Sei giovani economisti giudicano i programmi Bersani e Renzi (Europa.it)

Europa.it quotidiano
 
4 ottobre 2012

Bersani-Renzi, programmi a confronto
In vista delle primarie abbiamo chiesto a un gruppo di economisti tra i trenta e i quarant’anni di mettere a confronto la Carta d’intenti di Pier Luigi Bersani, che sarà sottoposta a tutti i candidati delle primarie, e il “programma” di Matteo Renzi.
3 ottobre 2012
Troppe tasse, dem d’accordo
Se c’è un merito del pre-dibattito nelle pre-primarie del centrosinistra sta nel fatto che il fisco è di nuovo al centro delle divisioni dei democratici. Tra la proposta di Renzi, il richiamo della Carta di intenti di Bersani e il referendum del Pd sulla riforma fiscale proposto da Prossima Italia e Civati ci sono differenze. Ma il tratto comune è distintivo: i democratici hanno riscoperto che le tasse sono troppo alte. Questo fatto non è da trascurare. L’ultima volta è stato in occasione della riduzione del cuneo fiscale di Prodi e sappiamo come è finita. Buona parte della sinistra italiana crede nell’intervento pubblico per redistribuire reddito e opportunità, non nella piccineria di un’aliquota fiscale. Questa prospettiva ha ritardato il riconoscimento dello straordinario fallimento del sistema fiscale italiano. Il dibattito è quindi ottimo ma, per approfondire le proposte dei due candidati, ricordiamoci il contesto.
Secondo i dati Ocse 2010, in Italia la pressione fiscale è più alta di Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e degli Usa. Siamo soprattutto quelli che tassano di più i lavoratori e le imprese. La scelta italiana di gravare sul mondo sul lavoro ha due aspetti sottovalutati. Il primo è che le aliquote dell’Irpef sono cresciute dal 1975 ad oggi, come osserva Sandro Brusco di “Fermiamo il Declino”. Chi oggi guadagna 10mila euro lordi all’anno paga un’aliquota marginale al 23% mentre nel 1975 pagava per un reddito equivalente il 13%. Chi sta sui 30mila euro paga il 38% mentre nel 1975 solo il 25%. Chi arriva a 50mila euro paga sempre il 38% mentre nel 1975 era al 32%. Il secondo aspetto è che 4 italiani su 5 dichiarano meno di 26mila euro lordi all’anno (2007, Agenzia delle entrate). 26mila euro è ovviamente un falso. A questo falso, i democratici italiani hanno quasi sempre risposto – eccetto che con Visco – con la retorica delle regole.
In un’Italia divisa in due, tra evasori fiscali di professione e produttori onesti oberati da un sistema fiscale vessatorio c’è lo spazio politico del Partito democratico. I due candidati lo hanno capito, anche se sospetto che in Renzi il livello di consapevolezza sul tema sia maggiore. La sua proposta è di ridurre le tasse (detrazione) di 100 euro a chi guadagna meno di 2000 euro netti al mese. Così il lavoratore dipendente riceverebbe 100 euro in più al mese. Il problema di una detrazione che dipende da un livello di reddito è che aumenta l’aliquota per chi lo supera. Con questa proposta, chi supera la soglia dei 2000 euro, magari perché riceve un tanto agognato aumento, perderebbe la detrazione o se la vedrebbe ridotta, venendo a quindi a pagare su questo aumento una doppia tassa: il 38% e la riduzione della detrazione. Bersani invece non ha ancora una proposta precisa che vada oltre l’affermazione di ridurre le tasse sul lavoro. Il responsabile economico Fassina però ha ricordato su l’Unità che il Partito democratico ha già proposto nel 2010 una detrazione per tutti i contribuenti. Questa ha il merito, al contrario della proposta di Renzi, di includere anche i lavoratori autonomi. È però carente sotto il profilo della copertura finanziaria: non è chiaro dove si interverrebbe per reperire le risorse. Renzi è invece chiaro che partirebbe dalla riduzione degli acquisti e investimenti pubblici.
La semplicità aiuta la giustizia e, se c’è una cosa che in Italia semplice non è, sono le tasse. Le due proposte vanno nella direzione giusta di ridurre le tasse ma non hanno il merito della semplicità. Non sarebbe meglio se i candidati si impegnassero a ridurre le aliquote Irpef? La proposta è quella del referendum Pd proposto da “Prossima Italia”.
Se i candidati sono interessati a ridurre le tasse, vale la pena partire da lì e dividersi invece su come finanziare questo taglio. La cosa più rivoluzionaria che si può fare oggi in Italia è decidere di premiare i cittadini responsabili.
Se questa non è la natura del Partito democratico, non credo di aver capito che cosa questo progetto significhi.
Filippo Taddei
Johns Hopkins University, ftaddei@johnshopkins.it
 
