Sergio Ristuccia (5 gennaio 2015)
E’ scomparso questa mattina Roma Sergio Ristuccia.
Aveva recentemente festeggiato i suoi 80 anni e aveva già respinto due assalti di un insidioso tumore. Il terzo è stato fatale.
Un intellettuale laico che comprendeva il nesso tra istituzioni e imprese. Fu segretario generale della Fondazione Olivetti. E fu segretario generale della Corte dei Conti. A lungo presidente del Consiglio italiano delle Scienze sociali.
Ci siamo conosciuti alla fine degli anni settanta nella stanza di Massimo Fichera, allora vicedirettore generale della Rai.
E siamo rimasti serenamente amici fino ad oggi.
Non l’ho mai visto “contro”. Mi ha scritto continui messaggi affettuosi durante una simbolica campagna fatta nel 2010 nelle liste radicali in Lombardia per protestare contro lo scempio delle istituzioni.
Ha diretto una bella rivista che si chiama appunto “Queste Istituzioni” per mantenere una tradizione impossibile: quella delle riforme (progettate, dette, raccontate, pubblicate, combattute) delle nostre istituzioni.
Un intellettuale laico che comprendeva il nesso tra istituzioni e imprese. Fu segretario generale della Fondazione Olivetti. E fu segretario generale della Corte dei Conti. A lungo presidente del Consiglio italiano delle Scienze sociali.
Ci siamo conosciuti alla fine degli anni settanta nella stanza di Massimo Fichera, allora vicedirettore generale della Rai.
E siamo rimasti serenamente amici fino ad oggi.
Non l’ho mai visto “contro”. Mi ha scritto continui messaggi affettuosi durante una simbolica campagna fatta nel 2010 nelle liste radicali in Lombardia per protestare contro lo scempio delle istituzioni.
Ha diretto una bella rivista che si chiama appunto “Queste Istituzioni” per mantenere una tradizione impossibile: quella delle riforme (progettate, dette, raccontate, pubblicate, combattute) delle nostre istituzioni.
Costretto alla fine all’on line. Ma senza rinunciare alla vastità delle riflessioni e delle proposte.
Lo ricordo ripubblicando (dai Quaderni della Fondazione Olivetti) questo dialogo a tre (lui, Stefano Sepe e io) al ForumPA del 2009 per presentare la sua biografia di Adriano Olivetti. Un bellissimo libro.
FORUM-PA
Roma, Martedì 12 maggio 2009 dalle 14.00 alle 15.15
Stefano Rolando e Stefano Sepediscutono con Sergio Ristuccia autore del libro
Costruire le istituzioni della democrazia. La lezione di Adriano Olivetti
(Marsilio editori)
Testo pubblicato nel 2010 dalla Fondazione Adriano Olivetti (I Quaderni della Fondazione / Collana Gli intangibili) nel dossier in cui sono state raccolte tutte le presentazioni del libro.
Con il titolo:
LA LEZIONE POLITICA DI ADRIANO OLIVETTI.
Conversazioni su: Costruire le istituzioni della democrazia di Sergio Ristuccia
Stefano Rolando
Costruire le istituzioni della democrazia è uno straordinario libro.
Straordinario perché tocca una delle corde più delicate della questione della formazione della classe dirigente italiana negli ultimi cinquant’anni. Perché riguarda la storia di un’azienda e del suo principale animatore nel quindicennio che va dal 1945 al 1960 che è stata la Olivetti e che è stato Adriano Olivetti, non il fondatore della Olivetti che invece era Camillo Olivetti, un signore dell’Ottocento che ebbe l’intuizione di fondare una moderna azienda guardando come in America avessero successo le macchine da scrivere Remington, e volle fare altrettanto, fabbricando una macchina da scrivere italiana.
E alla fine, l’Olivetti comprò la Remington.
Questo libro non parla dell’azienda, ma di Adriano Olivetti. E non di Adriano Olivetti come persona che attraversò le criticità dell’epoca, l’occupazione tedesca del Nord Italia – che tuttavia rispettò l’azienda, anche grazie al fondatore del Censis, l’ingegnere Gino Martinoli, fratello di Natalia Ginzburg, anch’egli di famiglia ebraica, riuscì a reggere la furia del tempo e a salvare l’autonomia dell’azienda che si era trovata ad essere strategica per il tempo. Gli uomini contano al di là delle loro storie.
Nella mia esperienza di, credo, ultimo direttore delle relazioni esterne della Olivetti prima che questa cambiasse definitivamente genetica, ricordo che nel 1995, insieme a Giuseppe De Rita, portai Gino Martinoli davanti ai dirigenti della Olivetti. Si alzarono tutti in piedi e lo applaudirono per quello che aveva fatto in un passaggio drammatico di questa azienda. Finito questo passaggio, arriva Adriano Olivetti.
Il libro non parla diquesta storia dell’azienda cui sono stati consacrati tanti libri. Parla di Adriano Olivetti e non perché egli, da una parte, aveva un’azienda e, dall’altra, faceva parte di una meta-azienda con cui convocava e teneva uniti gli intellettuali attraverso la sua capacità di essere azienda mecenate, di relazioni, azienda che promuoveva e teneva in vita le riviste, azienda che faceva ricerca attraverso la sua Fondazione. Di quella Fondazione Sergio Ristuccia è stato Segretario generale e quindi conserva memoria di questa azienda non tanto per la sua parte produttiva, quanto per la sua capacità di stare nella cultura della città, nel territorio, nel sociale. Dopo tanti anni – per questo dico percorsi lunghi, metabolizzazione – Sergio ci ha restituito questo racconto scientifico ma contemporaneamente appassionato e civile che si intitola: Costruire le istituzioni della democrazia. La lezione di Adriano Olivetti, politico e teorico della politica.
Credo che sia il miglior libro esistente oggi su Adriano Olivetti, insieme ad un’importante biografia, appena ripubblicata da Marsilio, scritta da Valerio Ochetto, giornalista d’inchiesta, televisivo e di carta stampata. Questo di Ristuccia non è un libro che rifà una biografia, ma traccia un percorso, una personalità che aveva i piedi nell’azienda, la testa nella società e gli occhi che scrutavano i bisogni di coesione e di coerenza tra il mondo del lavoro, il mondo sociale ed i destini di una comunità, di un territorio. Comunità è la parola cui Adriano Olivetti ha dedicato la propria attività politica, fondando un partito, presentandosi alle elezioni nel 1958. Un partito, ricordo, che diceva cose diverse dagli altri, parlava di sogni realizzabile ed era composto di persone per bene. Ne fu eletto uno solo, lo stesso Adriano Olivetti che si dimise e cedette il seggio al fondatore della sociologia italiana, il professore Franco Ferrarotti, che rimase la bandiera di quel movimento. Movimento che ebbe la stessa sfortuna di quello che è stato per certi versi un suo parente nel quadro politico dell’epoca, il Partito d’Azione, in quella stessa filosofia – più cristiano-sociale per Comunità e più laica per il PdA – post illuminista che riguardò una generazione italiana e che fu sconfitta sul piano elettorale, perché l’Italia era diventata ormai il Paese dei partiti di massa e non aveva più molta simpatia per queste formazioni di cultura prefascista, cioè per la politica fatta di idee che aggregava figure con un forte messaggio ed una forte testimonianza, in grado di prescindere dalla politica per vivere perché avevano già del loro. Il libro è un racconto analitico di questa costruzione di pensiero legata a quest’uomo, a quella stagione del Paese, in un’esperienza che non ha avuto molti voti, né molti deputati, ma ha comunque prodotto una classe dirigente che negli anni si è ritrovata dappertutto. Legata a Comunità o alla Fondazione Adriano Olivetti.
Non c’è persona che ha avuto successo, trasmigrata in campi e sistemi imprenditoriali diversi, dall’Eni alla Rai, che non si sia riconosciuta per un tratto in quella esperienza. Quindi, una straordinaria fabbrica di classe dirigente.
Tutto ha avuto una fine. Anche il marchio Olivetti, che oggi presidia una piccola società che fa macchine fotocopiatrici su licenza giapponese. E la società proprietaria, Telecom, non è stata capace di salvarla.
Ho fatto io un’ultima battaglia per convincerli a farne una fondazione per la cultura d’impresa, lasciando alla parola Olivetti la possibilità di continuare ad essere e a rappresentare quello che l’azienda Olivetti è stata, le aspirazioni che essa ha interpretato.
Certo per la mia generazione che si laureava alla fine degli anni Sessanta-Settanta, la Olivetti era il mito di un lavoro possibile, la prima azienda che i laureati avrebbero scelto per lavorare. Mito di un’azienda italiana, innovativa, costruita con attenzione al sociale.
La valutazione critica di questo libro di Sergio Ristuccia – che ha fatto parte delle alte magistrature amministrative del Paese, ha fatto un percorso importante nella Pubblica amministrazione, ha fondato e dirige una delle poche riviste di critica al sistema istituzionale che è Queste istituzioni, e che oggi presiede il Consiglio italiano per le Scienze Sociali – sarà introdotta ora da Stefano Sepe, storico della Pubblica amministrazione italiana, docente universitario, dirigente del CNEL.
Dando a Sergio Ristuccia un’occasione di racconto di questa sua straordinaria opera.
Stefano Sepe
Partirò da una piccola considerazione. Proponendo questo libro a Stefano Rolando, sapevo di essere stretto idealmente (e adesso anche materialmente, trovandomi tra i due): da un lato, dall’esperienza di Stefano Rolando all’Olivetti; dall’altro, dalla biografia professionale edIl libro di Sergio Ristuccia è un racconto analitico della costruzione di pensiero legata ad Adriano Olivetti, a quella stagione del Paese, in un’esperienza che non ha avuto molti voti, né molti deputati, ma ha comunque prodotto una classe dirigente che negli anni si è ritrovata dappertutto. Legata a Comunità o alla FondazioneAdriano Olivetti
La Olivetti era il mito di un lavoro possibile, la prima azienda che i laureati avrebbero scelto per lavorare. Mito di un’azienda italiana, innovativa, costruita con attenzione al sociale.
Tra i tanti percorsi possibili ne ho scelti tre: riforme-riformismo-riformatori; il federalismo; i rapporti tra politica e amministrazione Il federalismointellettuale di Sergio Ristuccia, e dalla sua esperienza di Segretario generale della Fondazione Adriano Olivetti, quando mi offrì le prime occasioni e collaborazioni di attività intellettuale con la sua rivista. Stefano Rolando ha offerto un quadro generale sul libro, la presenza di Sergio garantisce che ci sarà un momento di sintesi, il che permette a me di posizionarmi sulla scelta di sfiorare tre argomenti che dal mio punto di vista appaiono interessanti. Un libro di queste dimensioni e di questo peso interno meriterebbe i tempi di un seminario universitario, di tre quattro pomeriggi di discussione. Proviamo a stare nei tempi. Questa è certamente una biografia intellettuale ma è anche, allo specchio, la lettura di certi modi di essere che non ci sono più, di qualità che allora cercavano la propria strada nel raccordo tra il mondo d’impresa e le istituzioni pubbliche e che avevano, come cornice generale degli ordinamenti della convivenza, la politica. Sono rimasto molto colpito da una considerazione – molto breve e che si commenta da sola – che Sergio fa sull’idea che Adirano Olivetti aveva della politica (Nota di commento n. 3, p. 111): “L’idea che Olivetti ha della Politica è un’idea alta. Mai può essere assimilata a una tecnica. Chi si dedica alla Politica deve farlo con il massimo impegno, dunque un impegno prioritario se non esclusivo… Si può immaginare che in termini di etica Olivetti condivida il pensiero weberiano secondo il quale non si può agire in politica soltanto in base all'”etica della convinzione” senza considerazione dell'”etica della responsabilità”.” Proverò a tornare su questo punto alla fine delle mie considerazioni. Tra i tanti percorsi possibili ne ho scelti tre: riforme-riformismo-riformatori; il federalismo; i rapporti tra politica e amministrazione. Tutti letti alla luce del magistero di Adriano Olivetti. Dirò subito due parole sul tema del federalismo. Qui Sergio Ristuccia fa una considerazione folgorante, nell’ultima parte del volume. Nella prima parte, egli aveva ridisegnato l’idea che aveva Adriano Olivetti del federalismo e soprattutto dell’ordinamento regionale così come era previsto nella Costituzione e così come fu affossato dal patto politico dei primi decenni posteriori alla nascita della Repubblica. A p. 389 del volume, Sergio osserva che l”assetto regionale così come si è venuto configurando dagli anni Settanta in poi è “ben distante dal disegno olivettiano”. Questo è già un giudizio che pesa. Ma ancor più mi interessa richiamare la sua osservazione che attualmente ci sono confusi disegni che riguardano l’idea di un’Italia federale e che, se posso trarre io una conclusione, sono ancora più distanti da quel disegno, da quella costruzione di una organizzazione federale in cui lo Stato fosse vicino alle comunità locali ed alle collettività, con una stratificazione molto articolata, in Olivetti, del modo di intendere i servizi alla collettività. Sapete bene che questo tema è una delle chiavi di volta, assolutamente irrisolta dalle leggi degli anni Novanta, per rendere migliori servizi ai cittadini. L’altro tema che, seppure per ragioni diverse, mi è molto caro, è quello del rapporto tra la guida politica e l’amministrazione. Anche qui rinvio ai suggestivi e sintetici giudizi che Sergio dà di come l’idea dell’ordine politico – che è anche il titolo del libro di Adriano Olivetti riletto da Sergio – e il tema complesso della rappresentanza degli interessi attraverso strutture con funzioni di tipo parlamentare (in anni lontani, mi sono occupato del tentativo di riforma nel 1910 del Consiglio superiore del lavoro che è l’antesignano del Consiglio nazionale del lavoro, e di come all’epoca una Commissione parlamentare tentò di andare a fondo dell’idea di un Senato che invece di essere di nomina regia e vitalizio come era all’epoca fosse di rappresentanza professionale) è un tema antico e che però ancora non si riesce a risolvere in maniera soddisfacente. Dietro e al di là dio questa difficoltà, ci sono questi due giudizi di Sergio che mi pare opportuno richiamare, quando parla (p. 407) di “stucchevole ritornello sulla riforma della pubblica amministrazione che sarebbe sempre da fare. Un ritornello che è frutto di superficialità e pigra ignoranza di politici ed opinionisti, mentre quel che è da fare consiste innanzitutto nel verificare le ragioni degli esiti insoddisfacenti se non talvolta perversi di varie “riforme”.” Ci si riferisce in generale alle riforme amministrative di questi ultimi anni, ma soprattutto al rapporto tra governo politico e guida degli apparatipubblici, il rapporto tra chi ha la responsabilità politica e chi invece è chiamato a guidare le istituzioni pubbliche come macchina. Il terzo tema, riforme-riformisti-riformatori l’ho messo in coda perché ho appena finito di richiamare l’esito insoddisfacente delle riforme di questi anni. A me pare che Adriano Olivetti sia uno dei pochi nella nostra storia nazionale che incardini due cose che difficilmente stanno insieme: il riformista inteso – spero di non avere travisato l’idea che Sergio ha di Olivetti e della parola in generale – come colui che è sorretto da un ideale, ed il riformatore, ovvero colui che davvero riesce a cambiare le cose, fa qualcosa o pone le condizioni perché le cose cambino e si modifichino in un certo modo. La sintesi tra l’essere idealmente riformisti e riuscire ad essere veramente riformatori è un caso raro che nel nostro Paese va cercato con la lanterna di Diogene. Ce ne sono e sono accomunati da un filo rosso su come dare un ordine diverso alla società ed alla comunità, parola-chiave del pensiero e dell’azione di Adriano Olivetti. Credo che questa sia la lezione fortissima sulla quale provare a tornare. Mi permetterete una breve citazione di Adriano Olivetti, nella quale cogliere il nesso tra la condizione ideale di riformista e la capacità concreta di riformatore: “In questo dopoguerra la politica italiana non ha voluto […] accettare il metodo scientifico e con esso moderne tecniche nella pianificazione urbana e rurale; non ha voluto né potuto dar luogo ad audaci e preveggenti piani regolatori, onde le nostre città stanno impaludando in un caotico disordine. L’urbanistica chiamata in causa alla undicesima ora, non vi giunge privilegiata come il lavoratore del Vangelo, ma degradata, ridotta a ispiratrice di piccoli provvedimenti di politica civica per regolare la circolazione stradale.” (p. 316) Ecco come l’ideale riformista si riduce all’incapacità di essere veri riformatori. Chiudo con un giudizio di sintesi. Sergio fa notare come normalmente di Adriano Olivetti si sia detto che era un geniale imprenditore ma un visionario politico. Invece, Sergio Ristuccia non condivide questa idea e ricorda come Vittorio Mortara abbia posto Adriano Olivetti fra i protagonisti dell’intervento pubblico in Italia. Sperimentò attraverso Comunità forme diverse di democrazia partecipata. Se dovessi chiudere con una battuta fulminante, direi che il libro si chiama Costruire le istituzioni della democrazia; non so se Sergio la pensa come me: siamo in tempi difficili nei quali il problema sta diventando quello di impedire la demolizione delle istituzioni di quella fragile ma cara cosa che è la democrazia.
Stefano Rolando
Una domanda provocatoria a Sergio per iniziare il dialogo con lui.
Stiamo parlando di una grande personalità la cui azienda è andata a rotoli, la cui città di radicamento campa oggi grazie ai supermarket, il cui movimento politico si è perso prima nel disastro elettorale e poi nel vuoto politico delle risposte a quelle sollecitazioni. Una sconfitta definitiva?
Sergio Ristuccia
Da quest’ultima provocazione posso prendere le mosse.
Innanzitutto, capitano nella storia vicende particolari di cui vanno ricordati i fatti: l’Olivetti era un’impresa in grande espansione mondiale ed oggi è un marchio italiano che non è più attivo, ma di cui si ha una memoria fortissima, in grado di aprire le porte all’estero, come ho verificato nella mia esperienza di Segretario generale della Fondazione che, pur non avendo un rapporto organico con l’azienda, godeva di uno straordinario capitale di relazioni in virtù del marchio.
Questa impresa era molto ben governata da Adriano Olivetti imprenditore che non a caso aveva tra i suoi libri quelli di Schumpeter e coltivava la sua idea dell’imprenditore innovatore. Poi Adriano muore all’improvviso, pochi mesi dopo l’operazione di acquisizione della società americana di macchine da scrivere Underwood, un’operazione difficile, costosa. Di qui iniziano i problemi.
Difficilissimo, infatti, sostituire Adriano e difficile affrontare ilproblema dei costi, che non staremo qui ad approfondire. Nella storia di una simile esperienza di forte e radicato successo, non solo in Italia ma all’estero, di un’azienda come la Olivetti, capitano vicende improvvise che impongono una discontinuità per certi versi drammatica per le sorti dell’azienda stessa.
Mentre l’olivettismo come capacità di governo e di cultura adrianea – come l’ha chiamata qualche studioso – è riuscito a durare qualche altro anno, perché c’è stato un gruppo di manager della Olivetti che erano stati ben formati. Morto Adriano nel 1960, la società Olivetti entra in crisi. Con il caso della Olivetti misuriamo che cosa è stata (e speriamo non sia ancora oggi) l’azione di un gruppo di intervento guidato da Fiat su suggerimento di Cuccia e Mediobanca nel 1960. Riunita l’Assemblea degli azionisti nel 1964, Valletta fa un discorso che dice, citando a memoria, che l’impresa Olivetti è solida, ma ha un neo da estirpare: l’elettronica. Un episodio largamente trascurato, ma che ho ben evidenziato perché la dice lungasul contesto italiano dell’epoca e sull’errore fatto con la vendita del ramo dell’elettronica.
Adriano Olivetti, nel discorso del 1954 agli operai di Pozzuoli, aveva detto che il momento di crisi che stavano attraversando sarebbe stato compensato dai successi nel campo dell’elettronica, in cui la Olivetti era seconda solo agli Stati Uniti. E nei fatti, nel 1959, pochi mesi prima della morte di Adriano, la Olivetti presenta i primi due calcolatori di fabbricazione italiana, gli Elea, avrebbero potuto essere i prototipi di una successiva, grande generazione di calcolatori italiani, ma così non è stato. L’elettronica di allora era quella dei calcolatori che sostituivano la meccanica dei calcolatori elettromeccanici, erano gli esordi di una storia industriale che oggi arriva ad Internet. Ciò di cui viviamo tutti i giorni, attraverso le novità tecnologiche prodotte per lo più negli Stati Uniti. E che Olivetti aveva iniziato a sviluppare anche in Italia.
