. La famosa frase di Berlinguer che si era andato a “immolare” davanti ai cancelli della FIAT, resta come emblematica. Una frase vera. Perché non aveva capito cosa stava succedendo sia nel mondo del lavoro, sia nei cambiamenti valoriali.
Questo naturalmente vale per mettere in evidenza la complessità dei temi della modernizzazione che andava affrontata, materia su cui Craxi mise mano. E qui abbiamo elementi per dire che quel periodo è periodo di transizione. Nel 1979, quando si esaurisce la fase di compromesso storico, si ricorda una frase pronunciata da Ugo La Malfa prima di morire: “le abbiamo tentate tutte”. Una cosa da ricordare. Nel senso che era finita un’epoca. Quella che comincia lì è l’esigenza di ridisegnare, dunque di modernizzare.
Non voglio nemmeno toccare il tema della comunicazione, di cui Stefania ha parlato (e poi qui ci sono comunicatori di vaglia), ma è certo che questo tema ci dice quanto quel Partito Socialista riusciva ad interpretare il nuovo. Craxi soprattutto capisce che il sistema politico era arrivato al capolinea e andava per primo rinnovato. Attraverso però una grande riforma istituzionale. Ed è proprio questo che viene a mancare in quegli anni ottanta. Credo con colpe di tutti. Perché non ci furono risultati e si cercò allora di passare per la via breve delle riforme elettorali. Una cosa devastante, a mio avviso. Perché si è ridotto a quello stretto ambito qualcosa che invece doveva portare a cambiamenti strutturali della Repubblica, si doveva arrivare alla “quinta Repubblica francese”. Così si sono esasperate tendenze nuove, tenendo conto che negli anni ottanta c’è anche la tendenza populista, c’è la tendenza all’anti-politica. Tendenze che vanno a coagularsi poi nella fase di distruzione del sistema politico italiano.
Chiudo con una osservazione. Quale è in questo quadro l’occasione mancata? So che è sempre difficile rispondere a questo genere di domande, ma qui l’occasione mancata c’è e si chiama ’89. Nell’89 il sistema politico italiano si sblocca. Uno degli elementi di maggiore rigidità viene meno. Forse la classe politica pensava di avere molto più tempo a disposizione. Forse questa è la giustificazione. Ma era lì che si dovevano mettere insieme tutti gli elementi nuovi che erano già emersi grazie al Partito Socialista che era indubbiamente la forza più nuova e vivace. Lì si doveva intervenire in modo nuovo.
Enrico Mentana
Spiri mi sollecita a dire se i media hanno favorito o sfavorito l’immagine di Craxi e dei socialisti, ma debbo dire che a questa domanda non si può rispondere, perché un periodo così ampio – che va dal ’76 al ’94 – non permette di analizzare comportamenti univoci. Ci sono giornali come il Corriere della Sera che hanno avuto un po’ tutti i comportamenti, a seconda del vento politico o del vento economico che tirava.
Ma voglio subito dire che non credo nemmeno che la freccia più acuminata a disposizione in quegli anni del Partita Socialista sia stata la freccia della comunicazione. Più della forza della sua politica. Penso anzi esattamente il contrario. Ho avuto un angolo visuale privilegiato. Ero credo il più giovane delegato al congresso del Partito Socialista del 1976. Avevo 21 anni. Ricordo il congresso nazionale di un partito guidato da Francesco De Martino uscito da quel congresso con la formula “senza i comunisti non si può governare”. In sostanza una abdicazione, rispetto al ruolo di un partito non gregario. Un partito che era stato nella sinistra nel dopoguerra anche il primo partito. Eppure era pervenuto ad un ruolo minoritario, né medio né intermedio per ribaltare un’espressione in voga tra gli intellettuali socialisti in quegli anni settanta. Un partito che comunque aveva saputo avere un ruolo di riavvicinamento ai socialdemocratici e complessivamente all’area di governo del paese. Un partito che quando lo conobbi, cioè quando presi la tessera nel ’74, aveva una forza integra che gli arrivava anche dal fatto che l’Europa stava virando verso il socialismo, con la rivoluzione mitterrandiana in corso che dava forza e speranza e nuovi elementi di stimolo e dibattito politico forte. Insieme ai primi seri problemi che attraversava il sistema comunista occidentale, la vicenda dei “tre partiti” che sembrava avere abbacinato molti a metà degli anni settanta (pensate che fine fecero gli altri due partiti eurocomunisti, spagnoli e francesi!). Sembrava che noi si potesse fare tanto ma che però si era frenati da una sorta di “tappo”rappresentato dalla dirigenza e dal ruolo storico di questo partito appannato. Ebbene la stangata presa dal PSI alle elezioni del 1976 fu l’elemento che pose l’ineludibilità del cambiamento. E Craxi fu la persona scelta proprio perché era leader della corrente più piccola. Quindi un cambiamento che garantisse tutti, forse tolto De Martino e una certa retorica passatista del partito.