 
 
4 ottobre 2012

Renzi e le tasse, un po’ di dubbi
I temi del fisco e dell’evasione sono trattati sia nella Carta d’intenti presentata da Bersani sia nel programma di Renzi, con obiettivi in parte simili ma con prospettive e contenuti alquanto diversi. In entrambi i casi si ipotizzano manovre fiscali a favore «del lavoro e dell’impresa» (la Carta d’intenti) ovvero «dalla parte di chi lavora e intraprende» (il programma di Renzi). Tuttavia, mentre la Carta bersaniana indica con una certa chiarezza da dove attingere le risorse necessarie allo spostamento del carico fiscale, ovvero «i grandi patrimoni», il programma di Renzi cita una serie di misure atte dichiaratamente a «rifondare il rapporto fra gli italiani e il fisco». Nel primo caso, quindi si prospetta, per quanto in termini generici, una riforma sostanziale, nel caso ci si concentra su aspetti procedurali.
L’idea di tassare maggiormente i grandi patrimoni è fondata non solo da un punto di vista equitativo (come la Carta sottolinea) ma anche da quello dell’efficienza, perché la tassazione dei patrimoni (soprattutto di quelli immobiliari) ha conseguenze meno negative per la crescita economica rispetto alla tassazione del lavoro e dei profitti. Qui il problema sarà, eventualmente, quello di definire i dettagli, posto che il governo Monti ha già agito in modo profondo sui patrimoni immobiliari, introducendo l’Imu, e in modo meno visibile ma comunque di un certo spessore sui patrimoni finanziari (attraverso la rimodulazione di una serie di imposte di bollo e l’uniformazione delle aliquote sulle cosiddette rendite finanziarie). Sarà interessante capire se la proposta di Bersani è quella di proporre un’unica imposta patrimoniale omnicomprensiva oppure, più plausibilmente, di introdurre forme di tassazione patrimoniale aggiuntiva, magari solo sui patrimoni maggiori, sul modello francese dell’Isf. In questo secondo caso, tuttavia, l’incremento di gettito atteso è minore: se anche fosse destinato alla riduzione del cuneo fiscale (cosa tutta da verificare, stanti i vincoli di finanza pubblica) si tratterebbe di un intervento limitato. Ma qui occorre rilevare che la Carta d’intenti immagina di tutelare il lavoro attraverso un’ampia gamma di interventi, non solo quello fiscale.
Le proposte di Renzi finalizzate alla “rifondazione del rapporto” tra fisco e cittadino, sono in effetti tese a snellire le procedure di trasmissione dei dati e delle dichiarazioni (sia da parte degli individui sia da parte delle imprese), a semplificare gli adempimenti tributari partendo dalle proposte degli Ordini dei commercialisti e a re-introdurre forme di concordato preventivo sul reddito d’impresa. Si tratta di proposte in buona parte già discusse in passato e accantonate per (peraltro superabili) problemi tecnici, come nel caso dell’invio delle dichiarazioni pre-compilate, oppure già sperimentate con esiti perlomeno dubbi (come nel caso del concordato preventivo). L’idea di creare fiducia nel rapporto fisco-cittadino è certamente giusta ed è vero che esistono diverse esperienze internazionali al riguardo, ma le proposte avanzate da Renzi non sembrano così radicalmente rivoluzionarie. Tra l’altro, il programma di Renzi in questa parte sembra dimenticare il fatto che l’amministrazione finanziaria italiana è una tra quelle che più utilizzano l’informatica al mondo.Infine, non mancano in entrambi i documenti i riferimenti alla «lotta all’evasione fiscale». Nella Carta ci si ferma lì, senza entrare nel merito dei provvedimenti che in questi 15 anni hanno dimostrato di funzionare, come evidente quando si analizzano le serie storiche sull’evasione dell’Iva. Nel programma di Renzi, invece, non solo non si entra nel merito di questa analisi, ma ci si riferisce alla «fredda burocrazia» di Equitalia, ignorando che proprio i miglioramenti di efficienza conseguiti con la pubblicizzazione della riscossione hanno contribuito in maniera determinante al recupero di evasione osservato nel recente passato.
Università di Milano Bicocca

