Sul libro di Giulio Sapelli “L’inverno di Monti” (3 maggio 2012)

Giovedì 3 maggio 2012 alle ore 18.00, alla Libreria Coop Statale via Festa del Perdono 12  a Milano,  la presentazione del volume L’inverno di Monti – Il bisogno della politica di Giulio Sapelli , edito da Guerini e Associati.
L’autore ne ha discusso con Paolo Borioni,  Piero Ignazi, Stefano Rolando.
Ha moderato l’incontro Massimiliano Panarari.
Questo l’intervento di Stefano Rolando, nella forma di recensione per la rivista “Mondoperaio”
 
Sapelli: l’Inverno di Monti e l’oscurità di Dio
Giulio Sapelli – L’inverno di Monti. Il bisogno della politica – Guerini&Associati, 2012, pag. 73.  
 
di Stefano Rolando
 

Tutto è instabile, tutto rischia di rovinarci addosso”.
C’è un clima plumbeo attorno alle ispirazioni del pamphlet di Giulio Sapelli, scritto di getto in una notte per le insistenze della redazione dell’Inkiesta (giornale on line) e poi trasferito in 73 pagine a corpo largo nel tascabile che Guerini ha mandato nelle librerie nell’aprile di quest’anno a otto euro.
Ma siccome uno studioso civilmente fervido come Sapelli non scriverebbe un libro di invettive, ecco che la prosa – sì, sulfurea – prende presto la forma dell’orazione appunto civile e quindi dell’atto di carità di patria. La penna s’arresta al perimetro del recinto della descrizione rovinosa e così, nelle presentazioni, consenzienti e dissenzienti sollecitano l’autore a profetare un po’, per capire se, alle strette, una via di uscita non venga fuori.
Intanto una “via di uscita” è tracciata in questo “L’inverno di Monti” dalla ricostruzione dei caratteri internazionali della crisi calata sull’Italia. Almeno una via di illuminazione su nessi in buona parte sfuggiti alle cronache dei media.
Già, infatti, i media ci hanno fatto vivere la rivoluzione del 2011 – quella di metter fine al governo Berlusconi che dichiarava “resistenza” fino ad un’ora prima e che aveva retto, pur con cinismo parlamentare, alle erosioni della scissione finiana – in forma virtuale. Davanti alla tv nel cogliere i riti in diretta e la mattina dopo sui quotidiani per qualche retroscena. Ma i media, si sa, raccontano bene gli eventi ma spiegano male i processi. E se l’un-due-tre del presidente Napolitano (resa di Berlusconi, nomina a senatore a vita di Monti, conferimento dell’incarico a Monti) è da considerarsi “evento” è certo che esso sia stato abbondantemente mediatizzato e quindi a noi “spiegato”. Ma se esso fosse da considerare una fase evolutiva di un più lungo processo, sarebbe giusto dire che di esso gli italiani hanno capito poco. E’ il punto di partenza di Giulio Sapelli e lo sarebbe di qualunque studioso di storia economica applicata alle dinamiche politiche che usa bagaglio culturale e approccio critico per fare le connessioni che le notizie delle concitate giornate di novembre non potevano rivelare.
 