Craxi si trovò ad essere l’uomo giusto al momento giusto, con le idee giuste, soprattutto con la capacità di ante-vedere una serie di cose. Soprattutto che quel sistema, bloccato su due partiti fortissimi, radicatissimi, sicurissimi di sè, poteva essere un sistema scardinabile. Scardinabile con un gioco che doveva essere quello della “nave corsara”. Veloce, agile, spregiudicata, a volte per l’appunto “pirata”. Questo lo fece con la politica, molto più che con la comunicazione. Che al tempo oltre a tutto era davvero altra cosa. E lo fece mettendo mano all’organizzazione del partito, come primo elemento da scardinare, che era fatta come quella del Partito Comunista, nelle strutture formali. Lo fa come si fa con quei palazzi che mantengono la facciata esterna ma in cui vengono abbattuti tutti i muri interni. La sede storica di via del Corso venne mantenuta, ma all’interno era stato cambiato tutto. Prima quel partito era fatto come i partiti della sinistra italiana da cinquanta anni. Con le sezioni, l’ufficio massa, l’ufficio cultura, eccetera. Che davano il senso di un partito fratello minore di un altro partito, con la sua bella quota minoritaria nella CGIL, nell’ARCI e in cui la parola “socialdemocratico” era una parolaccia, in cui la parola “anticomunista” era una parolaccia.
Non voglio dire questa per dire “che vergogna” o “quanto tempo è passato”. Ma per segnalare a uno storico magari ancora più giovane della professoressa Colarizi come queste cose fossero la sostanza. La parte autonomista che veniva a Roma al seguito di Craxi veniva da quell’apparato bollata appunto come “socialdemocratica e anticomunista”. Perché il PCI veniva considerato l’elemento forte, l’Achille che avrebbe fato cadere le mura di Troia. Dal 1976 Craxi ribalta completamente questo schema, nelle idee e nell’organizzazione del partito dimostrando che tutto il resto era in realtà fuori moda. Tuttavia arrivarono gli anni del terrorismo e il terrorismo portò ad una velocizzazione e anche a un certo impazzimento del quadro. Dagli anni della austerità, espressione nobile di Berlinguer per dare un senso alle difficoltà di una parte della società italiana, riprendendo forse una fase poco felice dell’esperienza Attlee in Gran Bretagna dopo la guerra, si arrivò alla fase più dura, la fase dello scontro, con l’evidenza che la società italiana si stava stancando dell’immobilismo della politica, mentre si stava sgretolando il mito della centralità operaia. In quella fase che superficialmente venne chiamata “del riflusso” c’erano in verità altre pulsioni, altre interessi, un’altra idea di società e di futuro. Craxi riesce a cavalcare questo. Il primo partito che intravede la luce in fondo al tunnel del terrorismo, del contrasto, del conflitto. E, per questo, quando si esce da quella galleria arriva come più attrezzato. Qualcuno ironizza dicendo che quando si parla di idee di riforma qualcuna fatalmente arriva al “progetto di democrazia” di Gelli. Ma se vediamo sul serio le idee sulla riforma istituzionale e anche quelle sulla democrazia conflittuale si capisce – come ha detto la professoressa Colarizi – che se quelle idee di modernità fossero state immesse nella politica italiana a tempo debito si sarebbe potuto evitare lo shock della sola riforma elettorale per adeguarsi ai cambiamenti, un clima che portò – volenti o nolenti – agli inizi degli anni novanta ad aprire la strada a Berlusconi, così come aveva aperto la strada a “Tangentopoli”.
Vorrei stare sul punto che riguarda Craxi. All’inizio è lui l’uomo che alla guida più piccola del Partito Socialista riesca a rivoltare quel partito come un guanto, lo riesce a rinnovare completamente, per il fatto che è portatore di una forza nuova, la forza del riconoscimento della leadership personale. Ora la leadership personale è stata considerata nel nostro paese, per ovvie ragioni storiche, come negativa. Craxi è il primo leader che riesca ad imporre con le buone e le cattive – e questo sarà un suo punto debole (come ricorda Stefano Rolando richiamando l’immagine di Forattini di Craxi con gli stivali) – un’apertura di strada oggi considerata imprescindibile. Walter Veltroni sa bene che quella della leadership è oggi la questione principale del principale partito della sinistra riformista italiana. Dopo Craxi ogni manuale su come si guida un partito politico va riscritto.
Walter Veltroni
Vorrei fare una premessa sul libro. Intanto perché è un bel libro, che assomiglia al suo autore. Ho con Stefano un’antica frequentazione e antiche ragioni di stima. E’ un libro onesto, nel senso che raccogliendo opinioni e giudizi diversi, riesce a “ricostruire”. Anche con l’affetto e la partecipazione di chi l’ha curato. Mentre, tra le opinioni, vi è chi ha preferito non esserci, cosa che non è mai il modo migliore di partecipare ad una ricostruzione storica.
Oggi questa ricostruzione si può fare con maggiore serenità e maggiore chiarezza e nitidezza. Per questo ho accolto con molto piacere l’invito di Stefania. Da tempo cercavamo un’occasione e una sede per incrociare ragioni e opinioni. Questa di oggi va nella direzione giusta.