5 ottobre 2012

Politica industriale sì ma come?
L’economia reale, che è fatta di persone, famiglie e imprese, si è presa una bella rivincita morale dopo gli anni del dominio dei “castelli di carta”. La manifattura, in particolare, sta tornando ad avere il posto che merita nell’agenda di policy in tutti i principali paesi dell’Occidente. È visibile, questo mutamento di attitudine, nelle piattaforme programmatiche con le quali Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi si presentano alle primarie del Partito democratico? La risposta è sì: entrambi parlano diffusamente di imprese e crescita, sebbene con toni e accenti diversi, com’è naturale che sia vista la loro storia personale. Il primo è stato un apprezzato ministro dell’industria (poi, attività produttive) nei due governi Prodi, oltre che presidente di una regione – l’Emilia Romagna – che resta uno dei capisaldi delle produzioni made in Italy. Insomma, se è consentito usare una metafora sportiva (e nello sport il rispetto e il fair play sono la regola), Bersani gioca in casa. La domanda, a questo punto, diviene: saprà sfruttare il fattore campo? Se è vero, com’è vero, che l’Italia dopo la Germania è la seconda manifattura d’Europa, ricade su tutta la classe dirigente una responsabilità supplementare, che è quella di coltivare i semi buoni che vi sono nella manifattura italiana, di farli maturare pienamente: dal raccolto trarrà giovamento l’intero paese. E ciò per un insieme di motivi: la manifattura, quando sta al passo con la tecnologia, è un’attività economica con un elevatissimo ritmo di crescita della produttività; è capace di assorbire capitale umano di qualità (ingegneri, in primis); dà luogo a filiere sempre più internazionalizzate, ove un ruolo importante è quello giocato dai servizi alle imprese, anch’essi terreno d’elezione per giovani talenti.
Ora, «Italia, bene comune» – la Carta d’intenti del Pd – affronta questi temi al paragrafo “sviluppo sostenibile”, che – si argomenta – «per noi vuol dire valorizzare la carta più importante che possiamo giocare nella globalizzazione, quella del saper fare italiano». Proseguendo con la necessità di «ridare centralità alla produzione», la carta giunge al punto-chiave della «politica industriale», definita «integralmente ecologica». Da qui a un «progetto paese che individui grande aree di investimento, di ricerca, di innovazione verso le quali orientare il sistema delle imprese nell’industria, nell’agricoltura, nei servizi», il passo è breve. Le macroaree identificate (mobilità sostenibile, efficienza energetica, scienze della vita, etc.) sono tutte ad alta intensità di ricerca, e sembrano riecheggiare l’impostazione di Industria 2015, il programma che Bersani impostò al ministero nel 2006-07 e che i successivi ministri del Pdl maldestramente accantonarono. La parte sullo sviluppo sostenibile contiene una seconda linea d’azione, che è quella di «dare più forza e prospettiva alle nostre piccole e medie imprese», sottolineando la necessità delle pmi di «collegarsi fra loro» e di conseguire una maggiore «capitalizzazione». Sull’economia reale Bersani gioca in casa, dicevamo. Come risponde Renzi, che per la prima volta si affaccia alla ribalta nazionale? Con un bel contropiede, centrando una parte non piccola del suo “Nuovo paradigma per la crescita” (partire dal basso e smantellare le rendite, è l’aggiunta) sull’«accesso al credito», oltre che sul «sostegno del potere d’acquisto degli italiani» – anche mediante nuove liberalizzazioni – di cui altri colleghi già hanno scritto su queste colonne. Sulla vitale questione dell’accesso al credito, l’innovativa proposta è quella di «riallocare su fondi di garanzia del credito almeno 20 miliardi di fondi europei, in modo da garantire almeno 250 miliardi di crediti alle pmi». Dal punto di vista operativo, l’ipotesi è quella di costituire fondi di garanzia del credito in ciascuna regione sulla base di un programma europeo (Jeremie) e di «chiedere alle banche partecipanti di applicare alla propria clientela prezzi “calmierati”». Completano il paradigma un capillare programma di manutenzioni (più che di grandi opere); la banda larga e i network di nuova generazione; la «riapertura» dell’Italia agli investimenti stranieri. Per concludere, un’annotazione sull’Europa, affrontata in capitoli ad hoc e in maniera ampia da entrambi i programmi. Ebbene, passando dal piano dei principi a quello della prassi di governo c’è un punto «europeo» che ha a che fare con le due questioni qui discusse: primo, il rilancio della manifattura; secondo, la cosiddetta “nuova politica industriale”, volta cioè agli investimenti in conoscenza (R&S e capitale umano) e al sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, anche se l’espressione “politica industriale” nel programma di Renzi non compare. La riforma del Titolo V della Costituzione ha collocato fra le cosiddette materie di legislazione concorrente, fra le altre, «la ricerca scientifica e tecnologica, e il sostegno all’innovazione per tutti i settori produttivi», nonché il «commercio con l’estero». Il mio personale convincimento è che una sommatoria di politiche regionali non dia necessariamente luogo a una nuova politica industriale da far valere sui tavoli di Bruxelles; quegli stessi tavoli su cui Germania, Francia, Paesi scandinavi, e così via, si presentano con le loro visioni e le loro priorità. Pensiamoci, perché il futuro dell’industria italiana passa anche da qui.
Università di Parma
 
