Terremoto all’Aquila. Introduzione dossier Rivista it com pubblica (39/2010) – Le dieci antinomie

Tre giorni di inchiesta sui luoghi del terremoto in Abruzzo.
Un protagonista più forte della comunicazione di crisi: la popolazione
Project work del master dell’Università IULM di Milano in management della comunicazione pubblica
 
 
Nota introduttiva
Dossier pubblicato in Rivista italiana di comunicazione pubblica n. 39/2010
 
Le dieci antinomie
Una chiave interpretativa
Stefano Rolando
 
 “L’Aquila è adagiata come un sogno medioevale sulle pendici di un colle alle porte del più selvaggio massiccio montuoso dell’Italia centrale”. 
E’ una delle tante pennellate letterarie sul “viaggio in Italia”. Questa è dei recenti anni quaranta e porta la firma dello scrittore tedesco Kasimir Edshmid.
Già, il sogno medioevale al cospetto della natura selvaggia. Da un lato un carattere identitario. Dall’altro lato la metafora dei rischi.
E’chiaro che il rating del rischio sismico (quello relativo alla città dell’Aquila risale alla fine degli anni novanta) corrisponde da un lato a criteri scientifici, dall’altro lato alla sostenibilità dei costi di prevenzione. Ma è difficile – in una mentalità non propriamente giapponese, preventiva, tecnica – come è quella al tempo stesso fatalista e ottimista che corrisponde piuttosto agli italiani, immaginare un contesto di prevenzione culturalmente condiviso da tutti e ai limiti delle “garanzie”. Nella discussione sulle responsabilità c’è un aspetto che resta in ombra. Che non riguarda architetti, geometri, licenze e imprenditori edili. Ma riguarda appunto la cultura sociale della prevenzione, la domanda che preme sulla costante responsabilità dei pubblici poteri.
Questo capitolo dovrebbe ora collocarsi nella possibilità che la città dell’Aquila possa diventare una sorta di laboratorio per una ricostruzione che tenga conto di tutti gli aspetti di sperimentazione attorno al cataclisma che è capitato. Tecnologici e sociologici, urbanistici ed economici.
Non è sicuro che questa sarà la strada che prenderanno gli eventi. Vi è chi lo pensa, una minoranza culturale e scientifica. Allo stato poco ascoltata da chi – istituzioni e popolazione – presidia piuttosto la voce generale, diffusa, corrente, sostenuta dai media. Una voce rappresentata dal silenzioso pensiero che gli sfollati, nei 160 campi che cingono la città, rivolgono ogni sera, ogni mattino, alle loro case, a portata di sguardo, alle pendici dei colli dove sono disagiatamente ospitati, pur nelle condizioni migliori possibili: com’era, dov’era”.
Il pensiero della ricostruzione filologica è poi elevato a domanda emotiva, metafora della ferita identitaria da rimediare, nei riguardi della condizione del centro storico. Laddove si compiono gesti di rassicurazione su cui Guido Bertolaso riesce – persino nello spazio-spot di un telegiornale – a infilare un responsabile correttivo: “Badate che nemmeno cinque anni basteranno a restituire una forma al centro storico dell’Aquila”.
Si riprenderà un po’ questa divaricazione, culturale, sì, ma anche tremendamente concreta, pragmatica, che orienta le direzioni di marcia possibili al di là dell’emergenza.
Appunto il carattere dell’emergenza, del soccorso, dell’immediata solidarietà, della coralità diretta inevitabilmente con la governance dei poteri in stato di crisi, lascia intendere uno sfondo di medio e lungo periodo in cui i conti si faranno con le tante culture di fondo che la storia ha consolidato: della democrazia, dell’economia, della socialità, della progettualità di un sistema fatto di una comunità colpita che si misura con il suo territorio, con il suo paese, con la globalità che ora (opportunità e rischio della scelta di collocare qui il G8) ha gli occhi puntati sulla conca intermontana tra il Gran Sasso e il gruppo del Velino-Sirente, solcata dal fiume Aterno.  
 
