L’ultima Storia per Amelia
Storie per Amelia
di
Birolampus
Le pietre
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Birolampus, nelle sue assai meno note vesti di papà di Amelia, ha visitato, con Amelia, il parco archeologico di Selinunte sabato 26 luglio 2008. Amelia aveva il broncio perché agendo con abituale irruenza sulla sua macchina fotografica proprio davanti al Tempio E schiacciava il tasto “eliminare tutto” cancellando dalla memoria tutte le foto scattate fino allora nel bel viaggio in Campania, Calabria e Sicilia. Per questo, qualche giorno dopo, a tarda sera, dopo una giornata zeppa di cose, Amelia – con un’altrettanto abituale piccola regressione – chiedeva al papà di raccontarle una storia per trovare, accoccolando un po’ i suoi pensieri, la via del sonno. E suo papà, adottando al buio le vesti di Birolampus, le improvvisava più o meno la storia “riparatrice” qui messa per iscritto.
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Questa storia
– cari bambini e cari papà&mamme dei miei cari bambini –
sarà per voi una vera sorpresa.
Ce l’ha raccontata un archeologo svizzero,
che lavora ad un libro sul monaco domenicano Tommaso Fazello.
Non crediate che mi sia inventato questo nome.
Fra’ Fazello, nel XVI secolo, identificò per primo l’area dell’antica città di Selinunte, consentendo così – ma solo trecento anni dopo, nel 1823 –
l’inizio degli scavi per opera di due archeologi inglesi,
che si chiamavano William Harris e Samuel Angell.
Anche in questo caso niente di inventato. Tutto vero.
Chi ha visto il parco archeologico di Selinunte, oggi,
dopo quasi due secoli di scavi e ritrovamenti,
sa che, in quei 270 ettari
di straordinaria natura levigata dal vento e dal sole,
ciò che colpisce di più sono le immense pietre
che costituivano le forme originarie dei templi
di una antica città guerriera che,
fondata dai coloni greci di Megara Hyblea 628 anni prima di Cristo,
combattè nei secoli contro tutti: Siracusa, Segesta, i cartaginesi, i romani.
Distrutta, ricostruita, distrutta, ricostruita, distrutta.
Poi abitata da nomadi e passanti attorno all’acropoli ancora eretta.
Infine, nel medioevo, cancellata definitivamente da un tremendo terremoto
che sbaragliò metope, colonne, peripteri e capitelli.
Quei pochi rimasti in piedi, naturalmente.
Poi per sette secoli fu il silenzio.
Interrotto dagli stridii e dai cicalecci della notte,
accompagnato dai profumi di rosmarino e accarezzato dai raggi della luna.
Pietre girate e rigirate, casualmente accatastate,
in lunga e bassa barriera, facendo scorgere tratti di mare blu,
rami obliqui dell’agave,
imprudenti cactus e impertinenti fichi d’India.
Pietre grigie e leggermente ambrate,
che nascondono gramigna e terriccio in una porosità informe,
in superfici smussate,
nella memoria ormai lontanissima
del loro essere state squadrate, erette, geometriche, verticali.
Pietre che sorreggono pietre,
oggi liberate dalla fatica e dall’impegno dentro mirabili architetture.
Pietre un tempo sorelle nella concatenata sorte,
oggi monadi che la natura avvolge nella loro assoluta solitudine.
Capitò nel parco di Selinunte, attorno al 1960,
un famoso regista americano di origine italiana,
che pochi anni prima, con il film Un americano a Parigi,
aveva conquistato tre Oscar.
Vincent Mannelli, padre della famosissima Liza Minnelli,
che portò con sé quattordicenne
in quel rabdomantico ricorso alle terre d’origine
per trovare ispirazioni per il film A casa dopo l’uragano
che stava per completare.
Regista sensibile, considerato tra i più “decorativi” del cinema hollywoodiano, Minnelli era pazzo per le storie strabilianti del suo paese d’origine.
E passò più volte la notte tra le rovine di Selinunte
per cercare qualche corrispondenza
tra le meraviglie di una natura morta di immense dimensioni
e le dicerie popolari che volevano che, tra quelle pietre, si formassero lacrimatoi,
per deporre il pianto di antichi massi tra loro legati e solidali,
ormai separati per sempre dal tempo, dalla storia e dalla violenza degli uomini.
Non mi prendete per matto, cari bambini.
Negli appunti a margine del suo Viaggio per tutte le antichità della Sicilia
il settecentesco Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari,
grande esperto di antiquaria e di botanica,
ne fa qualche sprezzato cenno.
Insomma la leggenda del “pianto delle pietre”
era ciò che il regista andava cercando,
adagiandosi al tramonto sotto le possenti colonne del Tempio E
o accanto alle quattordici colonne del lato nord del Tempio C
che si vuol dedicato al dio Apollo,
argomento a cui il regista annetteva importanza
per ritrovare le tracce
di antiche bellezze, antiche emozioni, antiche ispirazioni.