5 ottobre 2012
Bersani-Renzi, non così lontani
La cosa più irritante di questo dibattito sulle primarie è che non si parla dei programmi dei candidati. Si discute di regole, ricambio generazionale ma non delle idee. Eppure sia Bersani che Renzi hanno espresso proposte che meritano attenzione. Sorprendentemente, le due proposte hanno punti di contatto che non appaiono marginali: diritti civili (immigrati, convivenze, fecondazione); centralità di un’Europa politica; valorizzazione della scuola; piano straordinario per gli asili nido e l’occupazione femminile; anche nella ricetta per uscire dalla crisi ci sono elementi di contatto: sia Bersani che Renzi pensano ad un sostegno ai redditi medio-bassi. Ambedue fanno affidamento sulla lotta all’evasione fiscale. Curiosamente li accomuna anche l’ambizione ‘‘dirigista’’: puntano sulla cultura, la sostenibilità, le nuove tecnologie, il turismo, e sembrano voler rispolverare le leve della programmazione. Andando in profondità emergono le differenze. Le due proposte partono da un’analisi diversa dei problemi dell’Italia e giungono ad una ricetta diversa. In poche parole possiamo dire che Bersani pone l’accento sulla diseguaglianza del paese, Renzi invece sul ruolo del pubblico che sarebbe un ostacolo per la crescita. Bersani parte dal fatto (vero) che in Italia la diseguaglianza è aumentata a dismisura negli ultimi vent’anni con una compressione dei salari in favore della rendita (finanziaria), una tendenza che deve essere riequilibrata tramite un innalzamento delle tutele (mercato del lavoro, accessibilità ai beni comuni) una patrimoniale e una nuova lotta alla povertà; secondo Renzi, invece, il vero problema è l’estensione del ruolo del pubblico: propone di abbattere drasticamente il debito pubblico via privatizzazioni e di reperire circa 70 miliardi tagliando la spesa pubblica (la cifra portata a casa da tutte le manovre Berlusconi-Monti nel 2011).
Il primo pone una maggiore equità come presupposto per la crescita via stimolo della domanda interna. Nel fare questo sottostima le controindicazioni (inflazione, calo produttività) e pone poca attenzione alle politiche per riqualificare l’apparato produttivo via innalzamento della produttività (liberalizzazioni, semplificazioni, etc.). Un ricetta difficile da attuare, anche perché richiede la disponibilità di risorse pubbliche che non ci sono. Renzi punta invece a tagliare la spesa pubblica improduttiva, a semplificare e a rendere più efficiente la pubblica amministrazione per poi dare spazio all’iniziativa privata e al mercato. Rimane invece sullo sfondo il tema dei diritti di cittadinanza e sociali. Un progetto già proposto per l’Italia negli anni ’90 anche dal centrosinistra. Legittimo proporre questa medicina, ma la proposta di Renzi sembra ignorare che uno dei limiti di quella esperienza sia stato che abbiamo disintegrato la costituzione economica del paese senza costruirne una nuova. Le parole d’ordine liberalizzazioni, privatizzazioni, semplificazioni hanno finito per indebolire le istituzioni che sono un ingrediente importantissimo per lo sviluppo. Questa diversa visione riguarda anche il ruolo della politica. Per Bersani i partiti vanno riformati – e rafforzati – dando attuazione all’articolo 49 della Costituzione mentre per Renzi vanno sostanzialmente disintermediati dando spazio alla partecipazione dal basso. Nel primo caso si pensa a forme di rappresentanza classica (corpi intermedi), nel secondo a quella diretta. Si tratta di due proposte diverse, l’una fortemente ancorata nella tradizione classica socialdemocratica che rischia di non parlare alla parte più dinamica del paese e l’altra che vuole parlare proprio ad essa. La prima punta su una maggiore equità piuttosto che sull’ammodernamento dell’apparato produttivo, la seconda propone di fare le due cose assieme grazie ai tagli della spesa pubblica improduttiva. Un pasto gratis, almeno elettoralmente parlando. Attenzione, a differenza di quello che qualcuno crede, non è soltanto una sfida per il potere, si tratta di una sfida di contenuti che, se mal gestita, rischia di spaccare definitivamente il Pd decretandone la fine.
Politecnico di Milano
 