 
La comunicazione non è solo messaggio, non è solo informazione. E’ anche un setting teatrale, di rappresentazione dei fatti e dei processi in cui questi fatti scorrono.
E una inchiesta sulla comunicazione cerca innanzi tutto di capire quali sono le dominanti di questa rappresentazione, cerca di individuare i caratteri che sostengono le voci degli attori, cerca di cogliere ciò che accomuna e ciò che divide sul palcoscenico. Appunto, le coesioni e i conflitti che un evento di questa portata riesce a produrre. Il vero “sciame” tellurico, che accompagna la ripetizione delle scosse del sisma e che è in realtà un costante immateriale riadattamento di rapporti,. relazioni, parole, emozioni.
L’esercizio a cogliere i segnali della comunicazione pubblica così intesa non è – naturalmente – condizione sufficiente per centrare con chiarezza questi temi, come si intuisce poco o punto rivelati dai media, ma sottesi a altre forme di scambio. Spesso comunicazioni trattenute, nel rispetto di una liturgia ancora in atto – dopo due mesi – che mette in priorità i lutti sugli interessi, i dolori sui poteri. Ma interessi e poteri si esprimono comunque e sempre. Sono linfa e veleno, al tempo stesso. Dunque incomprimibili.
Un survey di pochi giorni può cogliere in alcuni dettagli questa complessità, ma ci vorrebbero alcuni mesi di analisi per vedere maturare i processi e per comprendere l’articolazione di ragioni individuali e collettive. I colleghi di scienze sociali dell’Università aquilana avrebbero qui una partita di interesse mondiale da svolgere e certamente alcuni di essi si sintonizzeranno con questa opportunità.
Dunque le nostre “mani avanti” sono d’obbligo. Malgrado una gabbia metodologica, malgrado lo sforzo di non sottostare alle apparenze, il report resta ancorato più a percettività che al “prova e riprova” del laboratorio scientifico. Ma se è facile cogliere subito, nei campi degli sfollati, il rinascere di uno spirito di comunità che nella società del nostro tempo si andava un po’ perdendo anche nei contesti extra-urbani, e in quello spirito il ritrovarsi di comportamenti emotivamente reattivi (come si vede dappertutto negli ospedali di maggiore concentrazione di sofferenze, in cui l’eros è incomprimibile), è anche presente un quadro di comportamenti contraddittori che si cerca di mettere in evidenza, non per malizia giornalistica, ma nel convincimento che queste antinomie sono l’ossatura del dialogo progettuale possibile in quelle comunità.
Insomma un doppio registro di comunicazione pubblica: quello del presente, scandito dai bisogni e dalle regole della crisi e dell’emergenza; quello del futuro-prossimo-venturo, scandito da una ancora inespressa capacità di orientare analisi e scelte verso modelli (e quindi verso comportamenti politici, amministrativi, imprenditoriali, sociali) che possono generare mondi diversi.
 