Il pamphlet è corto, ossuto e lirico.
Corto perché taglia via premesse, derivate, contestualizzazioni. Tratta l’Italia come una “preda” nel sistema degli interessi internazionali e va diritto al sodo.
Ossuto perché appunto ci riconsegna una visuale del destino nazionale come poteva essere formulato ai tempi del congresso di Vienna, ai tempi della pace di Versailles, ai tempi degli accordi di Yalta. In sostanza una matrice di geo-politica e geo-economia in cui da un lato si portano in emersione gli interessi internazionali prevalenti e dall’altro si guarda allo schema interno della rappresentazione del potere.
Lirico perché quel destino nazionale non piace all’autore (piemontese d’origine) e il grido di dolore comincia con l’invocazione del “bisogno di politica” (il sottotitolo del libro) e finisce con i versi di T.S. Eliot, in East Coker, I said to my soul, be still, and let the dark come / upon you / Wich shall be the darkness of God (Ho detto alla mia anima: taci, e lascia che scenda su di te l’oscurità del buio, che sarà l’oscurità di Dio). Qui forse una reminescenza heideggeriana per cui “ormai solo un Dio ci può salvare”,
Mario Monti ha l’onore del titolo ma nel libro occupa solo la pagina finale. E’ il “perché Monti” a guidare l’indagine. Della quale colpiscono tre evidenze.
La prima. La descrizione dei due blocchi politico-sociali dell’Italia della seconda Repubblica – che Sapelli identifica nel blocco Berlusconi e nel blocco Prodi, tagliando via le complessità oltre questa sintesi –  porta ad identificare una rappresentanza completamente rovesciata rispetto ai significati di destra e sinistra che erano maturati nella prima Repubblica. Il blocco Berlusconi capace di intercettare il sistema sociale e produttivo piccolo e frammentato (una volta si sarebbe detto di sinistra), il nuovo popolo delle partite IVA, i ceti che hanno conservato un po’ di competitività grazie alla tolleranza di illegalità da parte di quella politica (un tempo chiamata “sommerso”). Il blocco Prodi (perché nell’ex premier Sapelli vede un disegno, mentre nel PDS, poi DS e poi PD che ne è stata colonna vertebrale politica vede solo adattamento) capace di intercettare grandi banche e grandi imprese, circuiti della finanza, interessi più corposi (che una volta erano appannaggio politico della destra). Tesi che avrebbe alcune contro-deduzioni ma che, comunque, serve con efficacia narrativa all’autore per spiegare che questa evoluzione ha confuso gli elettori, poi ha confuso gli stessi partiti protagonisti e alla fine ha confuso i cosiddetti mercati – ovvero i centri di interesse dell’oligopolio finanziario internazionale – che hanno ritenuto, appunto alla fine, “non credibili” entrambi i blocchi.
La rappresentazione del potere è qui quella dell’Italia della commedia dell’arte che finisce in Pirandello: storia di maschere e di ambiguità.
La seconda. Mi sono chiesto, leggendo, se fosse davvero possibile immaginare e scrivere che oggi – dico oggi, con l’Europa, l’euro, la Nato, la globalizzazione, eccetera, eccetera – alcuni paesi europei possano mangiarsi altri paesi europei. Non per modo di dire. Ma è questa la seconda connessione che Sapelli svolge nelle pieghe della crisi di rappresentanza della seconda Repubblica italiana. Con Francia e Germania pronte a disputarsi i resti mortali di un’Italia che al compimento del suo 150° anno, come Stato, rivelava di non avere ancora maturato quel traguardo. L’Italia riportata – dopo le glorie di Roma – ai tempi di Carlo Magno, di Napoleone, di Hitler. Anche qui contro-deduzioni sono legittime. Ma nella narrazione resta micidiale per nitore la vicenda di come si sia inesorabilmente portata a distruzione la forza della grande impresa italiana – soprattutto pubblica –   per consentire quella deriva.
La terza. Anche qui un certa sorpresa. Possibile che, una volta che i due blocchi politico-sociali descritti si sono resi “incredibili” ai mercati, facendo tra l’altro emergere anche la crisi affaristica dei partiti, la società italiana non abbia mostrato nemmeno l’ombra di altri soggetti di sistema capaci di reggere la transizione? Né altri partiti, né reti delle autonomie, né centri di cultura sociale e civile. Niente. Sapelli, che è studioso di larghissima esperienza anche nelle settorialità e nelle profondità (sud, cooperazione, distretti, eccetera), ha visto il vuoto, ha visto la povertà del tessuto democratico italiano.
Da qui l’epilogo del racconto. Il Capo dello Stato – capo cioè di una istituzione che l’autore (lui dice con la sola condivisione di Stefano Folli) ritiene più potente di quanto abitualmente si pensi – si costituisce in Senatus, che pur aveva un suo diverso pluralismo nell’età di Roma, per mettere in scena il semestre del dictator, un cittadino per bene che ha il sostanziale favore dei patrizi, incaricato di sciogliere i nodi della crisi soprattutto in due direzioni: fare i conti con il quadro internazionale e fare i conti con i plebei.
Qui Sapelli taglia cortissimo, presumibilmente per non dovere dar conto del suo personale giudizio critico sulla figura dell’attuale premier, valutandolo quindi come un corpo figurato del gioco del destino, l’interprete di un disegno. Ed è un disegno che non piace all’autore che finisce, appunto, a sentire la cupezza dell’oscurità.
Le nostre domande sono ora legittime.
Quella generata dall’idea di una pre-condizione dell’opera costruens del governo, ovvero del tornare ad assicurare una legittimità di ruolo internazionale all’Italia significante anche un arresto della manovra di spoliazione del paese non importa se ad opera dei francesi o dei tedeschi. A nostro avviso passaggio svolto dal governo Monti e ad avviso di Giulio Sapelli invece svolto a marce basse “per una mancanza di statura politica di Monti che non gli consente né di stare con l’uno o con l’altro e – non essendo Olof Palme – di impostare una duratura mediazione” (la citazione non è tratta dal libro ma dalla discussione con l’autore nella presentazione a Milano).
Quella generata dal bisogno di una continuazione di analisi per capire se l’esperienza della seconda Repubblica e le condizioni ormai di crisi diffusamente percepita non modifichino la domanda sociale di una politica degli interessi generali. Sapendo che questa dinamica non può essere risolta nel “semestre del dictator” e dunque prefigurerebbe un allungamento dell’esperienza anche dopo le elezioni. Il pamphlet non contiene risposte. Se non nella critica che Sapelli fa alla commistione tra potere e media in ordine alla “verità che ci è mostrata con infinite riserve, che è quella che ci vogliono far vedere”.
Infine quella generata dal risultato dei due negoziati: con i mercati e con i “plebei”, ossia con chi ci compra i titoli di Stato e con la società che va esprimendo inquietudini, sommovimenti e anche tumulti.
Sul primo fronte Sapelli vede compromesso il potere negoziale del paese a causa “dello spezzatino” in cui è stata ridotta la sua dimensione di impresa; sul secondo fronte non immagina che il conflitto sociale giunga a drammaticità, pur sollecitando componenti ancora disponibili all’autoriforma della politica ad indirizzarsi verso forme adattate di dottrina keynesiana.