5 ottobre 2012

Ma la Renzonomics è compatibile con Vendola?
Ogni giorno che passa le primarie del centrosinistra riservano sorprese. Innanzitutto sul numero di candidati. A Bersani e Renzi si è aggiunto Vendola. Ciò da un lato sposta l’asse dall’area Pd alla coalizione e, dall’altro, fa emergere il problema del commitment, ovvero di come rispettare i patti elettorali della coalizione, una volta che si vince o che si perde. Già, perché se si vince c’è la tentazione di spingere verso la frontiera più vicina al proprio radicamento. Se si perde c’è la tentazione di un sostegno debole o peggio.
La Carta d’intenti proposta dal Pd e, ancor di più, “le idee” lanciate da Matteo Renzi contengono alcune visioni e proposte poco digeribili da Sel, se non addirittura antitetiche (ad esempio per Renzi, la riforma Fornero non si tocca). Al di là del dibattito sulle regole, questo è un tema sostanziale che si pone in relazione al senso politico di primarie di coalizione. Confrontiamo, ad esempio, la Carta d’intenti del Pd e il programma che Matteo Renzi ha postato sul suo sito. Prima sorpresa: quelle di Renzi non sono idee, ma proposte concrete che recano accanto addirittura il tentativo di misurarne il costo finanziario e di individuare dove reperire le risorse necessarie. Se si escludono alcune idee sulla politica macro-economica europea e italiana, ancora troppo approssimative, il programma di Renzi non può certo dirsi vago – come qualcuno ha scritto – essendo semmai troppo preciso, su misure e risorse, nel proporre un pacchetto di azioni concrete che può apparire non negoziabile in un contesto di coalizione.
Ci sono molti punti di contatto tra la Carta e Renzi: il riconoscimento del ruolo che ha avuto Monti nel ridare credibilità all’Italia nel contesto internazionale; il grave peso del debito pubblico; la proposta di rilancio di un’Europa politica, vissuta con crescente partecipazione e non come vincolo politico-istituzionale ed economico-finanziario; la necessità di semplificare e riformare elezioni e istituzioni democratiche; la consapevolezza di vivere un momento decisivo per il futuro del paese e che per ripartire occorre dare spazio all’Italia migliore, che ha nella valorizzazione del sapere e del capitale umano il suo punto di forza. E tuttavia, nel programma “aperto”e in fieri di Renzi, sono presenti da un lato proposte collocabili alla linea di frontiera della Carta (soprattutto sul tema del lavoro) e, dall’altro, un approccio pragmatico e schietto che mal si concilia con la “visione” politico-partitica esplicitata nella Carta.
Per dire: la Carta d’intenti ha il simbolo del Pd sopra, il programma di Renzi (ma anche il sito, la campagna, il logo) no. La Carta insiste sul coordinamento con le forze democratiche e progressiste anche europee e inscrive le sue proposte generali nel solco della contrapposizione con i governi di destra nel paese e in Europa. Il programma di Renzi non cita mai il partito, non si contrappone in via diretta al governo di centro-destra e usa una sola volta la parola “sinistra”, quando ne definisce i valori: «l’equità, la dignità, una società nella quale ciascuno possa realizzare appieno il proprio potenziale e le proprie aspirazioni». E tuttavia sulla questione dell’equità, di come declinarla, sembrano affermarsi due visioni diverse. Nella Carta si mette al centro il tema della insostenibile diseguaglianza, dell’affermarsi di nuove forme di sfruttamento «per garantire guadagni e lussi alla rendita finanziaria». Nella proposta di Renzi il tema della diseguaglianza sembra più legato al tema della mancata mobilità, innanzitutto tra generazioni, nel mondo del lavoro e alle difficoltà di accesso dell’“altra Italia” tenuta fuori dalla porta. Come dire che per Renzi sono le attuali regole, tutte incentrate sulla protezione a chi è tutelato, a generare e mantenere la diseguaglianza. Questa ci sembra la differenza di fondo, con annesse le proposte sul lavoro che si ispirano ad altre esperienze europee: la diseguaglianza come manifestazione di nuovi sfruttamenti in assenza di regole efficaci o il divario nelle opportunità dovuto al contrasto tra protetti e non? Ancora: la Carta insiste sul governo dei beni comuni e rimette in discussione le politiche delle privatizzazioni, Renzi rilancia l’approccio pragmatico delle best practices, invitando a scegliere, nei vari ambiti, i modelli che in Italia o all’estero si sono rivelati più efficaci nel raggiungere determinati obiettivi. E poi piccole sfumature. Renzi insiste molto sul merito, la Carta preferisce parlare di talento. Il problema che entrambe le proposte sottovalutano è la estrema difficoltà di raggiungere un consenso ex-ante su come realizzare misure di valutazione trasparenti, accettabili e condivisibili. Infine un’altra nota comune: non è più tempo di favole e di belle promesse. Ma questo lo abbiamo imparato da tempo. E vale davvero per tutti.
Università di Siena