Nel primo registro si collocano fatti oggi maiuscoli. Il modello della nuova Protezione civile italiana che agisce con una puntualità e un’efficacia che basta ricordare le vicende del 1980 dell’Irpinia per misurare. Un modello di flessibilità inter-istituzionale e di relazione organizzativa con il privato-sociale che aderisce sia ai vincoli “verticali” (decidere in tempo concentrato), sia alle dinamiche “orizzontali” (condividere, mediare, corresponsabilizzare). Un modello, ancora, che esporta cultura della protezione civile nei contesti amministrativi territoriali che lasciano la voce di bilancio del settore “per memoria” e, una volta fatta la dolorosa esperienza, si ritrovano invece  dirigenti, formazione diffusa, metodologia, know-how. Il “povero” Molise (fine settembre primi di ottobre del 2002, con epicentro a San Giuliano di Puglia) ne è un esempio, oggi capace di presidi che mancano in regioni e territori più ricchi e amministrativamente organizzati.
Nel secondo registro si colloca un confronto appena accennato, qui e là indossato dal ragguardevole output del sistema mediatico (oggi, con le tecnologie disponibili, in una sorta di “giornale diffuso” che mantiene per tutti in rete il patrimonio di immagini e commenti a disposizione e che quindi non si deteriora nell’obsolescenza quotidiana della carta stampata) e che questo report cercherà, con pacatezza, di delineare con un filo di maggiore attenzione. Le antinomie salienti sono oggetto di qualche cenno in questa nota introduttiva. Anche qui senza pretese di esaustività. Ma per proporre scenari di analisi possibili a chi pensa – come pensano certi economisti a proposito delle crisi – che la lezione di un terremoto è una cosa immensa che non va dilapidata nella contemplazione dei danni ma al più presto possibile capitalizzata nella cultura del ridisegno degli interessi collettivi intesi come punto di incontro tra domanda sociale e volontà politica.
 
Con tetto/ senza tetto
 
 
Vi è innanzi tutto ancora insicurezza di dati. Ma al conteggio dei morti (alla fine 299) si accompagna una ridda di dati sugli sfollati che ha raggiunto la cifra di 70 mila. La pressoché completa evacuazione della città dell’Aquila, accompagnata da quelle delle frazioni attigue colpite, ha formato tre popoli:
         quello dei city users, dei frequentatori occasionali della città (dalla sola Marsica provenivano all’Aquila 9.000 pendolari), dall’esercito degli studenti di diffusa provenienza, di coloro insomma che, sospendendo la ragione (economica o di studio) di frequentazione della città, sono tornati a casa propria;
         quello di coloro che, persa l’abitazione, avevano altre possibilità di propria sistemazione (in funzione della doppia casa o della residenza estiva);
         quello di coloro che hanno perso la casa o per lo meno la temporanea agibilità dell’unica residenza possibile e, senza tetto, sono stati ammassati e poi sistemati dal rapido schema di riparo messo a punto dalla Protezione civile, sia con i campi attigui alla città sia con il trasferimento sulla costa.
 Si comprende che tutti – in un modo o nell’altro – sono “terremotati”. Ma per la forma del danneggiamento e per lo strascico di attese che sono state generate, essi costituiscono nuclei sociali ora ben distinti.
 
Attendati/ al mare (lupi e conigli)
 
Circa i veri e propri terremotati, ovvero coloro che hanno visto classificare (l’inventario è finito) la propria abitazione in quattro diverse tipologie di danno e di agibilità (a cui corrispondono diverse misure di rimborso e di sostegno) il “nord e il sud” è disegnato facilmente:
         coloro che hanno scelto di stare accanto al luogo d’origine, tenendo a vista la casa e il borgo, accettando la misura, pur determinante disagi, della tenda e non del container (quest’ultimo con maggiore protezione ambientale ma con carattere psicologico della condizione duratura, come altre vicende di terremoti hanno tristemente dimostrato);
         coloro che – sulle prime indirizzati in modo direttivo dalla Protezione Civile, poi per scelta – hanno occupato alberghi convenzionati (o case messe a disposizione) laddove l’infrastruttura turistica aveva più offerta, cioè principalmente sulla cosa adriatica.
Questa ripartizione è vissuta – soprattutto dai giovani – nelle tendopoli con la distinzione polemica tra “lupi e conigli”. I lupi a mordere la realtà, i conigli scappati dalla responsabilità.
Pur essendovi alcuni tratti di questi caratteri nelle popolazioni che hanno avuto diverso trattamento (ma alla fine chi stava sulle prime in costa ha potuto scegliere e comunque vede un termine alla propria condizione), il conflitto non va né fissato come un carattere generalizzato, né preso a lettera per tutti. Le condizioni sono molto variegate e riconducono alle fine a tipologie molto articolate di contesti famigliari e di responsabilità.
 