Vorrei cogliere l’occasione per dire questo. Prendiamo il periodo che viene preso in considerazione da questo libro. Il periodo dell’esperienza di Bettino Craxi alla leadership del Partito Socialista Italiano. Un periodo in cui succede tutto. Difficile immaginarlo come un periodo unitario. Una storica come Simona ci può ben aiutare in questa difficoltà. E’ un periodo fatto di tante gigantesche rotture. Un periodo in cui cambia completamente il panorama economico e sociale, cambia la composizione stessa della società italiana, la sua struttura. Finisce la classe generale. Finisce la fabbrica come “centro”. E giustamente è stato detto che Berlinguer questo non l’aveva avvertito nel 1980 quando andò ai cancelli della Fiat. E’ un periodo in cui viene eletto un nuovo papa, non un papa che non abbia lasciato un segno profondo nella storia dell’occidente e del mondo. E’ un periodo nel quale si fa l’Europa. E’ un periodo nel quale compare il gigantesco “convitato di pietra”, che troppo spesso teniamo fuori dalla nostre riflessioni, che è il terrorismo. Il terrorismo è stato un soggetto politico della storia d’Italia. Esso ha cambiato gli equilibri, il modo di vivere, i rapporti di forza e alcune regole fondamentali della vita stessa degli italiani. E infine questo diciottennio è stato anche il periodo della caduta del muro di Berlino, della fine dell’esperienza del comunismo realizzato e delle dittature che in nome del comunismo si erano realizzate. Se si prende questo periodo, dal punto di vista storico, e si guarda il nostro paese ci si deve porre una domanda…ora io sono anche in una condizione di maggiore libertà, posso pensare…no, pensare no, ma certo parlare in condizione di maggiore libertà, impegnando me stesso e basta…Ebbene, è la stessa domanda che io mi faccio ora proprio guardando il mio paese: in questi 18 anni, in cui è successo tutto ciò, il nostro paese è cambiato tanto quanto avrebbe dovuto cambiare?
E’ la stessa domanda che ci si potrebbe porre mettendo base nel 1994 e risalendo fino al 2009. Un altro buon quindicennio. E’ cambiato il paese, nel suo modo d’essere, nella sua velocità di decisione, nelle sue scelte fondamentali nel campo delle politiche sociali, nel suo sistema delle autonomie che sono proprie di una società democratica moderna? Potrei continuare. Il nostro paese ha conosciuto, dal ’76 a oggi, un vero “tempo di cambiamento”? Questa domanda ci riporta immediatamente al tema del Partito Socialista e alla questione della sinistra italiana, che è una parte del modo con cui bisogna guardare alla questione socialista. Craxi aveva sicuramente interpretato meglio di ogni altro uomo politico il cambiamento della società italiana. Lo aveva interpretato dal punto di vista del mutamento sociale, lo aveva interpretato dal punto di vista delle strategie di comunicazione (che non sono poca cosa, anche se ha ragione Enrico, sono “quello che viene dopo”, perché non si può comunicare una cosa che non c’è). La comunicazione felice e moderna del Partito Socialista Italiano, la sua attenzione a tutta una serie di mondi che prima erano stati affrontati piuttosto tradizionalmente, è frutto di una cultura. Quella che per me – so che su questo ci sono opinioni diverse, ma vivaddio siamo qui per confrontare opinioni diverse – nel congresso di Torino e nella convenzione di Rimini ha i suoi punti più alti. Secondo me non ripetuti successivamente. Quella cultura fa i conti con la condizione di un paese bloccato. Bloccato perché il nostro paese – tra le tante sue singolari e tragiche anomalie che hanno prodotto l’assenza di cambiamento in Italia – ha, dal dopoguerra in poi, avuto due grandi partiti che stavano bene nella loro collocazione: uno sempre al governo, l’altro sempre all’opposizione. Una condizione in cui il nostro paese non ha goduto dell’alternanza. E senza alternanza esso aveva il massimo della stabilità politica e il massimo del debito pubblico, perché le cose stanno tutte insieme. Craxi, a un certo punto, decide, quando diventa segretario del Partito Socialista, che bisognava cambiare gioco. E bisognava porre il Partito Comunista – o meglio la sinistra – di fronte al problema di una nuova leadership. Penso che questa posizione sia arrivata nel momento in cui anche il Partito Comunista aveva anch’esso fatto una parte di strada, avendo dentro di sé una grandissima contraddizione. Anche qui dovremmo risalire molto indietro. Ma se volessimo scrivere davvero la storia del dramma della sinistra italiana – perché in fondo la sinistra italiana non è mai riuscita a governare tutta insieme questo paese, uno dei pochi paesi europei in cui questo non è accaduto – dovremmo collocare l’errore principale del Partito Comunista nel ’56. Ho riletto da adulto i verbali della direzione del PCI del 1956 – prima non erano disponibili – e fanno davvero accapponare la pelle.
Il PCI aveva fatto con Berlinguer – poi Berlinguer può piacere o non piacere – una trasformazione. Dire che si stava meglio sotto l’ombrello della NATO che sotto l’ombrello del Patto di Varsavia non era cosa di poco conto. Sono tra quelli che sono persuasi che l’Unione Sovietica abbia fatto di tutto per togliere di mezzo Enrico Berlinguer. Di tutto e da tutti i punti di vista. Sicuramente ciò non era sufficiente a realizzare quel processo che si sarebbe dovuto mettere in campo. Partendo da un dato storico, quello dell’anomalia del PCI rispetto a Carillo e Marchais e dal fatto che il Partito Socialista usciva da una condizione di affermata subalternità politica per recuperare una posizione di leadership, di stimolo, di sfida sul piano dell’innovazione. Che veniva dal PCI sofferta come tale.