Fu Liza Minnelli – lei, proprio la Liza Minnelli di New York, New York,
una notte di pieno agosto della sua tenera gioventù –
a sentire nell’aria qualcosa di strano, qualcosa di diverso, qualcosa che vibrava
come un accordo profondo scappato da uno struggente violoncello
impegnato in una passaggio sinfonico di Sciostakovic.
Vincent si era superficialmente addormentato,
lasciando alla giovane figlia
il presidio della parte più cavernosa e misteriosa della notte.
Avevano tanto parlato in quel viaggio,
tanto giocato con le ipotesi più fantasiose,
che le antenne della sensibilità della ragazza
si erano fatte sottili
e capaci di dare corpo anche ad impercettibili mutamenti
di quel meraviglioso silenzio naturale
che avvolgeva ogni notte tutto e tutti.
Fu complice il mare, che rimandava l’eco del frangersi delle onde.
Fu complice il fruscio, ai piedi del tempio,
della sabbia sollevata da piccole folate di vento,
come improvvisi attacchi dei violini di fila di una invisibile orchestra.
Liza raccontò poco dopo al padre
– che proprio un granello di sabbia, sorvolando le sue narici, aveva risvegliato –
la meravigliosa intuizione di un canto
che due pietre, tra loro separate da una spazio punitivo,
avevano levato al cielo, con una impercettibile chiarezza.
Così pareva che avessero cantato:
“Eravamo i due possenti angoli,
rivolti al mare,
della parete laterale destra
di questo tempio.
Un masso maschile avvolgente
e una sagomata pietra d’ambra
femmineamente adagiata
su quella forza di sostegno,
uniti da secoli in un abbraccio eterno,
a tagliare il vento nella notte
e a proteggere dal sole
il contenuto sacro dell’edificio
nel corso del giorno.
Il nostro amore
era perfetto, geometrico, stabile, inalterabile.
Fu il terremoto dell’anno mille
a distoglierci con inaudita violenza
da quella posa,
progettata per i secoli.
A gettarci nella sabbiosa terra degli umani,
a costringerci a rotolare
tra arbusti e pietrisco
fino alla attuale crudele distanza.
Poi, quando fu di nuovo silenzio
attorno alla rovina del nostro edificio
innalzato con superbia e orgoglio
al confronto con le divinità,
perdemmo per sempre il nostro contatto
e fummo pietre in terra,
sole
e provocate dalle bisce d’acqua
e dai ragni dei cactus”.
Liza aveva ripetuto questa storia come in trance,
l’aveva sussurrata
come fosse stata una antica melodia ricorrente dall’infanzia.
L’aveva, in qualche modo, musicata.
Vi fu turbamento nel padre per quel racconto.
Vi fu allegria invece nel riso della figlia
per una performance imprevedibile e imprevista
che tra l’altro rivelò doti musicali e arco vocale
fino allora del tutto ignoti alla famiglia.
Vincent Minnelli prese dettagliati appunti
e segnò anche in modo ripercorribile
gli elementi musicali di quella testimonianza.
Un po’ poetica, un po’ sacerdotale.
Lieve e grave. Serena e drammatica.
Vita e morte nel crogiolo della storia,
come avrebbe detto il comisano Gesualdo Bufalino.
Nulla di tutto ciò fu utile a Minnelli
per completare il suo film.
Ma ne volle far parola, nell’autunno,
all’istituto archeologico londinese
che raccoglieva l’esperienza dei due studiosi inglesi
che avevano tanti anni prima – ricordate ? –
toccato con le loro mani, per primi,
le pietre sepolte e quelle scompaginate sulla terra,
là tra i resti dell’antica città
che sorge dove scorreva il fiume Selinon
(oggi chiamato Modione)
prendendo il nome da quello del prezzemolo selvatico,
che tuttora profuma l’aria del parco.
Si recò dunque presso l’Istituto archeologico britannico,
proprio nel giorno in cui erano in corso delle esposizioni fotografiche
e delle forme di spettacolo
che accompagnavano immagini al tempo stesso antiche e moderne.
Un ragazzo, riccioluto e scorbutico,
Un ragazzo, riccioluto e scorbutico,
suonava alla chitarra note
a tratti irruenti e a tratti soavi
per marcare la proiezione di fotografie della sua fidanzata, June,
dedicate a ritrovamenti archeologici in Giordania.
Quel ragazzo si chiamava Keith Richards.
Ascoltò il racconto di Vincent Minnelli.
Mandò a mente la fragile trama musicale che Minnelli sussurrò,
come citazione della storia.
E quella sera stessa
– cari bambini e cari papà&mamme dei miei cari bambini –
ne parlò alla sua fidanzata e al suo migliore amico,
che si chiamava Mike Jagger
e con cui talvolta insieme suonava e cantava.
I due trovarono la storia meravigliosa
e il giorno dopo, a Londra, si formò un complesso musicale
che fece epoca, nel novecento, in tutto il mondo.
I Rolling Stones. Le pietre rotolanti.
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