Pubblici/ privati
 
 
Analogamente si fa strada – nel quadro ancora di massa degli sfollati – la diversa condizione di chi era ed è nello stato di pubblico dipendente e chi esercitava professione o mestiere nel privato (dal commercio all’impresa alle libere professioni).
         Il pubblico dipendente mantiene il suo ancoraggio stipendiale, una volta magari più ridotto rispetto alle opportunità del privato, ora divenuto una certezza preziosa di fronte alla cancellazione di contesti di lavoro soprattutto collocasti nella città.
         I lavoratori privati si dividono tra coloro che hanno recuperato o stanno recuperando le condizioni di esercizio della loro occupazione e coloro che l’hanno persa. Questi ultimi costituiscono al momento l’area di maggior disagio che tende a frizionare con il segmento dei pubblici dipendenti che mantengono ancora lontananza dal luogo di lavoro (sia perché il luogo è danneggiato e qualche volta non integralmente sostituito da strutture provvisorie, sia perché un certificato medico mantiene la condizione di distacco).
Due esempi rilevati:
         un imprenditore che risiedeva alla periferia dell’Aquila che ha perso sia la struttura dell’impresa che la casa ha organizzato sé e la famiglia con un camper in cui vende hamburger e panini nelle vicinanze di un comando di campo e in zona ancora intensamente abitata, cercando di sopperire alla necessità di reddito;
         la testimonianza della preside della facoltà di scienze dell’Università ha sottolineato che il personale dipendente dall’ateneo ha ripreso il lavoro, dedicandosi pienamente ai bisogni ricostruttivi e di servizio nella misura non superiore al 20%.
 
Restauro filologico/ ricostruzione progettuale
 
 
Al tema si è già fatto cenno. Non vi è un “teatro” vero e proprio di questo dibattito. Ma basta sfogliare il quotidiano di riferimento dell’Abruzzo “Il Centro” per cogliere plasticamente il tema nella titolazione, nel virgolettato della gente, nelle dichiarazioni degli amministratori, nel resoconto delle promesse del governo.
“Com’era, dov’era” resta la domanda diffusa, generalizzata, maggiormente mediatizzata. Difficile, in qualche caso anche inutile e sbagliato contraddirla. Eppure la storia delle ricostruzioni importanti a seguito di disastri epocali (a cominciare da quelle generate dalle guerre, come è stato il caso di Milano risorta in dieci anni dal 1945 al 1955 dalle macerie diffuse di lunghi bombardamenti) hanno seguito anche percorsi diversi dalla “filologia” cercando di sagomare gli spazi secondo progetti rivolti al futuro.
Progetti che dipendono dalla capacità e dalla voglia di progettare. Dalle economie che ne sostengono i bisogni di investimento. Dalla volontà politica che è capace di indirizzare il dibattito. Dalla generosità di chi vuole dialogare con lo sforzo reattivo che ha bisogno di superare la condizione consolatoria.
 
Protezione Civile / Amministrazione territoriale
 
 
Lo scenario generale all’Aquila è di guerra. Jeep e ambulanze che vanno e vengono. Posti di blocco. Mezzi dell’Esercito a guardia delle “zone rosse” per impedire l’accesso. Vigili del Fuoco – con la loro smarcatissima divisa rossa – diventati arbitri di nulla osta anche in condizioni di apparente non serio rischio. Esibizione di permessi, sbarre che si alzano e si abbassano. Va da sé che in questo contesto la Protezione Civile – che altro non è che il coordinamento di tutto ciò,  caratterizzato dalla propria segnaletica urbana, fatta di sigle in campo rosso diventate più importanti di quelle verdi e blu di quartieri e sobborghi tradizionali – ha un vistoso e prioritario ruolo di governo del territorio che può far considerare marginale il ruolo delle Amministrazioni territoriali. Questo tema non sempre ha una lettura fisiologica. Qualche volta diventa terreno di giudizio in ordine a culture e competenze formate per affrontare la specificità delle condizioni. E quella specificità non è chiaro quali limiti di merito e di tempo assuma. Perchè è specifico soccorrere i feriti, poi è specifico organizzare i campi, ma sarà anche specifico dirimere problemi di indennizzo o orientare il processo insediativo a regime.
Nel dialogo con i funzionari della Protezione Civile si coglie pragmatismo e non orientamento ideologico al comando. Anzi si coglie preoccupazione e attenzione attorno al dialogo con il tessuto amministrativo, perché la maturità di questo dialogo è la condizione per immaginare un diverso prossimo ritorno alla normalità della governance.
Il report ha fin qui accolto forse in modo insufficiente l’opinione delle amministrazioni (che saranno comunque più ricercate per valutare meglio questo profilo). L’argomento è segnalato. Da alcuni anche con sottolineatura di criticità.
 