Questo caso suggerisce uno spunto fondamentale che è nel mio libro. Il tema della democrazia, oggi legata strettamente al disegno territoriale delle istituzioni, deve fare i conti e necessariamente integrarsi con il portato tecnologico della Rete che oggi serve a tutto, tranne che alla democrazia. Nelle sei pagine dell’epilogo del libro, allora, richiamo e metto in collegamento questi due elementi: Adriano Olivetti che aveva intuito, primo in Italia, l’importanza dell’elettronica, e la sua precisa attenzione a costruire le giuste istituzioni della democrazia, che non è la democrazia per tutto e per tutti, ma che va curata con le opportune distinzione e realizzata al di là del retaggio bicentenario nell’immaginario collettivo sul sistema della democrazia come sistema esclusivamente parlamentare.
Un modello logorato che il messaggio di Olivetti, opportunamente rivisitato e collegato alle opportunità tecnologiche che oggi abbiamo – non si può dire che Olivetti ne avesse intuito gli sviluppi, ma certo capiva e sottolineava costantemente l’importanza per la democrazia di governare i processi tecnologici ed il loro sviluppo – deve e può essere ripensato. Continuando a ragionare per sviluppare un pensiero che recuperi le idee di una democrazia diffusa nei limiti del possibile – molte cose si possono fare – utilizzando questi strumenti.
Questo è il messaggio che viene da una rilettura di Adriano Olivetti e della sua statura intellettuale ed imprenditoriale. È un epilogo suggeritomi da alcuni amici che hanno letto il primo manoscritto e mi chiedevano se e come era possibile recuperare Adriano Olivetti e le sue tante suggestioni. In questo recupero, la mia fedeltà intellettuale ad Olivetti è passata per i filtri della mia esperienza di uomo delle istituzioni pubbliche, aggiungendo spunti e prospettive.
Stefano Rolando
Olivetti sarebbe oggi definito un pensatore glocal, perché uomo legato al territorio sul quale confeziona risposte e soluzioni concrete, con lo sguardo al mondo perché è su di esso che misura le sue preoccupazioni ed azioni. Piero Bassetti ha seguito questo modello e infatti non si misura sulla nazione, la sente come una dimensione limitata rispetto a questo modo di essere locale e stare nel mondo. Forse Olivetti è uno dei pochi precursori della modernità o la sua esperienza è così datata da non superare le vicende del dopo-gue
rra?
Sergio Ristuccia
Sicuramente la rappresentazione della comunità di Adriano Olivetti supera la logica localistica, al di là di quanto abbia sentimentalmente amato la sua comunità, il suo Canavese che servirà poi da modello e da sperimentazione. La sua teorizzazione della comunità porta sempre sullo sfondo una rete, un sistema allargato al mondo. Il suo federalismo è un disegno coeso che non lascia fuori nulla. Nel 1943, quando scrive L’ordine politico delle Comunità, Olivetti sentiva tutto il disagio del negare la storia risorgimentale. Forse anche perché piemontese, sentiva questo imbarazzo, ma proseguì nell’opera di teorizzazione, ad esempio, dello Stato
Stefano Rolando
Adriano Olivetti senza eredi?
Sergio Ristuccia
Nomi e cognomi non ce ne sono. In questa sua originalità, nel mondo dell’impresa, del mondo politico, dell’intellettualità, non ce ne sono e non ne vedo. Del suo pensiero, invece, esistono potenzialità di diffusione e sviluppo molteplici.
Stefano Sepe
Questo grande tentativo di ripercorrere una grande storia intellettuale che è anche un po’ autobiografia, pone il problema forte del rapporto delle istituzioni da un lato e delle imprese dall’altro. Come creare un sistema di integrazione delle due, di reciproca fiducia?
Sergio Ristuccia
Nella versione olivettiana – che è fuori dalla dicotomia stretta Statomercato, e che è sensibilissima a quello che oggi chiameremmo Terzo settore o impresa sociale – la questione che tu poni trova teorizzazioni non sempre facili da interpretare se si resta alle coordinate mentali classiche.
Per esempio, Adriano è stato l’iniziatore della cultura delle fondazioni in Italia, non perché poi le abbia fatte, ma perché erano nel suo progetto – anche se incerto sul tipo da realizzare. Egli era profondamente colpito ed affascinato da alcune esperienze di grandi fondazioni di origine industriale, come la Carl-Zeiss-Stiftung che era il suo punto di riferimento. Secondo il suo pensiero, questi modelli potevano essere ulteriormente sviluppati e ne ha scritto in due pagine che vanno rilette oggi che di fondazioni si parla tanto.