Senso di marcia (Interventi su orientamenti attività Circolo De Amicis, Milano – 2 e 18 maggio 2012)

Senso di marcia
 
Stefano Rolando
 
Il punto di partenza
Qualche considerazione [1] sul senso di marcia che ha e che potrebbe avere l’iniziativa di fare rete e circolo di cultura politica attorno all’esperienza storica svolta dal De Amicis, partendo dallo spirito e dai convincimenti che hanno animato una diversa ma convergente partecipazione alla campagna elettorale di Pisapia Sindaco e al successo che essa ha fatto registrare.
Quando si dice “modello Pisapia” o – sentendone parlare altrove, soprattutto nelle recenti elezioni amministrative – di “modello Milano” si fa sostanzialmente riferimento ad una esperienza partecipativa larga, più larga di ciò che l’onda di antipolitica crescente avrebbe fatto immaginare. Una esperienza che ha al tempo stesso rispettato e criticato i partiti politici tradizionali, incalzandoli e discutendone ruolo e funzioni, portando alla fine soluzioni di rappresentanza e di governo a profilo paritario: metà espressione di partiti che in larga coalizione hanno sconfitto il centrodestra, metà espressione di diversi contesti di “società civile” che si sono svegliati e hanno concorso a dare idee, energie sociali, persone alla cura di ciò che chiamiamo “interessi generali”.
A un anno da quel successo è evidente che l’azione amministrativa ha assorbito molte energie confrontandosi con un tema ben noto: ai cittadini interessa la buona amministrazione, se le cose non funzionano, se i servizi non migliorano alla fine anche il modello politico che ha avuto il consenso torna ad essere degradato al giudizio ormai diffusamente negativo che i cittadini hanno della politica e dei partiti. E tuttavia l’amministrazione non è tutto. Il bisogno che quell’esperienza – nel mezzo ancora di un senso di disgusto e di riluttanza generale – aveva fatto emergere riguardava più ampiamente “la politica”, cioè un bisogno civile primario di interessarsi all’andamento generale, alla corrispondenza tra realtà e interpretazione della realtà, al bisogno di portare un’opinione costruttiva al disegno partecipativo generale che va al di là dell’esperienza amministrativa e investe una città, un territorio, un paese, una storia.
Siccome la slavina generata a Milano alla fine ha modificato anche il contesto politico regionale e nazionale (e ora – indipendentemente da Milano – possiamo dire che anche l’Europa è in largo movimento) è evidente che quel bisogno di partecipazione politica investe una proiezione vasta e generale. Come è lo spirito che anima coloro che, sentendosi cittadini del mondo, vogliono portare il loro pulviscolare contributo al miglioramento del mondo stesso.
Ciò che ha aggregato persone tendenzialmente non iscritte a partiti (alcuni sì, ma nessuno ha chiesto loro conto di opinioni e tessere di partito) a ritrovarsi nelle opportunità di incontri e relazioni organizzabili nell’ambito di uno storico circolo riformista di Milano, sta proprio nella larga percezione – che lo stesso Giuliano Pisapia ha generato per cercare una cornice ampia di riferimento – di una storia collocata per differenza tra il diffuso massimalismo e il diffuso conservatorismo e che si chiama riformismo perché – da molto tempo –  per alcuni la logica del “tanto peggio tanto meglio” non deve prevalere e soprattutto si devono cercare soluzioni possibili e compatibili per migliorare in concreto le condizioni di vita della società.
Attorno a quel riformismo nessuno ha fatto analisi del sangue o prove teoriche di ammissione. Ma ciò ha permesso di avvicinare sensibilità diverse attorno alla preoccupazione che ciò che di nuovo e di buono era sorto a Milano, in controtendenza con anni di derive, si mantenesse e crescesse a favore anche di una più vasta comunità. E per le responsabilità generali che Milano (città che accoglie largamente cittadini dall’Italia e dal mondo e li mescola storicamente in condizioni di buona integrazione) avverte per il “fuori da sé” anche con il pensiero di dare un contributo appunto “fuori da sé”. Abbiamo cominciato a discutere con la doppia finalità di incalzare la nostra stessa amministrazione a dare risultati e a ragionare sull’evoluzione generale della politica per non chiuderci nell’idea che la realtà che ci riguarda stia solo dentro le mura spagnole.
 