Volontari/ Militari
 
 
Si colloca in questo scenario anche il rapporto tra operatori militarizzati e operatori che rispondono ad organizzazioni civili di volontariato.
Qui – restando alla percezione dell’inchiesta, unitamente ad un po’ di letteratura di comunicazione  sociale a cui ci si dedica da tempo – si profilano non solo poca conflittualità ma anzi si coglie una straordinaria condizione di complementarietà e di collaborazione. Che fa di questo aspetto un fiore all’occhiello di un modello di presidio. Esso infatti genera condizioni di mediazione rispetto al bisogno della gente che sono assunte e interpretate da soggetti che – fatto salvo qualche condizione di piccolo protagonismo – rispondono a criteri di dedizione, di umanità, di competenza e di discrezione che confortano il ricercatore e, suo tramite (se è concesso), l’opinione pubblica.
 
 
L’Aquila/Pescara
 
 
Sul tema è steso un velo di rispettoso silenzio. L’Aquila – la capitale – è ferita in modo così profondo, totale, che pare pure blasfemo mettere in discussione il suo orgoglio di funzione.
Una volta si diceva “gli Abruzzi” per ricordare la storia di questo territorio composito che in epoca post-romana (ma con evidenza netta in epoca di nuova economia commerciale e dunque dopo il Rinascimento) ha cominciato a essere articolato in Citeriore (Chieti) e in un doppio territorio Ulteriore (da un lato Teramo, dall’altro lato L’Aquila). Il ruolo di Pescara è tutto recente e, per il traino di nuove economie (come quella del turismo, ma anche quella delle infrastrutture), ha una accelerazione che tende anche ad acquisire funzioni di servizio per l’intero territorio.
E qui sta il punto. In quanto tempo il capoluogo saprà rigenerare la condizione gestionale ottimale di quelle funzioni? Non deve essere decisiva la condizione attuale dei palazzi. Basterebbe quello della Prefettura a dare una dimensione di panico. E poi quella dell’Ospedale, dell’Università, delle strutture associative di impresa. Eccetera. E’ proprio la condizione di progetto delle funzioni di governo in discussione. Che è – non suoni anche ciò blasfemo – di pari se non di superiore valore rispetto al tema fin qui agitato di chi adotta un monumento o un bene culturale per recuperarne le fattezze e con esse il valore simbolico rappresentato.
Pescara è lì, con la sua condizione di baricentro infrastrutturale, con la sua economia positiva attorno, con i suoi collegamenti. Il tema esiste.
 
Notizia/Allarme (il ruolo dei media)
 