Qui vengo al tema posto da Simona Colarizi. Che vorrei ingrandire. Sono molto d’accordo con le cose che ha detto. Anche la citazione di La Malfa è emblematica. Valeva per allora e vale anche per oggi. “Le abbiamo provate tutte”. Le abbiamo provate tutte, ma questo sistema politico-istituzionale non è in grado dentro di sé di accettare e generare quelle condizioni di cambiamento che anche maggioranze amplissime in Parlamento dovrebbero consentire. Oggi c’è una maggioranza amplissima in Parlamento ma – lo dico al di fuori dei ruoli – nessuno può ragionevolmente dire che stiamo conoscendo una ventata di cambiamento paragonabile a quello degli Stati Uniti o a quello che c’è stato in Inghilterra con Blair e ancor prima con la Thatcher o anche in Spagna con Aznar. Parlo di esperienze diverse. Il problema sta dentro la crisi di un sistema politico che non aveva affrontato adeguatamente strumenti costituzionali.
E qui ci sono due errori che si evidenziano. Uno è stato l’errore di DC e PCI di opporsi alla “grande riforma”. Cioè di mettere mano alla Costituzione, pur dentro le coerenze con i principi costituzionali (qui sono state molto belle le cose dette da Simona Colarizi sulla coincidenza in quegli anni tra Pertini e Craxi). L’altro errore – ne sono convinto – è stato anche di Craxi. Nell’ultima fase della sua segreteria, come era accaduto anche per Berlinguer nel 1980 – credo che avesse un pochino perduto la misura di quel che stava accadendo. Mi sono chiesto, per esempio, che cosa sarebbe accaduto nella storia d’Italia se Bettino Craxi, di fronte al referendum del 1991, invece di dire “andiamo al mare” , avesse usato quella leva per fare passare un’idea di bipolarismo che non sarebbe potuta avvenire che attraverso una leadership riformista e non certo attraverso una leadership post-comunista.
Paradossalmente la condizione di sistema proporzionale consentiva a ciascuno di fare i suoi giochi, ma impediva il varo di quella prospettiva di costruzione di uno schieramento riformista italiano che solo attraverso uno schema bipolare poteva – e può, non ho cambiato idea sotto questo profilo – garantire a questo paese di conoscere prima o poi un tempo di cambiamento. Ma cambiamento di quelli duri. Di quelli nei quali si incrociano le esistenze sociali e sindacali, le sfide sul piano dell’innovazione. Era questa una delle ispirazioni del Partito Socialista di Craxi. Ma le condizioni politico-istituzionali lo impedivano. E la Democrazia Cristiana – così come voleva imbrigliare il Partito Comunista tanto che era riuscita a imbrigliarlo – ha cercato e ha lavorato anche nella prospettiva di imbrigliare il Partito Socialista.
Sono stato tra i massimi responsabili in quel partito perché fosse chiamato “Partito Democratico della Sinistra” e perché non dovesse scimmiottare un’identità che non gli era propria, esprimendo anche una forma di rispetto per quell’identità. In quel momento si sarebbe dovuta porre, da tutte e due le parti, la sfida di una costruzione non tanto di una alternativa di sinistra (che Craxi rifiutava e non aveva torto a rifiutarla perché era chiaro che nelle condizioni date di un sistema proporzionale quella alternativa era minoritaria) ma la sfida, l’idea della costruzione di un bipolarismo. Dentro il quale fosse possibile affermare (credo che le condizioni ci sarebbero state) un programma di innovazione radicale del paese e una sfida alla Democrazia Cristiana sul piano della modernità, anche con riequilibrio dei rapporti a sinistra.
Stiamo parlando di cose grandi. Di cui di questi tempi pare strano parlare. Così come cosa grande fu la politica estera di Bettino Craxi: Sigonella e al tempo stesso mantenere all’Italia una forte vocazione occidentale. Ora Stefania è sottosegretario agli Esteri e non voglio entrare troppo nella questione. Ma posso capire che sia bene avere rapporti con la Russia e con Gheddafi. Ma noi siamo “Europa e Stati Uniti”. Il cuore della nostra azione politico-diplomatica non può che essere lì. E aggiungo una cosa. Craxi usò una volta un’espressione a cui credo adesso ritorneremo. Per parte mia l’ho usata nel 1996, quando – come potete immaginare – non era facile usarla nella “casa” che era quella della sinistra italiana. Il fatto che si sarebbe dovuti arrivare ad una Internazionale che non fosse l’Internazionale Socialista. Craxi diceva “dei socialisti e dei democratici”.Penso che alla fine si dovrà arrivare a un’Internazionale Democratica dentro la quale ci sarà, naturalmente con grande forza e identità, la storia socialista dell’Europa. Ma l’idea che Obama e il Partito del Congresso indiano non stiano insieme alle grandi forze del socialismo europeo è una cosa che credo finisca per indebolire tutti.
