Tax compliance. Comunicazione pubblica per una identità solidale (15nov2011)

Agenzia delle Entrate
Il fattore Compliance:
dal contrasto all’evasione all’adempimento spontaneo”
Bologna, 15 novembre 2011
 
Relazione  di
Stefano Rolando
professore di Teoria e Tecniche della Comunicazione Pubblica, Università Iulm Milano,
presidente della Fondazione “Francesco Saverio Nitti”,
già direttore generale e capo del Dipartimento Informazione ed Editoria, Presidenza del Consiglio dei Ministri
già  direttore generale del Consiglio Regionale della Lombardia [1]
stefano.rolando@iulm.it
 
 
“La comunicazione pubblica per un’identità solidale: nuovi equilibri di responsabilità sociale tra Pubblica Amministrazioni e cittadini”
 
Sintesi
1.       Il paradigma statale che regola la gestione del prelievo fiscale e del disegno della spesa pubblica
2.       La tax compliance nella storia dell’unità d’Italia
3.       Il legame essenziale e spesso disatteso tra politiche pubbliche e comunicazione pubblica
4.       Il territorio delle possibilità contenuto nella normativa vigente
5.       Le potenzialità che sono fuori dagli ambiti della legge e che investono la “responsabilità sociale “ della PA
6.       Linee di elaborazione di nuovi scenari comunicativi in campo fiscale
7.       L’etica pubblica come convenienza
8.       Conclusione
 
 
 
“Boni pastoris esse, tondere pecus, non deglubere”
(Il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle)
Svetonio (Vita dei dodici Cesari)
 
 “Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato. Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta. […]
Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile
per la semplice ragione che non esistono contribuenti”.
Piero Gobetti (La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia)
 
 
 
 
Il paradigma statale che regola la gestione del prelievo fiscale e del disegno della spesa pubblica
Nel corso della storia mandare i cittadini in guerra e far loro pagare le tasse ha rappresentato un fattore di formazione degli “Stati”, intesi come soggetti diversi da quelli – territoriali, religiosi, associativi – in cui la “relazione personale” era (come è) parte costitutiva e identitaria.
Estraneità rispetto agli interessi, indifferenza rispetto ai fattori soggettivi tesi a derogare le norme, imparzialità in ordine al trattamento delle persone, divengono così – in teoria – la filigrana della procedura con la P maiuscola.
La storia evolve. L’ampliamento della sfera dei diritti civili e partecipativi anche. Un indebolimento di immagine e di credibilità delle istituzioni si aggiunge a rendere meno efficace la procedura autoritaria anche in ordine a funzioni irrinunciabili (sicurezza e fisco), introducendo una doppia lettura evolutiva: quella delle modalità co-decisionali e quella delle modalità comunicative e relazionali.
Da qui gli orientamenti – culturali e organizzativi – sul tema che ha lodevolmente spinto alla convocazione del convegno odierno.
Le  argomentazioni comunicative tese a sostenere la contribuzione fiscale come “atto civico” partono così non da una precondizione sacrale, inspiegabile e appunto autoritaria della funzione fiscale ma dal rammentare al cittadino che il presidio degli interessi generali è articolato in questo paradigma:
  • il presidio  si concentra attorno alla spesa pubblica (l’altro da sé rispetto alle “entrate”, che tuttavia la condizione relazionale rimette prepotentemente in gioco);
  • la spesa è orientata a generare servizi e prestazioni (visibili) in attuazione dei principi costituzionali;
  • il ritorno sociale di questi servizi è determinante per lo sviluppo della società, per le sue dinamiche competitive e per il benessere dei singoli cittadini;
  • a diposizione di questa redistribuzione vi è il volume delle entrate ordinato secondo priorità definite per legge (e quindi governato dalle regole della democrazia);
  • si sottrae dalla redistribuzione il “costo del presidio”, cioè il triplo costo:
Ø       della democrazia e delle sue strutture per potere dare legalità e costituzionalità alla gerarchia della spesa;
Ø       della pubblica amministrazione – centrale e territoriale – per organizzare e gestire quei servizi;
Ø       dell’organizzazione specifica connessa al prelievo fiscale come atto equo in rapporto alla dinamica (persone fisiche e persone giuridiche) del reddito;
  • i soggetti della rappresentanza e delle mediazione concorrono negozialmente in fase ascendente a definire le regole di equità del prelievo e in fase discendente a motivare le priorità della spesa.
Se tutto filasse liscio nell’applicazione del paradigma, non saremmo a convegno.
Nella crisi di relazione fiduciaria tra cittadini e Stati, la vicenda italiana è, oggi,  tra quelle che esprimono un fatturato morale e culturale tra i più deboli in Europa.
Il patrimonio accumulato negli anni costituenti e della Ricostruzione si è largamente depauperato. La povertà del dibattito pubblico sul 150° dell’unità d’Italia lo dimostra.  Con alcune aggiunte che destano vive preoccupazioni (basterebbe un florilegio di citazioni degli ultimi presidenti della Repubblica per segnalare la crescita di livello di questi sentimenti accorati).
  • Una parte del paese resta legato al conferimento di ruolo nel definire regole tra potere e reddito ad organizzazioni mafiose antistatali.
  • Un’altra parte del paese preferirebbe soluzioni autonomistiche, secessionistiche, non caricate di vocazioni perequative con il resto dell’Italia sulla spesa pubblica.
  • Le culture politiche post-risorgimentali che hanno predicato la laicità, la modernità, la riformabilità e la tendenza ad uniformarsi all’europeità degli Stati sono state ridotte al lumicino.
  • Il federalismo è stato messo in bocca a un ceto politico  che ha predicato un obiettivo giusto quasi sempre senza credibilità, senza argomentazioni e senza capacità di ricapitolare le grandi e serie identità culturali di un insieme di territori che, connessi, avrebbero potuto orientarsi verso questo modello.
In questa evoluzione i cittadini – certamente inficiando una maggioranza statalista e comunque “nazionale” – riducono la forza di quel paradigma pensando (così come la rappresentazione mediatica ormai prolungatamente ci racconta) che:
  • la democrazia costi troppo e che sia sempre più autoreferenziale;
  • la gerarchia della spesa sia più determinata da affari e convenienze della casta che da atti di ascolto degli interessi popolari;
  • l’investimento sui servizi e sulle infrastrutture sia inferiore ai bisogni;
  • la gestione dei servizi sia accettabile solo a dimensione locale, altrove essendo “carrozzoni” a scopo clientelare;
  • il prelievo fiscale sia stato affidato non alla mediazione antropologica di organizzazioni in sintonia con le culture e le psicologie dei cittadini ma (con il modello di Equitalia, di cuiè stata percepita spesso la filosofia del “forte con i deboli”) secondo la prevalente applicazione del principio di deterrenza che rende poi poco credibile il messaggio generato attorno ai principi etici, ai principi valoriali e ai principi solidali;
  • la presenza di una forte evasione (viene fornita la cifra di 120 mld di “evasione stimata” ma in altri documenti si parla – la citazione tra poco – di 250 mld di € di economia in nero, sommando cioè evasione e sommerso) costituisce l’argomento più vistoso di irrequietezza fiscale e di sconfinamento nella percezione di “ingiustizia” per chi ha comportamenti virtuosi.
Anche facendo la tara – anche una abbondante tara – sul “qualunquismo” di questo pensiero collettivo, resta che la credibilità della classe politica e purtroppo di una parte consistente di management pubblico conformatosi a quella casse politica senza più spirito dialettico, non abbia argomenti forti – se non di carattere generico e moralistico – nello storytelling che sostenga l’antico paradigma.
Così da ridurre alla fine una comunicazione “possibile” sensata alla sola dimostrazione (ma è dimostrabile?) della lotta all’evasione per abbassare la soglia di inquietudine e di irritazione.
La relazione reputazione-fiducia diventa così cruciale – nelle condizioni moderne dell’opinione pubblica – per regolare la stessa funzionalità dei soggetti che risentono di ogni variazione riguardante quella stessa relazione. Come con onestà riconosce il direttore nazionale dell’Agenzia delle Entrate Attilio Befera quando dice: “la forza di una grande istituzione come la nostra, dipende dalla fiducia della comunità di cui siamo al servizio”.
 
La tax compliance nella storia dell’unità d’Italia
E’ di grande aiuto fare un pur beve cenno all’ottimo studio condotto a fine 2010 dalla Banca d’Italia, a firma di Stefano Manestra, proprio dedicato al confronto tra la compliance e la non compliance nella società italiana in rapporto al modo con cui le istituzioni – dall’unità a oggi – hanno inteso definire al tempo stesso regole strutturali ma anche regole relazionali del fisco. Nello sforzo – che l’ex funzionario dello Stato che qui parla non può che comprendere e per vari aspetti lodare – di leggere una evoluzione riformista della politica fiscale del paese, lo studio coglie lo spessore del tema fisco nel primo cinquantennio dell’unità ammettendo durezze e eccessi autoritari. E sapendo che in quel passaggio storico si crearono stereotipi dolorosi in tante parti del territorio circa l’identità e la fiducia nello Stato. Pur sentendo la voce di veri statisti – come lo fu al riguardo Francesco Saverio Nitti (che cito volentieri, anche per la mia responsabilità di presidente della Fondazione impegnata a valorizzarne il pensiero) – che diedero dignità ad una riflessione di giustizia, soprattutto nel rapporto tra nord e sud. E poi, nel lungo e tormentato ‘900, leggendo una storia che anche nel fascismo – nei pochi anni di de Stefani e nei molti anni di Thaon de Ravel alle Finanze – cerca di sanare ferite non solo ricorrendo alla retorica patriottica ma cercando di innovare i meccanismi. Per poi trovare logiche del tutto nuove nella stagione di Ezio Vanoni ma non dimenticando che nell’evoluzione democratica del capitalismo italiano il paradigma della non compliance – o se vogliamo della difficile compliance – sta in un’opera letteraria minore come Il meridionale di Vigevano in cuiil protagonista, un funzionario dell’ufficio delle imposte, è temuto e usato dai contribuenti (dopo tutto lavora per “l’uffizio degli uffizi”), ma, al tempo stesso, umiliato economicamente quale impiegato pubblico persino dal paragone con gli operai delle fabbriche di scarpe. Questo studio raggiunge naturalmente i giorni nostri. E il passaggio finale è assai crudo. Lo riporto integralmente: “Secondo le stime della Banca d’Italia dal 1982 al 2000 la “porzione mancante” dell’economia avrebbe oscillato fra il 14% e il 18% del PIL. Nel 2006 valori pari a 15,3%-16,9%.l’80% di tale porzione si forma nel settore dei servizi. Un tentativo di raccordo tra sommerso ed evasione è giunto, con riferimento al 2006, alla conclusione che il primo (208 miliardi di euro) è imputabile solo per il 12% al lavoro dipendente e per l’88% agli altri redditi; almeno il 55% sarebbe riferibile a piccole imprese con classe dimensionale fra 1 e 19 addetti. Aggiungendo 28 miliardi derivanti dagli immobili e 14 miliardi da altri settori di attività economica, si arriverebbe a imponibili non dichiarati per circa 250 miliardi”.
L’analisi mostra un’evoluzione ulteriore di approccio. Ma non tira le somme – per riserbo e discrezione di ruolo – su due elementi che qui cerco di rappresentare.
  • La crisi profonda della stagione riformista del paese che ha significato anche la fine di una politica di sostanziale conciliazione con la non compliance basata sull’aggiustamento strutturale dei nodi della disaffezione.
  • La crisi della fiducia istituzionale che sta percorrendo la Nazione attorno a comportamenti non virtuosi della politica e della classe dirigente, divenuto un monumento alle difficoltà per ciò che comunemente chiamiamo “buona amministrazione”.
E ora tornerei al mio specifico, le questioni di comunicazione pubblica.
Ovvero di “rappresentazione” di questo scenario. In una condizione che, nei paesi davvero moderni, non è “megafono dei governi” ma mediazione interattiva tra istituzioni e cittadini.
 
Il legame essenziale e spesso disatteso tra politiche pubbliche e comunicazione pubblica
Le democrazie occidentali hanno sconfitto nel ’45 i fascismi e nell’89 i comunismi. Hanno avuto due immense possibilità per regolare i conti con la monumentalità della propaganda nella comunicazione pubblica. Divenuta arma strategica – al pari dell’atomica – durante la seconda guerra mondiale. La prima volta, nel dopoguerra, costruendo costituzioni nazionali e architettura comunitaria. La seconda volta, con l’avvio degli anni ’90, rendendo l’Europa – per la sua dimensione demografica e di mercato – un player mondiale con una cultura politica unitaria.
Il tarlo, però,  è rimasto. Si è avvolto inerzialmente attorno ad un’idea antica del potere e attorno ad una moderna paura di non ottenere consenso se non con una continua massiccia visibilità. L’impopolarità è così spesso uscita dall’agenda delle misure prioritarie. E con l’arrivo della crisi economica e occupazionale è prevalsa in molti paesi (purtroppo va detto, la Grecia e l’Italia tra questi) o la diffusione di bugie sui conti pubblici o l’omissione della verità nelle condizioni strutturali dell’economia. Morale, la potenzialità di utilizzare la comunicazione come leva strategica e identitaria aveva tre pre-condizioni:
  • rivoltare il marketing dall’idea selettiva che ne hanno le aziende (escludere aree di consumo a barriera troppo elevata e puntare sulla sicurezza dei comportamenti d’acquisto) in una idea inclusiva capace di concepire il rapporto con i cittadini a misura delle differenze socio-culturali di comprensione dei messaggi;
  • allertare con la comunicazione la partecipazione e la coscienza civile del paese attorno alle dinamiche diritti/doveri (quindi in sinergia attiva con la comunicazione sociale);
  • mantenere il presidio pedagogico governato in modo partecipativo e non autoritario puntando sul pluralismo del racconto dell’identità nazionale.
Ciò che emerge da questi ultimi venti anni è invece:
  • una arretratezza della dimensione economica nella comunicazione del settore pubblico e quindi la fatica di emergere del marketing orientato socialmente;
  • una diffusa rinuncia ad intervenire sulle criticità dello sviluppo centrando i messaggi sull’equilibrio doveri/diritti, plagiando invece la comunicazione commerciale regolata dal rapporto tra seduzione e piacere;
così da dequalificare in senso puramente strumentale e clientelare le più forti agenzie della comunicazione identitaria pubblica – in primis la Rai – non puntando abbastanza al ruolo della scuola e dell’università sostanzialmente nell’area della educazione civica come raccordo del moderno sapere sociale.
 
Il territorio delle possibilità contenuto nella normativa vigente
Siamo stati propugnatori, fautori, sostenitori di una normativa nazionale che ribaltasse il vuoto della Costituzione attorno al principio del diritto all’informazione (che non è il diritto dell’informazione) e quindi legittimasse funzioni e competenze nel campo della comunicazione pubblica che in parte dell’Europa era stata, prima e dopo la guerra, esperienza continuata di relazione tra istituzioni e società.
  • La legge “culturale” è arrivata nel 1990 ribaltando il principio del segreto e del silenzio e normando quello della trasparenza e dell’accesso (legge 241/90).
  • La legge “di settore” è sostanzialmente arrivata dieci anni dopo allargando la prospettiva del decreto legislativo del ’93 sulla funzione pubblica che aveva istituito gli URP. Le legge 150 del 2000.
Da quel momento in poi abbiamo cercato in tutti i modi di avvertire che non doveva passare l’idea che ogni politica e ogni attività di comunicazione stava unicamente nel varare URP e uffici stampa. Tamponando da un lato l’opinione pubblica su bisogni puntuali e costruendo dall’altro visibilità per la politica. Ferma restando questa base di funzioni operative legittime, era importante anche allargare la prospettiva relazionale delle amministrazioni in un’ottica più sociale, cercando di individuare più robuste possibilità di analizzare bisogni e di accompagnare politiche pubbliche. Nei momenti essenziali si è visto infatti che l’architettura era fragile, oltre a registrarsi un continuo impoverimento di risorse disponibili. Per due terzi (ricerca europea del 2010) una architettura poco idonea a interagire con gli ambiti decisionali e spesso relegata a ruoli di confezionamento, in vari casi modulata sulla dissimulazione e non sulla comprensione dei processi. Una dopo l’altra occasioni mancate: Euro, Immigrazione, Fonti di energia, Percezione e realtà della sicurezza e dell’ordine pubblico, Riforme istituzionali, Crisi economica, Rapporto tra formazione e mercato del lavoro, Geopolitica del paese e trasformazioni del Mediterraneo. Per questo è responsabile chiederci: perché dovrebbe essere virtuosa la comunicazione delle politiche fiscali che – insieme alla questione delle pensioni – è tra gli ambiti più delicati del racconto degli scenari da parte pubblica al paese?
Mettendo così in movimento un altro pensiero. Questo: siccome tuttavia una comunicazione che accompagni una nuova cultura sociale legata alle tasse è necessaria, non è venuto il momento di immaginare alleanze più ampie che stimolino la “lealtà fiscale” con la garanzia di un vero e proprio pluralismo istituzionale e di interesse generale? Riprenderemo l’argomento.
 
Le potenzialità che sono fuori dagli ambiti della legge e che investono la “responsabilità sociale “ della PA
Da un lato, dunque, vi è stata crisi dello Stato e delle agenzie nazionali. Cioè i soggetti a cui ha prevalentemente guardato la legge 150, sì riferita anche alle autonomie locali ma regolata sostanzialmente sui ministeri. Dall’altro lato, però, vi è stata la evoluzione dei modelli organizzativi della comunicazione pubblica regolata dall’innovazione bel al di là della previsione di quella legge. Creando contesti che esistono, ma spesso in condizioni di non pieno sviluppo e molte volte anche di sofferenza:
  • la dinamica delle reti e dei social-networks, in primis;
  • Il ruolo di comunicazione di soggetti professionalmente rubricati in altri mestieri (sociologi, psicologi, educatori, urbanisti, ecc.), importante ampliamento della funzione relazionale pubblica, spesso con culture di ruolo pubblico socialmente percepibile);
  • quel che resta della negozialità (non il profilo schiacciato e subordinato) tra management pubblico e politica.
Grazie a queste varianti la comunicazione – cioè l’accompagnamento delle politiche pubbliche che presupporrebbe un profondo ascolto co-decisorio nella formazione di quelle politiche pubbliche – ha visto dilatare, almeno potenzialmente, ruolo e potenzialità. Accanto a molti casi di uso strumentale e manipolatorio della comunicazione istituzionale, vi sono quindi anche casi virtuosi di politici e leader istituzionali che, insieme al loro management, hanno tentato laboratori che dimostrano la possibilità di questo spazio innovativo. 
Nel mondo – e quindi non solo in Italia – intanto  il locale ha assunto profondamente la leadership identitaria e il globale la leadership economica. La dimensione nazionale in alcune parti del mondo – in Italia certamente – è erosa da sotto e da sopra.
A fronte di questo sviluppo frenato si è creata una geografia della fiducia e del consenso che ha accompagnato il processo generale prima descritto:
  • spostare sul locale il fattore di disponibilità all’ascolto per affinità identitarie;
  • spostare sul globale (finanza, consumi, spettacolo) l’apertura ai cambiamenti.
Salvo tifare tutti per la nazionale di calcio ogni quattro anni e rispettare (i più) alcune icone simboliche della Repubblica, tra cui il Presidente.
Oggi si potrebbe parlare di quattro Italie forse non equivalenti ma ugualmente comunicanti:
  • i localisti
  • i globalisti
  • i nazionalisti (in larga parte “italiani” e marginalmente “europei”)
  • gli astensionisti in ordine al tema identitario nazionale perché prevalente è la loro diversa radice identitaria o per caratteri migratori o per caratteri culturali e religiosi.
L’indebolimento di reputazione degli Stati arriva, in verità, nel momento in cui l’accentuarsi della crisi permetterebbe loro una argomentazione di qualche successo di fronte alla debolezza propositiva dei soggetti locali e a una inevitabile deresponsabilizzazione di fronte alle concrete e puntuali fragilità che si sommano nei territori.
 
Linee di elaborazione di nuovi scenari comunicativi in campo fiscale
E’ in questa complessità che va generata una nuova architettura della comunicazionepubblica efficace
Ø       Efficace quando essa si dimostra in grado di raggiungere obiettivi misurabili (come nei processi commerciali, procedura spesso disattesa in ambito pubblico).
Ø       Efficace quando essa genera valore aggiunto nel rapporto dei cittadini con la fruizione di normative, regolamentazioni, servizi e strutture.
Ø       Efficace – è questo il nostro caso – quando riporta in maggiore equilibrio reale la relazione tra diritti e doveri nella percezione individuale e collettiva del paese.
Una regia è necessaria e l’Agenzia delle Entrate ha il diritto di esprimerla (anche agendo con i suoi preliminari naturali alleati, tra cui il corpo della Guardia di Finanza). E’ organo dello Stato, territorializzato e con una finalità oggetto di verifiche almeno in campo comunitario e potrebbe tenere conto di queste trasformazioni puntando a :
  • non limitarsi alla modalità comunicativa “asettica”, che è quella di lanciare messaggi generalizzati regolati inevitabilmente da un principio di banalità per assicurare il minimo comun denominatore dell’ascolto;
  • studiare (come certamente studia, ma non è sicuro che lo faccia con finalità comunicative) la percezione disarticolata della questione contributiva e fiscale in una matrice che potrebbe avere da un lato le quattro Italie identitarie e dall’altro lato le quattro fasce di relazione tra reddito e servizi (altamente serviti, ben serviti, discretamente serviti, male e malissimo serviti);
  • negoziare iniziative con la pluralità delle fonti che concorrono all’attuazione delle politiche fiscali (Europa, Stato, Regioni, Enti locali) inducendo possibilmente i Sindaci e altre istituzioni (o autonomie funzionali) importanti nel territorio a fornire un contributo creativo importante nel baricentrare argomentazioni e identificazione dei casi concreti;
  • promuovendo un’agenda comunicativa che sia espressione di patti e alleanze con soggetti articolati nel territorio e nella rappresentatività con l’obiettivo di generare non solo prodotti comunicativi in forma corresponsabile ma soprattutto accompagnamento sociale e culturale condotto nei sistemi educativi, nel mondo del lavoro e nella società.
E’ evidente che il fenomeno dell’evasione non ha né ragioni né protagonisti interpretabili in modo omogeneo. Contiene elusione, omissione, sommerso, pervicacia, disperazione, sistematicità, occasionalità. eccetera. Come tutte le devianze dalla legalità si colloca nella storia dei rapporti sociali e culturali tra cittadini e istituzioni e obbliga ad una mappa di motivazioni che è la cornice obbligata di qualunque politica di comunicazione.
 
L’etica pubblica come convenienza
Insomma l’etica in economia è parola spendibile se si pone al centro della proposta anche il profilo della convenienza. Lo è per le imprese che scelgono la legalità e non la mafiosità pagando correttamente il personale, le materie prime e le tasse. Possono fare il contrario. Ma se si debbono misurare con il diretto concorrente che fa il contrario e vogliono mantenersi nella condizione di diritto, senza l’etica (che vuol dire anche senza lo Stato) muoiono senza preavviso.
Una volta assicurata così la base di metodo e di merito della comunicazione restano le altre declinazioni dell’etica:
  • come valore culturale (la tradizione)
  • come valore civile (la reputazione)
  • come valore politico (la diversità).
Quando in un territorio questo profilo ambientale viene perseguito dalle imprese anche i cittadini (connessi spesso come lavoratori o come imparentati ai lavoratori di quell’impresa) ne sono fortemente coinvolti. Spiegando questo che il valore territoriale della reputazione fiscale è parte del più sostanziale principio del federalismo fiscale. Finora progetto astratto, non misurato né economicamente né per le ricadute di riforma istituzionale generale che esso comporta. L’ultima implicazione di un rinnovamento comunicativo diciamo così “dal basso” riguardante la fedeltà fiscale (anche se tessuto dall’alto, cioè con regia nazionale, ma rispettoso delle voci e delle caratterizzazioni in campo) è quella delle modalità – ovvero delle tecniche – che vanno pensate come rilevanti in un contesto strategico così evidentemente cambiato.
Ø       La pubblicità non orientata all’atto di acquisto non è d’abitudine una leva efficacissima. Ma può essere solo la cornice che annuncia la rappresentazione.
Ø       I media possono allora esercitare una parte del racconto a condizione di saper generare notizia sul ribaltamento di una filiera informativa; non più lo Stato astrattamente verso il basso con messaggi moralistici, ma fonti al plurale con la regia dell’istituzione locale più reputata che ritrovano le ragioni della propria identità competitiva per generare un clima di reciproco controllo sui comportamenti fiscali.
Ø       La rete – che ha bisogno anche dei luoghi per integrare scambi virtuali e scambi reali – diventa sede di interattività quando di mezzo c’è il risultato sociale del rapporto fisco-spesa pubblica, cioè la verifica dell’andamento corretto della gerarchia della spesa corrispondente al mandato democratico.
Sindaci, soggetti della rappresentanza nel territorio, media soprattutto locali sono dunque interlocutori per avviare una proposta concordata – con convergenze coraggiose – di comunicazione fiscale. Che mostri anche confrontabili realtà territoriali europee. Non debbono essere considerati ripetitori di inutili asettiche campagne nazionali.
 
Conclusione
Non è una breve relazione, che non può andare al di là della sintesi di scenario,  a poter entrare nei dettagli di questa politica. E non è questa una politica che può essere mutuata “volontaristicamente” da un soggetto, pur dinamico, di un sistema fin qui espressione di un potere centrale in una politica centralizzata. Un soggetto che tuttavia ha dato segnali seri di confrontarsi con l’impegno comunicativo e relazionale. Che in vari casi permettono giudizi legati al prodotto comunicativo (da cui consensi e dissensi), più difficoltosamente fanno intendere una strategia comunicativa che affronti i problemi di processo qui accennati.
La crisi politica è in evoluzione. Proprio oggi essa potrebbe volgere a soluzioni. Se si confermerà l’impegno affidato al professor Monti viene in mente una sua recente indicazione preziosa per la materia qui trattata: “è necessaria ormai una vera e proprio pedagogia sociale per accompagnare profondamente la verità di misure difficili ma necessarie “. I riferimenti che ho fatto alle omissioni e alle reticenze della comunicazione pubblica nel nostro paese in anni recenti hanno attorno a questa indicazione e in modo maiuscolo su un tema come quello fiscale la possibilità di un cambio di marcia. O almeno di sperimentazioni coraggiose.
E vi sono forse, in questi pur insufficienti cenni, elementi che possono indurre a sperimentazioni. Di metodo, di linguaggio e di revisione critica di esperienze in corso.
Un convegno d’altronde ha successo quando genera dubbi, non quando obbliga ad applausi di circostanza. A cominciare dal titolo. Venti anni fa, avrei anch’io intitolato “Il fattore Compliance: dal contrasto all’evasione all’adempimento spontaneo”. Oggi scriverei: “Come creare una cultura della relazione tra istituzioni e contribuenti che possa far misurare adempimenti corrispondenti all’efficacia sociale delle politiche”.
 
 
 
(Testo relazione: 26.192 caratteri spazi inclusi)
 
 
Nota bibliografica
 
In materia di relazioni tra comunicazione di impresa e comunicazione pubblica
·          Stefano RolandoEconomia e gestione della comunicazione delle organizzazioni complesse, CEDAM, Padova, 2010.
In materia di relazioni tra comunicazione pubblica e democrazia partecipativa
·          Stefano Rolando La comunicazione pubblica per una grande società. Ragioni e regole per un migliore dibattito pubblico – ETAS, Milano 2010.
In materia di comunicazione istituzionale nel quadro attuativo della normativa vigente
·          Stefano Rolando (a cura di) – Teoria e tecniche della comunicazione pubblica – ETAS, Milano 2011 (terza edizione).
In materia di evoluzione dei processi interattivi in rete
·          Guido Di Fraia (a cura di) Social Media Marketing & Web Communication. Hoepli, Milano 2011
In materia di inquadramento critico della comunicazione della statistica nella comunicazione pubblica
·          Enrico Giovannini – Colloquio con Stefano Rolando Non sprecare la crisi. La statistica come risorsa – in Rivista italiana di comunicazione pubblica n. 41-42/2010, Franco Angeli (anche http://www.stefanorolando.it/index.php?option=com_content&view=article&id=693:la-statistica-come-risorsa-colloquio-con-enrico-giovannini-istat-rivitcom-pubblica-n412010&catid=39:testi&Itemid=63)
In materia di analisi storico-sociale della tax-compliance in Italia   
·          Stefano Manestra – Questioni di economia e finanza (Occasional Papers) – Per una storia della tax compliance in Italia– Banca d’Italia, n. 81/ dicembre 2010
·          Attilio Befera – Intervento al convegno Le Agenzie fiscali: una risorsa per il Paese – Roma 19 maggio 2011 (in rete)
In materia di crisi del quadro istituzionale e delle classi dirigenti
·          Giuseppe De Rita con Antonio Galdo – L’eclissi della borghesia – Laterza, Roma-Bari, 2011
·          Giuseppe De Rita – Il regno inerme. Società e crisi delle istituzioni – Einaudi, Torino 2022
In materia di federalismo fiscale
·          Franco Bassanini e Giorgio Macciotta (a cura di ) – L’attuazione del federalismo fiscale – Astrid, Il Mulino – 2003
In materia di sviluppo glocal
·          Piero Bassetti con P. Accolla e N. d’Aquino – Italici. Il possibile futuro di una community globale – Giampiero Casagrande, Lugano, 2008.
·          Piero Bassetti – Colloquio con Stefano Rolando – 150° a prova di unità. Salvare la Nazione abbandonare lo Stato, in Mondoperaio n. 2/2011 pagg.78-80.
·          Matteo Bolocan Goldstain – Piero Bassetti e la città glocale, tra flussi e territorio – in “Territorio” n. 49/ 2009
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

[1]Premesse sull’ottica del relatore – L’ottica del relatore è quella di un manager formato alle scuole delle “riforme possibili”:
·          che ha servito l’amministrazione dello Stato e poi del sistema regionale;
·          che ha condotto esperienze professionali nel campo delle comunicazioni (media, impresa, istituzioni);
·          che ha optato, a carriera avanzata, per l’insegnamento universitario di ruolo in una fase di perplessità e di critica dell’evoluzione della politica in Italia e della formazione della classe dirigente;
·          che si è concentrato sull’evoluzione della comunicazione pubblica nel senso sempre meno “statale” e sempre più della “pubblica utilità”;
·          immaginando al centro una agorà di soggetti pubblici e privati, sociali e istituzionali, che veda convergere di più la voce delle regole e quella degli interessi collettivi (istituzioni ed economia);
·          che è critico sull’evoluzione mancata del federalismo in Italia e sulla trasformazione in senso propagandistico della comunicazione pubblica;
·          che è preoccupato circa la prevalenza dell’iniziativa mediatica attorno alle patologie e non attorno alle opportunità da raggiungere con competenza informata;
·          che avverte la gravità della rarefazione di una seria riformabilità dello Stato;
·          che pensa, tuttavia, che l’integrazione europea e l’ineludibilità della competizione tengano viva la questione etica (i “doveri dei cittadini”) come fattore di adeguamento;
·          che – malgrado la crisi di reputazione e fiducia in cui versa lo Stato italiano – pensa che la via della compliance possa generare novità a condizione di aprirsi a patti nuovi con il territorio, la società civile, le imprese, i media.
Questo contributo presuppone naturale complementarità con altre relazioni, in particolare quella del prof. Stefano Zamagni sul nuovo modello di relazioni tra Stato e cittadino, per l’utilità sociale” e quella della prof. Silvia Giannini sul tema “Il ruolo dei territori per la crescita della cultura fiscale”.