 
Qui non c’è l’antinomia specifica. C’è la condizione generale del sistema mediatico che da un lato è a guardia di un bene prezioso e ineludibile soprattutto in queste condizioni di stress territoriale globale, quello della libertà di informazione e di commento; e dall’altro lato può però generare uno squilibrio nel rapporto tra rassicurazione e allarme che ha in sé una fragilità chimica.
Se salta la metabolizzazione, si generano comportamenti in cui lo stereotipo negativo può diventare cultura feroce, comportamento negativo, condizione inamovibile di rifiuto.
In generale il ruolo dei media nella vicenda appare improntato a responsabilità e a generosità professionale. Caso mai con l’inevitabile peccato di omissione in ordine a ciò che nella mentalità giornalistica fa meno notizia (sempre la storia dell’uomo che morde il cane…).
Tuttavia il rapporto nel tempo con gli eventi passa dalle scelte obbligate alle opzioni. E in materia di opzioni la ricerca di “cosa fa notizia” è terreno ricco di insidie.
Il report – al di là di questo spunto generale – cercherà di indagare sui materiali a disposizione per capire l’inclinazione verso l’uno o l’altro modello. Per la parte di influenza che i media ricevono dal posizionamento della politica, una delle questioni è quella del tempo in cui l’effetto dell’emergenza è attivo nel generare una sorta di tregua rispetto al bisogno di distinguersi.
I comportamenti “saggi” di chi ha più diritto di parola (il governo e la rete della Protezione Civile) diventano qui materia di analisi della comunicazione istituzionale proprio per capire come la credibilità condivisa sia materia in sé delicata e non duratura.
 
 
G8 si /G8 no
 
 
Ed è, per esempio, questo lo scenario in cui si colloca la questione della scelta dell’Aquila per svolgere a metà luglio 2009 la sessione del G8 a presidenza italiana.
Richiamare l’attenzione del mondo sull’Abruzzo per incentivare alcune economie che sono possibili solo con la spinta della comunicazione: dal turismo agli investimenti, dal “laboratorio” in un contesto stressato dal sisma alla generosità civile.
In sé lo spunto è brillante. Ove il mondo avesse anche in evidenza un preliminare progetto strategico l’effetto di richiamo sarebbe più mirato. Naturalmente questa scelta apre conflitti. Verrebbe da dire a destra e a sinistra.
         A “destra”, perché salgono i pensieri della gente sulle spese distratte da quelle prioritarie per ricostruire ciò che è considerato prioritario.
         A “sinistra”, per l’effetto che l’opposizione a questo genere di summit ha determinato in una cultura che non condivide questa modalità di governance dei problemi mondiali.
Il banco di prova è a breve e sarà seguito anche con questo metro di attenzione.
 
Credibilità/Incredibilità dello Stato
 
 
In generale la comunicazione pubblica generata da una vicenda di questa portata è immensa, coinvolgente, preliminare a ogni processo riorganizzativo. Ma essa va valutata in ordine ad alcuni parametri essenziali per non far cadere l’analisi nella dispersione:
         il soddisfacimento di bisogni essenziali alla tenuta morale e materiale della popolazione colpita;
         la capacità di generare messaggi di responsabilizzazione e di partecipazione coordinata di soggetti (pubblici e privati) che concorrono alle soluzioni dei problemi che si sono creati;
         in definitiva, il consolidamento della credibilità delle istituzioni.
Gli stessi funzionari della Protezione Civile, quelli più sperimentati da tante storie pregresse in cui ci si è misurati anche con minore preparazione complessiva con la violenza della natura (spesso accompagnata da scelleratezze umane), tengono a dire, nell’accompagnamento professionale di missioni come la nostra, che la “credibilità” non è un regalo duraturo, che essa è appesa a un filo spesso imponderabile e spesso spezzabile per sottovalutazione di fattori non sempre razionali.
Due mesi dal sisma sono troppo pochi per pesare un tema di questo genere. Ma offrono molti materiali per incanalare un percorso di analisi.
   
L’Aquila, 22 giugno 2009
 
 
Stefano Rolando è professore di ruolo di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica all’Università IULM di Milano e direttore del Master universitario in Management della comunicazione sociale, politica e istituzionale.
E’ direttore di Rivista italiana di comunicazione pubblica e presidente del Club of Venice, coordinamento dei responsabili della comunicazione istituzionale dei governi e delle istituzioni comunitarie UE.
Per dieci anni è stato direttore generale e capo del Dipartimento per l’Informazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri