Televisioni e culture. In 30 anni, una relazione difficile (29.11.13)
Convegno promosso dalla Fondazione “Paolo Grassi”
Televisioni e culture
Milano, Fondazione Corriere della Sera, venerdì 29 novembre 2013
Nell’arco di trenta anni. Una relazione difficile
Da Paolo Grassi in poi. Un modello instabile
Stefano Rolando
Professore di Politiche pubbliche per le Comunicazioni all’Università Iulm di Milano.
Consigliere di amministrazione della Fondazione “Paolo Grassi”
(Intervento discusso con l’ing. Luigi Mattucci, già vice-direttore generale della Rai e presidente di Rai-Sat)
I contributi che hanno preceduto hanno toccato alcuni temi sensibili del cambiamento.
I pubblici, la domanda sociale, la concorrenza, l’evoluzione concettuale dei generi televisivi, la rete, l’innovazione tecnologica.
Trenta anni (e più) sono almeno cinque o sei rivoluzioni tecnologiche, quindi ogni volta un salto mortale di sistema. Ci mettiamo anche due svolte politico-costituzionali (dalla prima alla seconda Repubblica e ora le convulsioni di una crisi di nuova fine ciclo), ci mettiamo di mezzo la caduta del muro di Berlino, la fine dei paesi europei come player globali, l’intero pontificato di Giovanni Paolo II e la fine dei papi italiani in Vaticano, ci mettiamo naturalmente l’avvento di internet e la costruzione di nuovi paradigmi relazionali tra utenti e prodotti comunicativi in rete, ci mettiamo il ritiro sostanziale della generazione under 25 dai consumi della tv generalista e altre cose che qui sono state dette e dilatiamo così questo, in fondo “piccolo”, trentennio in una sorta di separazione delle ere geologiche.
Riportiamoci un momento al clima di quegli anni ’70. E’ la sera del 7 dicembre 1976. Gli anni passati sono dunque ben più di trenta, sono trentasette. Sulla prima rete della Rai, diretta da Mimmo Scarano, va in onda in mondovisione l’ Otello, diretto da Kleiber con la regia di Zeffirelli che inaugura la nuova stagione della Scala. Il collegamento dura dalle 19 alle 24, con i TG confinati negli intervalli, affiancati da interviste ad esecutori e interpreti, da approfondimenti critici sull’opera e sulla esecuzione, dalla spettacolarizzazione dell’evento culturale e mondano. Il picco d’ascolto televisivo supera i dieci milioni. Viene mondializzata e assolutizzata un’opera lirica dell’estrema maturità verdiana, adattata da Boito sulla traccia shakespeariana, in ben quattro atti. Placido Domingo, Mirella Freni, Piero Cappucilli, con una esecuzione che da allora rappresenta per tutto il mondo, uno dei vertici della creatività italiana e delle capacità artistiche e organizzative del grande teatro milanese.
E’ il trionfo del sovrintendente Paolo Grassi e della sua politica culturale (già felicemente sperimentata con la collaborazione di Giorgio Strehler al Piccolo) che punta a coniugare con rigore la qualità degli spettacoli e delle esecuzioni con la ricerca di pubblici allargati, non di élite E’ anche la dimostrazione pratica, non ideologica né demagogica, della coesistenza in Italia di differenti centri di produzione culturale, ai quali la Riforma del 1975 si era proposta di aprire spazi nel soffocante centralismo romano e di differenti pubblici che bisognava stimolare e che si poteva raggiungere con una nuova e illuminata politica di distribuzione.
Qualche mese dopo Paolo Grassi viene eletto Presidente della Rai [1] e raggiunto, nella collocazione di direttore generale, da un altro “milanese” sensibile ai temi sociali e culturali come Pino Glisenti.
Quella battaglia era per il momento vinta. Ma forse – lo si dice con il senno del poi – la guerra era persa.
A due dirigenti milanesi tocca infatti il compito difficile (alla lunga risultato impossibile) di cercare di realizzare , con una rivoluzione culturale e organizzativa , il trasferimento della Rai del monopolio – che poteva imporre pensiero, prodotto, consumo agli italiani – in un nuovo quadro di pluralismo di sistema (c’era stata la sentenza della Corte Costituzionale ) che nel giro di qualche anno avrebbe cambiato – ben al di là del pluralismo “interno” che era stato assicurato dalla Riforma del 1975 – i connotati della produzione, della distribuzione e dei consumi televisivi, e che caratterizzava ormai il resto d’Europa, dove già la BBC faceva da battistrada nelle trasformazioni.
Il contributo di Paolo Grassi si colloca in quel fine ciclo del monopolio [2]. Punta – lui cercatore di nuovi pubblici – ad ampliare le funzioni “distributrici” della tv. Sostiene la proposta delle reti di nuove alleanze della tv con l’industria culturale italiana e quindi la qualificazione di Rai1 e Rai2, che in quegli anni vincono entrambi il festival di Cannes, una vera rivoluzione, prima con Padre padrone (Rai2) poi con L’albero degli zoccoli (Rai1.
E sostiene l’allargamento dell’offerta, immaginando cultura + territorio, con Rai3, voluta dalla riforma ma già oggetto di scontro tra socialisti e democristiani (che la vogliono regionale ed educativa) e comunisti (che la vogliono generalista e alternativa).
E’ di quel tempo la sostituzione del teatro televisivo prodotto e pensato tutto all’interno della Rai con quello “vivo”, realizzato sui palcoscenici ( e sui palchi) dalla autonomia degli autori e delle compagnie ( dagli spettacoli del Piccolo alle sperimentazioni di Ronconi e Carmelo Bene, alle nuove iniziative ideativo–produttive di Dario Fo).
In questa concezione – che, come ho detto, Grassi eredita dalle sue esperienze del Piccolo e della Scala e alla quale l’apparato interno del servizio pubblico si oppone pesantemente, fino a rovesciare completamente (anche nella recente impostazione) i pur limitati spazi aperti dalla Riforma – la Rai condivide la titolarità della sua produzione culturale con quella realizzata all’esterno di essa (teatro, cinema, musica, letteratura).
E il professionismo televisivo sta nello scegliere e nell’adattare, in una logica di governo del palinsesto e quindi della fidelizzazione del telespettatore.
A questa impostazione (i risultati di pubblico lo dimostrano) il pubblico risponde.
A poco a poco accetta Benigni e divizza Arbore, mentre prosegue la proposta di grandi spettacoli lirici. E il pensiero dell’operatore Rai muta rispetto ai tempi del monopolio pedagogico.
Come dicesse: io ora so cosa ti aspetti da me, non ti impongo ma ti anticipo.
Rai2 innova sui format e sui contenuti, Rai1 mantiene la qualità dell’offerta più tradizionale.
E’ sulla rappresentazione del “sociale” che si formano le nuove differenze: Rai1 tutela un quadro di diritti sociali pre-sessantottino, Rai2 cerca di includere il nuovo quadro dei diritti.
Il successo di quell’Otello in prima serata fa pensare che si possa passare stabilmente alla fase due: analizzare attese e bisogni e servire una pluralità di pubblici abbandonando i caratteri ormai superati del pedagogismo di Stato.
Ma il cambiamento sociale, che gli anni ’80 stanno per rivelare, fu molto più profondo di questo adattamento.
Il gruppo dirigente guidato da Grassi riuscirà ancora a varare anche l’ampliamento, cioè la terza rete. Ciò che costerà a Grassi la rottura con il suo storico partito di appartenenza.
Quell’ampliamento opererà in tempo successivo – con la direzione di Rai3 di Angelo Guglielmi – su una declinazione dei progetti sperimentali fatti dalla Rai2 di Fichera impostando – con un certo successo – una originale concezione di cosa doveva intendersi per “cultura “ in tv.
Cioè dando importanza al laboratorio produttivo interno più che all’importazione, cercando di produrre linguaggi propri al mezzo.
Il ventennio che ci separa da quest’ultimo snodo è denso di trasformazioni.
Impossibile ripercorrerlo per punti. Tanto si è detto, tanto si è scritto. Meglio approdare ad alcuni snodi terminali di quel processo. Limitando a ciò che allora andava per la maggiore e ciò che il tempo ha trasformato in pensieri caduchi.
Innanzi tutto il tema del controllo istituzionale sulla tv e soprattutto sul servizio pubblico.
La riforma (metà degli anni ’70) fece scrivere sulle bandiere del cambiamento la parola Parlamento, cancellando la parola Governo.
Il primo pensiero che ci viene oggi a valle di questa vicenda – non con qualche timore nel fare a voce alta questa riflessione autocritica (e anche con qualche dovuto riguardo nei confronti di tanti che si sono adoperati per un approccio alto al tema, uno per tutti il senatore Sergio Zavoli) – riguarda lo scadimento qualitativo di quel controllo parlamentare che rende oggi la sostanza e le forme di quella vigilanza una sorta di dossier imbarazzante, che richiede profonda revisione.
E che, comunque, non è di nessun aiuto nel riprogettare il tema del ruolo culturale della tv.
Il secondo pensiero riguarda l’articolazione della tv in reti (cosa che riguarda tanto la Rai quanto Mediaset). E che mantiene un carattere reticolare di qualche senso rispetto agli introiti pubblicitari, ma ha perso significato sia politico che di ispirazione editoriale.
Cioè due fattori che costituivano gli arnesi principali per definire l’approccio culturale all’offerta televisiva. Proprio l’influenza degli inserzionisti ha, tra l’altro, cancellato la parola “cultura” dal lessico della programmazione e dei palinsesti, introducendo – per la sua ambiguità e il suo sfuggente riferimento a ogni genere di cose – la prevalenza della parola “qualità”.
Il terzo pensiero riguarda la presenza – ormai forte, parallela, in parte intersecata ma in larga parte antagonista – della rete e delle sue modalità di produzione e consumo (quelle che Manuel Castells chiama “l’autoproduzione di massa” [3], che fa di ogni utente un segmento anche produttivo) – che cambia molti paradigmi del rapporto tra offerta (la vecchia modalità distributrice della tv) e ricerca (l’attuale andamento un po’ randomico con cui, malgrado tutto, i nuovi pubblici cercano di tutto.
Un pubblico subisce cattiva televisione; ma un altro pubblico ne cerca una migliore: dalla buona musica al buon spettacolo dal vivo, passando attraverso un consumo enormemente superiore di immagini, rese più complesse, più interessanti, più riferite a canoni innovativi dell’estetica e dell’arte, rispetto alla severità e la parsimonia della proposta televisiva (tanto che potremmo utilizzare lo schema del biancoenero e del colore come la vera separazione sistemica del rapporto tra i consumi televisivi e la percezione della storia).
Mentre ai tempi dell’Otello in prima serata dicevamo che la cultura si era presa la rivincita rispetto alla comunicazione, oggi – cambiati molti paradigmi e angoli visuali – noi comprendiamo che c’è salvezza per la cultura se troviamo il modo di ri-declinarne la proposta (chi, dove, come) all’interno della cultura comunicativa di oggi.
In questo Paolo Grassi usava la strumentazione del suo tempo. Ma nel rapporto con la società, il territorio, i quartieri, le categorie sociali, si comportava da moderno comunicatore, utilizzava una declinazione moderna e negoziale dell’attrazione.
Dunque una tv senza necessariamente quei canali, senza necessariamente quei controlli parlamentari, senza necessariamente gli schemi di lottizzazione che oggi consegnano a produttori esterni lotti di prodotto che servono a soddisfare componenti politiche e professionali in cui il broadcaster è burocratizzato e meglio se con poca visione.
E allora a cosa ci serve l’ispirazione di coloro che – come Paolo Grassi – consideriamo pionieri del cambiamento e del negoziato per restituire alla società contenuti che non debbono diventare elitari?
- Non per vedere quali battaglie hanno vinto o perso, in una evoluzione in cui tanti comunque hanno portato contributi creativi e solo alcuni hanno cercato di mantenere nel nostro Paese i caratteri di un primato che il mondo ci ha per secoli riconosciuto e molti hanno fatto di tutto per marginalizzare.
- Ma per vedere se si mantiene vitale la relazione tra i canali oggi disponibili (che ci fanno parlare di una tv infinita) e i centri di studio, elaborazione, sperimentazione e produzione che restano capaci di performance sui contenuti ed eternamente disponibili ad essere intercettati da un Paolo Grassi – per chi lo ricorda, ai finestrini di un treno che saluta i milanesi fiero di portare il suo Arlecchino a Mosca – perché se li porti a Mosca, in Cina o a Quarto Oggiaro [4].
La rivoluzione della tv – centralmente del servizio pubblico, ma la partita è aperta anche per le reti Mediaset, per altri player e per chi ha comunque uno sguardo multimediale e multinazionale – sta dunque oggi in una nuova cultura produttiva [5]. Che comporta – come è sempre stato – un aggiornato approccio a cosa si intenda per “cultura” nello specifico televisivo e con una società che deve condividere abbastanza questo approccio.
Dirlo a Milano, guardando da qui il paese e il sistema televisivo, ha molto senso.
Dirlo parlando alle città (non solo agli Stati) vuol dire capire meglio le dinamiche di produzione della ricchezza e dei contenuti.
La geografia dell’offerta non dovrebbe essere più segnata dai reticoli dell’organizzazione del consenso a cui il ceto politico italiano ha costretto la Rai (e non solo la Rai a piegarsi), ma dai luoghi vitali e innovativi che sono ancora in grado di pensare prodotto e pubblico aspettando che la comunicazione faccia finalmente il suo mestiere.
In tutte le sue stagioni di cambiamento reale la Rai ha avuto un management che ribaltava logiche amministrative con logiche produttive.
Si legga il racconto della prima riunione del dg della Rai Bernabei a Torino, appena nominato nel 1960, a 39 anni, per discutere il bilancio dell’azienda, che lo stesso Bernabei fa nel famoso libro-intervista curato da Giorgio Dell’Arti [6], che finirà in una messa in minoranza dei mandarini amministrativi con uno spostamento di un terzo del bilancio verso le attività produttive.
Questa rigenerazione passa oggi attraverso un diverso e innovativo censimento dei luoghi che permettono di rilanciare la nostra capacità produttiva (arte, fotografia, spettacolo, informazione, musica, tecnologia applicata alla creatività) ed ha bisogno di una pari estensione di sguardo al mondo.
Non c’è il tempo per sviluppare questo punto e altresì non voglio qui giudicare un manager molto discusso. Ma anche in Fiat si protraeva una crisi pensando solo a soluzioni di governance, di azionariato. Poi si è imposto un “punto di vista” che ha obbligato a connettere le nostre residue capacità professionali e artigianali con le dinamiche di un grande e connesso mercato mondiale. Ha fatto saltare tutto il suo reticolo organizzativo per ridare ruolo a un’azienda ormai agonizzante. Il parallelo con il nostro contesto televisivo non mi pare del tutto azzardato.
Il pomeriggio del nostro convegno è predisposto con la segreta speranza di rivelare qualche novità al riguardo. Una novità che – per le caratteristiche dell’economia immateriale del nostro paese – dovrebbe (se c’è) anche diventare il seme di una strategia di interesse nazionale.
[1] Paolo Grassi fu presidente della Rai dal 20 gennaio 1977 al 4 giugno 1980.
[2] Stefano Rolando, Gli anni della Rai, in Paolo Grassi. Una biografia tra teatro, cultura e società, a cura di Carlo Fontana, con i contributi anche di Alberto Bentoglio (Gli anni del Piccolo Teatro) e di Paola Merli (Gli anni della Scala), Skira, 2011.
[3] Manuel Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi editore, 2009.
[4] Il dettaglio di quello sforzo di andare verso nuovi pubblici, nel saggio di Alberto Bentoglio, Gli anni del Piccolo Teatro, op.cit, pag.,86 e successive, con particolare riferimento all’esperienza del TQ (Teatro Quartiere).
[5] Luigi Mattucci e Stefano Rolando, Memorandum sulla Rai, in Mondoperaio n. 3/2012.
[6] Ettore Bernabei con Giorgio Dell’Arti, L’uomo di fiducia, Mondadori 1999.