Un’ultima considerazione la vorrei fare sullo specifico del libro che presentiamo, sulla comunicazione. Attraverso la comunicazione credo che il PSI abbia avuto la possibilità di indicare un modello di partito diverso. Non vorrei entrare in questo momento troppo nell’argomento. Ma credo che questo sia davvero un problema della politica italiana. Non è possibile che ci siano due soli modelli di partito: o il Partito Comunista o Forza Italia. Ci dovrà pur essere un modello di partito politico dentro il quale ci sia la possibilità di accogliere anche ciò che non è direttamente organico a sé, con la capacità di apertura alla società civile, ma al tempo stesso con una vita democratica, con un processo di selezione di classe dirigente, con ruoli e responsabilità! Ci potrà essere insomma un partito moderno che però sia “un partito”, capace di esprimere idee!
Ecco, io penso che, attraverso la comunicazione, il Partito Socialista sia riuscito ad esprimere ciò. Craxi aveva nelle mani un partito che – come ha detto Enrico – era strutturato non diversamente dal PCI, sezioni, strutture, eccetera. Ha fatto un’operazione molto importante connettendosi alla tradizione e all’identità. In Craxi non c’è mai una cesura con la storia e l’identità socialista. Il richiamo a Garibaldi. Il rapporto con Pertini. E’ il senso di una storia che non comincia nel ’76. E Craxi ci mette otto anni a rimuovere la falce e il martello, mi pare che ciò sia avvenuto nel 1984, perché aveva il senso di una processualità della storia. Credo che proprio l’utilizzazione di questa forma di comunicazione, pur con elementi di discontinuità, sia stata utile a Craxi per supplire a ciò che si rivelava come un peso. E che poi si rivelerà come un peso. Cioè una struttura di partito che ha finito col mettere piombo nelle ali delle sfide di innovazione che Bettino Craxi ha proposto alla sinistra italiana e al nostro paese.
Stefano Rolando
E’ così difficile, in un dibattito breve, dare pienamente voce a idee, razionalità, sentimenti. Che riguardano la memoria e il ritrovamento di una bussola interpretativa di fatti rilevanti. Ho provato a fare una certa sintesi con il titolo stesso del libro, Una voce poco fa. Un titolo rossiniano che segnala una storia che ha prodotto gioie, dolori, solitudini. Che vuole proporre un ritrovarsi nel dibattito storico ma anche con la coscienza delle violenze che sono intervenute.
Lavorando attorno a questo libro ho avuto da Stefania la segnalazione di un altro libro, che ha avuto la sua importanza nell’orientare la ricerca. Libro di Barbara Spinelli su Il sonno della memoria. Un libro contro il sonno della memoria. Che è lo spirito che ci ha animato non accettando appunto che la memoria sia in sonno. Per avere di nuovo voglia di discutere un brano della nostra storia identitaria. Stando nelle università si sa che ce ne è proprio bisogno, perché i ragazzi affrontano spesso temi di attualità con vuoti sul passato prossimo che fanno impressione. Essi stessi chiedono di coprire quei vuoti. E come farlo se non con uno sforzo di interpretazione e non con delle etichette demagogiche.
Sono perciò molto contento dello spazio di discussione che oggi abbiamo avuto. Anche se non riusciamo a far star dentro tutte le cose che affiorano nei pensieri. E quanto cose appunto ci stanno scappando. E ci scappino, va bene! Ma alcune se ne dicono di nuove. Le cose dette da Walter lo sono. Cose che contano. Non è acquisito, dunque, che il “sonno della memoria” sia la moda vincente .Vi è la necessità di provare a tenere in connessione anche quella “coralità” – ne ha fatto cenno Simona – che ci ha accompagnato. C’è qui Massimo Pini e debbo ricordare che in questo libro questa coralità va da lui a Guido Martinotti, si può ben vedere che ampio spettro abbia. Insomma cercare di contribuire a non considerare più interrotte – e nel modo drammatico che abbiamo visto – certe analisi che finite etichettate in un certo modo hanno portato a delineare false identità.
Vorrei limitare le mie osservazioni a qualche cenno di memoria che integra la cose dette e le cose scritte. Innanzi tutto avendo una parola per un’altra persona presente, Antonio Ghirelli, che nella storia che abbiamo affrontato ha assolto parti importanti, portavoce di Pertini al Quirinale e di Craxi a Palazzo Chigi, direttore dell’Avanti! e del TG2 . Media e istituzioni che investono una parte importante delle cose trattate in questo libro. Il suo lavoro in questi ambiti è stato allo stesso tempo autorevole e sdrammatizzato. Richiamo un aneddoto. Il famoso viaggio in Cina di Craxi (c’era anche Stefania in quel viaggio e c’ero anch’io). I giornalisti seguivano un viaggio che aveva più contenuti e più capacità di previsione internazionale di quanto la cronaca del tempo descrisse, perduta raccontare chi accompagnava il presidente del Consiglio. Così che qualche giornalista al seguito cercava risvolti provocatori. Craxi che aveva le antenne sottili al riguardo replicava con qualche rudezza. E ricordo una di queste colleghe – credo una giornalista di orientamento comunista della redazione di Panorama – che protestò con Ghirelli per il trattamento di Craxi. La risposta fu nello stile professionale di Antonio: “Ne, guagliò, chiste è un genio della politica e tu lo volevi pure beneducato!”.
Prima di fornire alcuni altri spunti, vorrei fare un’osservazione sul tema qui sollevato degli anni ottanta. Ha detto bene Walter Veltroni, riferendosi a quei contesti, “cose grandi”, cose che meritano molta attenzione e una ripresa di riflessioni Di quel periodo si è messo l’accenno soprattutto su un corno del conflitto, quello dell’egemonia ideologica nel rapporto a sinistra. Lo strappo che Craxi condusse portandosi un ampio bagaglio. Dice Walter che anche nel Pci si sviluppò cambiamento. Ma è certo che lo scontro avvenne. E avvenne con fasi diverse. Tanto che ricordo di persona che, finita l’esperienza a Palazzo Chigi e coltivando in quel periodo un’ipotesi mitterrandiana di sviluppo della politica italiana, Craxi ricevette l’applauso dalle basi comuniste sia al congresso della CGIL che al congresso della Lega …si della Lega delle cooperative, come suggerisce ora Walter per non generare confusioni ….Siamo prima della caduta del muro di Berlino e prima dell’ingresso dei post comunisti italiani nell’Internazionale socialista. Dunque un conflitto che a aveva anche generato qualche riequilibrio, anche se non fortemente quello elettorale. Ma forse abbiamo un po’ sorvolato sull’altro corno del conflitto, che nella chiusura del mio libro Francesco Cossiga racconta con dovizia di particolari. L’indisponibilità della Democrazia Cristiana di De Mita di accettare ogni sottrazione di potere politico, come il governo Craxi aveva posto in essere e come avevano scritto alcuni giornalisti – ricordo Gianfranco Piazzesi – segnalando che i dc pensavano che dopo un anno di quel governo Craxi avrebbe piantato le corna su nodi come la scala mobile o come i missili in Sicilia. Non solo quelli non furono ostacoli, ma generarono forza politica e di autonomia che consentì al governo di durare quattro anni. Era difficile immaginare in quel contesto d’urto che Craxi fosse l’unico a compiere errori – come ha accennato Veltroni – perché vi fu certamente solitudine in quel leader che aveva lavorato molto al cambiamento possibile e che si ritrovava una doppia forte indisponibilità in soggetti politici malgrado il messaggio fosse transitato nelle basi di quei partiti e nell’opinione pubblica.
Ciò detto vorrei cogliere l’occasione per dare corpo al cenno che Stefania Craxi ha fatto dicendo che questa iniziativa è stata avviata assicurando la massima autonomia all’autore. Siccome stiamo parlando di informazione e comunicazione la cosa non è da poco perché ci misura appunto con il tema della libertà d’informazione, che è oggi un tema serio e non sufficientemente affrontato. Riporto questo al contenuto del libro e cioè al modo con cui ho potuto percepire nel lavoro diretto, come direttore generale dell’informazione, con Craxi presidente del Consiglio questo aspetto. La scuola dei socialisti non è stata una scuola di propaganda perché al suo interno prevaleva comunque la connotazione conflittuale. E i tre episodi a cui vorrei far cenno sono rivelatori del modo con cui Craxi intendeva la libertà nelle questioni dell’informazione.
Il primo episodio è di fine ’85, primi dell’86. Si decise di rigenerare la rivista della Presidenza del Consiglio fondata da De Gasperi, Vita italiana, assegnandole il compito di raccontare il più ampiamente possibile il contesto istituzionale. Qualche rischio di propaganda in questo tipo di prodotto editoriale c’è sempre. Ci sembrò utile e interessante limitare questo rischio introducendo in ogni numero una libera opinione di autorevoli corrispondenti della stampa estera in Italia. Iniziando proprio, per rendere ancora più credibile l’operazione, dal corrispondente del Financial Times che, anche per la natura del giornale, non era d’abitudine tenero con il governo. Arrivò l’opinione del giornaliste e si rivelò durissima nei confronti del governo Craxi. Oltre la soglia immaginata. Dovetti mettere quella cartella sul tavolo di Giuliano Amato e lui a sua volta la mise sul tavolo del presidente. La cartella mi tornò indietro a stretto giro. Era vergata con la matita rossa e blu. E c’era scritto: “Queste cose le leggo solo quando sono pubblicate”. Appresi quella lezione di metodo e di responsabilità, pubblicai e non venne giù il mondo.
Il secondo episodio) e riguarda il ritrovamento avvenuto nei seminterrati della allora Direzione generale dell’informazione della Presidenza del Consiglio, a via Po, dove era accumulato anche materiale del precedente Ministero della Cultura Popolare. C’era integralmente quel monumento burocratico dei riscontri amministrativi delle erogazioni fatte dal regime fascista a persone e un po’ anche aziende nel campo dell’informazione e dell’editoria. Fondi senza controllo della contabilità di Stato, dunque fondi di polizia e comunque riservati. Un’intrera grande stanze conteneva fascicoli. Grandi e piccoli nomi, ma in sostanza il rendiconto di una parte del paese foraggiata dal fascismo. Mi presentai dal presidente del Consiglio con un quaderno nero che serviva a quella amministrazione per avere sintesi dei fascicoli e degli importi. Nomi di morti ma anche di vivi. Evidenti questioni politiche si aprivano. Sui vivi vi erano problemi delicati. Il presidente guardò bene il fascicolo, comprese la natura dei problemi e disse seccamente: “Agli Archivi di Stato. Che ci sguazzino gli storici”. Cosa che feci immediatamente con viva liberazione personale. Ma anche come un segnale che nel contesto della materia che qui trattiamo ha un suo significato.
Il terzo episodio (a proposito tutti e tre li ho ricordati in un recente libro dal titolo Quarantotto pubblicato l’anno scorso da Bompiani) investe un altro aspetto della materia, che poteri definire quello delle forme di comunicazione che hanno i politici di statura di fronte alle emergenze o alle difficoltà di eventi importanti. G7 di Tokio, 1987. Qui è presente l’ambasciatore Moreno, non era in quella partita, ma sa bene di che parlo quando faccio riferimento al team dei direttori generali della Farnesina e nostro della Presidenza che componeva la delegazione e che era alle prese, il giorno prima, con il rischio che quel G7 diventasse G5, perché i “grandi” europei vedevano di buon occhio due velocità, con Italia e Canada nella seconda pista. Un dubbio che girava e che fino alla sera prima non vedeva chiare soluzioni di approccio. Il nodo (e la soluzione) era connesso al rapporto diretto con gli americani. Tutti a dormire. Al mattino in albergo, l’Otani di Tokio, la discesa degli ascensori per portare le delegazioni al summit. Scende l’ascensore che porta il presidente Reagan in un lungo corridoio fino alla hall. Scendo poi l’ascensore che porta il presidente Craxi sull’altro lato del corridoi. Reagan camminava caracollando, Craxi a Falcate,m quindi a metà corri sodio Craxi raggiunge Reagan. Tutte le delegazioni con i giornalisti stavano lontani nella hall. Un io vecchio amico e collega, Gigi Mattucci, sosteneva sempre che la politica è un’arte quando scopri che prendendoti per le bretelle riesci a sollevarti da terra. Ecco, così fece Craxi con intuizione fulminea e teatrale. Tagliò netto da un lato all’altro del corridoio, fermò Reagan, gli mise le mani al muro dietro la sua testa e cominciò a parlargli fitto. Come si sa – Stefania lo può confermare – Craxi che parlava un buon francese non parlava una parola di inglese e Reagan non parlava una parola che non fosse l’inglese. E Reagan rispondeva. Dopo un buon minuto la prima agenzia batteva il take “Improvviso e intenso colloquio Reagan Craxi prima del vertice”. Dopo un minuto e mezzo un’altra agenzia batteva “Continua il dialogo tra Reagan e Craxi”. E via così. Poi smisero e raggiunsero la hall. Resto convinto – senza prove dirette – che i due avessero fatto gramelot, dicendo numeri o parole a vuoto. Il punto era parlarsi fittamente e dare al mondo la notizia di un colloquio diretto e preliminare. Al vertice il tema del format non fu nemmeno sollevato. Come dice Walter Veltroni la questione atlantica pesa molto nelle vicende italiane ed europee. L’intesa tra Italia e USA aveva chiarito a tutti le idee.
Vi ringrazio per aver avuto la pazienza di ascoltare queste cose. Ma soprattutto ringrazio vivamente gli introduttori per il contributo che hanno inteso dare all’avviamento di discussione che so di certo Stefania Craxi intende ampliare anche nei prossimi mesi.
Stefania Craxi
Anch’io voglio ringraziare i partecipanti a questa tavola rotonda. Simona Colarizi e Enrico Mentana che hanno portato opinioni molto qualificate. E Walter Veltroni, in particolare. Come sapete in questi anni dalla sua parte politica qualcuno si è avvicinato alla Fondazione Craxi, ma la maggior parte i suoi compagni di partito sono stati molto alla larga. Sono sicura che si è aperta una strada per trattare in futuro anche argomenti che questa sera non hanno avuto modo di essere affrontati. Lo ringrazio ma vorrei anche dire qualcosa su un paio di cose su cui non sono molto d’accordo.
La prima che ho spesso l’impressione che quando si rilegge la storia d’Italia, della prima repubblica, dopo la guerra, molti sono presi dal tentativo di distribuire equamente responsabilità, meriti e torti. Tutti in fondo hanno avuto ragione oppure tutti hanno avuto torto. Io sono naturalmente felicissima di sentire dire oggi da Walter Veltroni: noi siamo con l’occidente, la nostra storia è la storia dell’alleanza atlantica con l’America. Però in quella prima Repubblica, per usare questa espressione, alcuni avranno anche avuto torti ma di chi è sempre stato con l’occidente e con l’alleanza NATO e chi stava per una potenza nemica.
La seconda cosa riguarda l’89. Sia Simona che Walter dicono: abbiamo sbagliato tutti. Ora anche qui non sono d’accordo. Craxi nell’89 mette nel simbolo del partito l’espressione “unità socialista”. Per ammissione dello stesso Brandt lavora per fare entrare il Partito Comunista italiano nell’Internazionale Socialista. Lo fa nella convinzione che il contatto con gli altri partiti socialisti europei avrebbe compiuto la trasformazione. Poneva un problema di leadership. Certamente. Ma se tu hai ragione e l’altro ha torto, chi deve guidare il processo? Ed è qui che avviene il grande tradimento. Prima o poi io voglio sentirvi parlare della falsa rivoluzione del 92-96 e su questo io non ho sentito una parola neanche stasera. Nel ’91, Craxi non va alle urne non per le ragnatele che lo legavano alla DC ma per un atto di lealtà con voi che gli chiedete di non andare alle urne. Anche questo io vorrei sentirlo dire.
Da ultimo gli effetti di quella falsa rivoluzione. Conseguenze inaudite. Non sto parlando della morte di Craxi in esilio, sto parlando di migliaia di persone che hanno perso l’onore e poi chi il lavoro, chi la famiglia, chi anche la vita. Di ciò vorrei sentire parlare, Walter. Una fetta importante delle forze riformiste così non stanno con voi, stanno altrove, se i numeri non sono una opinione. Dunque la grande maggioranza dell’elettorato di quel partito,
Corriere della Sera (15 luglio 2009)
Veltroni su Craxi: “Innovò più di Berlinguer”.
Svolta dell’ex leader pd: solo lui capì davvero la società, insufficienti gli sforzi di Enrico Berlinguer.
di Andrea Garibaldi
Craxi? “Interpretò meglio di ogni altro uomo politico come la società italiana stava cambiando”. La sua politica estera? “Fu grande. Ci fu l’episodio di Sigonella ma anche la scelta di tenere l’Italia nella sfera occidentale, senza intaccare autonomia e dignità del Paese”. Parole di Walter Veltroni (dirigente per trent’anni di Pci, Pds, Ds, ex segretario pd) davanti a Stefania Craxi, la figlia del leader socialista che fu capo del governo dall’83 all’87. Occasione, il libro di Stefano Rolando, Una voce poco fa. Politica, comunicazione e media nella vicenda del Psi dal 1976 al 1994. Veltroni, asciutto e disteso, in attesa dell’uscita a fine agosto del suo nuovo romanzo, effettua, nella Sala della Mercede della Camera, un altro strappo con il suo passato. Ricorda che Craxi aveva di fronte due grandi partiti, uno sempre al governo — la Dc — e uno sempre all’opposizione — il Pci — in un sistema che stava bene a entrambi: massimo di stabilità e massimo del debito pubblico: “Craxi decise che bisognava cambiare gioco, porre la sinistra di fronte al problema di una nuova leadership”. Il Pci, intanto, si trascinava quella grande macchia, il 1956, l’invasione dell’Ungheria: “Ho riletto i verbali delle riunioni del partito, fanno accapponare la pelle”. Craxi nel ritratto tutte luci e niente ombre che ne fa Veltroni, disegna un partito diverso, rispetto ai modelli del Novecento, Pci e Forza Italia, “un partito fluido, moderno, capace di raccogliere anche ciò che non è omogeneo a sé, ma che si unisce attorno a determinate idee”. E sembra che rievochi il suo Pd. Craxi innovava ma, negli stessi anni, anche Berlinguer trasformava il Pci. Con uno sforzo, dice Veltroni, già giovane collaboratore di Berlinguer, “non sufficiente al processo che bisognava mettere in campo. Il Pci soffriva l’innovazione come tale”. Eppure Berlinguer non era certo un conservatore: “Sono tra quelli — dice Veltroni — che pensano che l’Unione sovietica abbia fatto di tutto, ma proprio di tutto, per togliere di mezzo Berlinguer...”. La platea è piena di socialisti di un tempo. Antonio Ghirelli, già portavoce di Pertini. Gennaro Acquaviva, che fu trait d’union fra socialisti e cattolici. Luigi Covatta, sottosegretario di Craxi. Enrico Mentana, prima tessera Psi nel 1974, a 19 anni. Ma spuntano anche l’ex ministro Francesco De Lorenzo, come Craxi coinvolto in Tangentopoli e Gustavo Selva. Nella ricostruzione di Veltroni un’ombra, per la verità, c’è e riguarda l’ultima fase del craxismo: “Referendum 1991, sulla riforma elettorale: Craxi anziché dire ‘andate al mare’, avrebbe dovuto usare quella leva per promuovere il bipolarismo. E la riforma sarebbe potuta avvenire solo con una leadership riformista e non con una post-comunista”. Era Craxi, insomma, il capo naturale a sinistra. Nella memoria di Veltroni c’è anche spazio per un ricordo che lo accomuna al leader socialista. “Nel ’96 io dissi: ‘Un giorno o l’altro si dovrà arrivare a un’Internazionale né comunista né socialista, ma democratica. Nel mio campo, un’affermazione difficile da fare. Ma era lo stesso concetto che esprimeva Craxi. Oggi è naturale per tutti pensare che Obama e il partito indiano del Congresso stiano assieme nel medesimo organismo mondiale”. Stefania Craxi dice che è “felice di sentire Walter parlare così”. Ma non è indulgente come Walter. Afferma che il Psi di Craxi cadde anche per mano dei grandi giornali di proprietà dei “poteri forti”, Fiat e De Benedetti, in disaccordo con Confindustria sul decreto che tagliava la scala mobile: «Quei grandi giornali si portarono dietro altri giornali, come l’Unità , diretta all’epoca da Veltroni, qui presente…» .