Gli ambiti di partecipazione
Ora dobbiamo distinguere l’evoluzione di una forma di partecipazione che si sta sviluppando sostanzialmente fuori dai partiti tradizionali e quindi alla ricerca di regole e modi che non sono abituali e codificati. Anche questo è un “cantiere democratico” importante.
Da un lato ci sono coloro che sono stati chiamati professionalmente a svolgere ruoli nella comunità tecnico-politica dell’amministrazione civica. Il loro problema è far funzionare un apparato complesso, assolvere a competenze, dare servizi ai cittadini. Sono anche retribuiti per questo scopo. Non sono estranei al “fare politica”, ma il “fare politica” ha degli evidenti limiti connessi a mansioni istituzionali e connessi a far conseguire un risultato complessivo che è importante ma che non esaurisce il problema politico. Anzi. In questo ambito – fatta eccezione per la figura stessa del sindaco, che ha un carattere di sintesi simbolica generale – non è neppure collocabile una vera e propria guida politica di un movimento partecipativo che non deve risolversi nel “sostegno” all’amministrazione civica. Ma deve partire da lì per traguardare oltre. In quell’oltre si disegnano – a un anno – tre diversi ambiti.
Il primo è costituito dall’evoluzione di quei comitati territoriali che hanno come principale interlocutore l’articolazione del decentramento amministrativo, che continuano l’esperienza partecipativa di base. E’ un’area che poggia sulla capacità di esprimere e valorizzare diritti, che costruisce pratiche di ascolto, che riconduce alla qualità dei servizi e delle condizioni sociali larga parte delle riflessioni e dei contenuti dell’organizzazione dei momenti collettivi. Risponde a culture politiche complesse, che in senso lato riflettono la storia di una “sinistra” trascurata spesso anche dai partiti tradizionali della sinistra.
Il secondo è costituto dall’evoluzione della lista civica che ha ritenuto, nella campagna elettorale, di esporre profili “nuovi”, spesso di giovani, attorno a una idea più trasversale e meno partitizzata della partecipazione politica, con lo scopo di sollecitare il voto e il consenso dei cittadini per quella opzione. Ha una rappresentanza in consiglio comunale e si è costituita in associazione per mantenere vive le istanze. Non sono al corrente strettamente di come evolva questo “presidio” che per sua natura tuttavia dovrebbe mantenere viva la tensione elettorale e comunque l’organizzazione del consenso.
Il terzo è l’ambito di adesione spontanea di cittadini che si riconoscono in quel che chiamiamo abitualmente “società civile”, tendenzialmente operatori, professionisti, docenti, figure che hanno dato già contributi alle istituzioni e alla politica, espressione in senso lato di quella “borghesia cittadina” che ha riproposto nella campagna elettorale l’opzione ad un dovere di non aspettare che la politica faccia da sola ma – come ha spesso detto Piero Bassetti interpretando questo tema – non considerando la società civile come un soggetto contro la politica ma come un soggetto che fa anch’essa politica. Nel corso della campagna elettorale questo ruolo è stato assolto dall’organizzazione – pur se molto informale – di un movimento detto dei 51 (dal primo nucleo che lo ha costituito) che, una volta dato il contributo di spostare elettorato (dall’astensione o da altre opzioni) verso il cambiamento ha ritenuto di non organizzarsi formalmente lasciando la sua rete in forma “nebulosa” ad un principio di consultazione e di disponibilità solo di carattere generale. In quell’ambito il Circolo De Amicis – che è stato luogo di momenti salienti dell’espressione di quell’esperienza nella campagna elettorale – ha raccolto un po’ il testimone proponendo una prima rete di cittadini disponibili a una forma più stabile di partecipazione. Potremmo dire che questo ambito ora – rispetto al tema dei diritti e dei consensi promossi dagli altri ambiti – dovrebbe essere quello che raccorda e valorizza il tema dei valori.
In effetti questi ambiti si sviluppano senza una vera e propria regia – che sarebbe molto difficile attuare – e senza un chiaro coordinamento che dovrebbe anche misurarsi con le evidenti differenze e per alcuni versi anche con conflitti, che comunque finora hanno trovato sintesi nella modalità di rappresentare questioni generali e approcci generali che il sindaco di Milano ha saputo tracciare, con prudenza e con riconosciuta modalità di superare antiche rissosità ideologiche e antiche separatezze generate dal modo di fare politica diciamo del ‘900.
Sappiamo che molti temi sono aperti, ma abbiamo pensato che il nostro stesso aggregarci in alcune differenze e diversità aiutasse a sviluppare quello che qui è stato chiamato un “nuovo paradigma”.
 
Gli scenari attorno
Fin qui i punti di partenza. Ma che, colti e condivisi, ci aiutano a collocarci e a riconoscere le parti di una missione più generale che da questa città sta provando a operare attorno a quel “nuovo paradigma”. Come qualcuno sa, ho provato in questo periodo a raccogliere in un libro di prossima uscita [2] alcune idee attorno all’espressione “buona politica”, un leit-motiv della campagna elettorale,  per tracciare meglio l’idea che nel cantiere di chi vuole in Italia recuperare il deficit di democrazia non c’è solo l’attesa di una poco probabile autoriforma dei partiti e di esiti – ancor più difficili – della missione riformatrice del governo Monti, ma ci sono anche i cambiamenti di importanti comunità territoriali, di cui quella milanese – per la natura e il peso della città – è a carattere esemplare. E deve quindi inserirsi di più nel dibattito nazionale perché anche il lavoro di questi mesi al Circolo ha fatto sentire, anche da fonti diverse, che se la ripresa ci sarà ripartirà da qui, che nell’evoluzione della democrazia conteranno ancora i partiti ma conteranno soggetti sociali e associativi nuovi, che le comunità urbane e territoriali sono investite di un rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini che tiene di più, eccetera, eccetera.
Abbiamo parlato di recente della questione regionale. E’ un chiarimento ancora difficile perché non è chiaro se il traguardo sarà quello naturale del 2015 o se l’erosione già potente del blocco politico che guida oggi la Regione evolverà in modo più netto così da anticipare le elezioni nel 2013. Siamo di fronte finora a una modestissima, frammentata e poco innovativa offerta di politica alternativa da parte dei partiti oggi rappresentati. E sappiamo che la saldatura delle sorti tra Milano e il suo territorio regionale (politicamente non omogenei, tra l’altro) è essenziale per fare di questo polo territoriale un soggetto decisivo per le sorti stesse del paese. Tra chi guarda al sistema paese e chi non ci guarda più, pensando piuttosto a coerenze interne al nord o a raccordi territoriali italo-europei (volendo superare almeno l’entropia leghista).
Credo che abbiamo la responsabilità di promuovere intanto un esame attento delle condizioni del cambiamento possibile, studiando la realtà politico-elettorale e soprattutto i dossier tematici più importanti. E credo che dovremmo sviluppare presto alcune proposte non di esportazione del “modello Pisapia” ma di verifica delle condizioni di crescita di fattori di partecipazione civile e sociale diversa da quella strettamente organizzata dal sistema dei partiti. 
Quanto allo scenario nazionale ha ragione chi dice che l’evoluzione è quotidiana, cambiando ora per ora i connotati delle condizioni. E ha ragione chi si va sempre più preoccupando della continuità della crisi che taglia le gambe a ipotesi di ripresa. Ma resta il nodo della necessità di fare affiorare di più e meglio il peso di questa comunità – non solo economico-finanziaria, ma anche politico-culturale – nel dibattito attuale sull’evoluzione della crisi e sulla configurazione di ipotesi diverse per stare dentro e non fuori da una prospettiva di democrazia.
Dal mio punto di vista, per quanto si mantenga viva la nostra “indignazione” non possiamo andare dietro alle spinte – in sé comprensibili – di indignazione tesa a scetticismo generalizzato mescolato a massimalismo generico. L’opzione “riformista” qui significa credere che la visione della componibilità di alcuni conflitti comporti lotta, passione, studio e negoziato.
Ora  la cornice in cui avviene questo negoziato è quella offerta dal governo Monti. Esso contiene tutte le politiche e nessuna politica. Per la propria natura e per la propria composizione. Ma ci  devono essere margini e spazi per cui porre in essere un dialogo su alcune istanze di cui siamo portatori e che questa città esprime con rilievo nazionale e internazionale. Ce ne è abbastanza per immaginare che, nel rispetto del ruolo di rilegittimazione del paese che Monti sta svolgendo, su alcuni nodi di fragilità e di incertezza (fragilità e incertezza anche del governo, che non le sta imbroccando tutte), noi (e per noi inevitabilmente dobbiamo immaginare in particolare la voce del sindaco che si esprime in alcuni momenti e alcuni contesti) si possa agire facendo scelte di agenda, di iniziativa, di parola, per alzare lo spessore di quel negoziato. E in vari casi ciò non comporta nemmeno il ruolo attivo del sindaco ma la connessione tra segmenti della nostra comunità con chi si muove nel quadro nazionale e internazionale. Lo abbiamo già fatto. Dobbiamo farlo di più. Dobbiamo scegliere alcuni temi vitali per il futuro stesso di Milano e metterli nell’agenda di queste relazioni. Dobbiamo incalzare tanto il governo Monti e gli interlocutori che ci scegliamo quanto il sistema dei partiti (da non dare per morto ma nemmeno da dare per solutore).
E dobbiamo anche spingere i soggetti della rappresentanza – cioè l’associazionismo degli interessi – a non chiudersi nei loro soli interessi ma a guardare al ruolo dei soggetti produttivi e sociali come una componente delle soluzioni del negoziato.
Infine vi è lo scenario europeo. Qui – alla faccia del pur vero declino dell’Occidente e della modestia di rappresentanza politica attuale dell’Europa (a cui anche l’Italia ha purtroppo concorso) – dobbiamo vedere che alcuni cambiamenti in atto vanno verso la ripresa di una politica sociale, meno subordinata ai poteri finanziari e vanno verso una valorizzazione del ruolo delle comunità territoriali nel tenere salde le prospettive democratiche nell’idea stessa della politica. Si apre un’agenda relazionale legata al recupero di una visione federale dell’Europa che è parte di una cultura politica che è stata tradita ma che non è morta e che porterebbe oggi alle anomalie italiane qualche risposta di senso su cui tornare a riflettere.


[1] Intervento alla riunione promossa al Circolo De Amicis a Milano il 18 maggio 2012 convocata per discutere gli orientamenti politici della rete di sostegno all’esperienza Pisapia, anche fuori dall’ambito cittadino. Sono qui unite anche alcune considerazioni svolte nel corso della riunione precedente (2 maggio 2012).
[2] La buonapolitica. Cantiere Milano-Italia, prefazioni di Giuliano Pisapia e Fabrizio Barca, ed. Rubbettino, in libreria ai primi di giugno 2012