5 ottobre 2012

Conta l’agenda Monti
Non sappiamo niente, ci muoviamo in un’incertezza che spaventa: non sappiamo le regole delle primarie, non sappiamo con che legge elettorale andremo a votare, non sappiamo se dal prossimo voto emergerà una maggioranza per governare il paese. È questa incertezza che disorienta i militanti e gli elettori del Pd e che preoccupa non poco non solo gli italiani ma anche i cittadini europei. La mia convinzione è che Angela Merkel aspetti da un anno le elezioni italiane per decidere che fare nella soluzione della crisi europea. L’Italia è un paese troppo importante, se non ha un sistema politico stabile e responsabile nel segno dell’euro, la Germania potrà fare ben poco per la salvezza della moneta europea. Orbene in questa situazione siamo chiamati a decidere per chi votare alla primarie del centrosinistra. Molti di noi non le volevano o non ritenevano che fosse il momento giusto ma le primarie si terranno lo stesso, bisogna decidersi e tanto vale renderle di qualche utilità. A mio parere c’è solo un criterio per decidere chi votare a queste primarie: voterò chi garantisce a maggiore continuità con il governo di Mario Monti. Una continuità non necessariamente nella persona di Monti ma nello spirito delle riforme anche impopolari di quest’anno, uno spirito che va completato con le politiche della crescita ma la cui direzione non va in alcun modo invertita. Ad ogni elezione o primaria che sia, la prima cosa da chiedersi è un giudizio sull’operato del governo precedente. Io ritengo che al di là dei dettagli dei programmi di Bersani, Renzi e Vendola, inevitabilmente generici, conti quel che i candidati pensano e dicono del governo di Monti. E non solo quel che pensano e dicono ma anche quel che potranno fare per continuare l’agenda Monti se vinceranno le primarie e poi le elezioni. Io non credo che nessuno dei tre candidati farà il primo ministro se vince queste primarie: ci sono troppe variabili ancora in gioco, prima bisogna conoscere la legge elettorale poi bisogna vincere le elezioni poi bisogna vedere quali saranno gli accordi con gli alleati. Vendola ha già detto che si candida in funzione anti-Monti. Bersani è quello che ha garantito finora la maggioranza per il governo Monti e Renzi è quello che ha detto parole più chiare di sostegno all’agenda Monti. Come scegliere tra i due? Il problema di Bersani è che si è apparentemente impegnato in una coalizione con Vendola, e forse si allearà anche con Di Pietro se si voterà con il Porcellum e ci sarà la gara ad allargare le coalizioni. A questo punto se anche vincessimo le elezioni, come potrà mai Bersani continuare nel solco di Monti con questi compagni di strada? Credo che più degli alleati “naturali” (Vendola appunto) sia molto più importante scegliere una linea politica. Su la linea politica di Monti credo che dia garanzie più credibili Renzi di Bersani.
I critici dell’agenda Monti sostengono che la definizione stessa dell’agenda Monti o è strumentale o è fumosa. È vero tutto il contrario. Non è affatto strumentale perchè il giudizio sul governo passato è l’unico criterio che ci guida in questa situazione di incertezza. Non è affatto fumosa, in quanto in Europa tutti sanno benissimo cosa si intende per agenda Monti; se definissimo agenda Monti semplicemente andare avanti sulla strada delle riforme di questo governo e non tornare indietro, basterebbe questa definizione davvero scarna per escludere moltissimi dal numero dei sostenitori di Monti. Ogni tanto nella storia c’è un big bang nella politica e i partiti cambiano completamente o scompaiono, nuovi schieramenti e partiti nascono. In genere succede quando il vecchio assetto politico non sa rispondere alle domande dell’elettorato. Questo può succedere ora in Italia se il Pd non dice una parola chiara sulla linea che vuole tenere e se lascia l’eredità di Monti, uno dei pochissimi uomini politici italiani di questi decenni che ha assunto un ruolo fondamentale in Europa a un rassemblement centrista. L’unico argomento che non si dovrebbe usare dai sostenitori delle primarie – e invece è stato più volte autorevolmente usato – è che se vince l’avversario allora il partito si spacca. È un argomento che inficia alla radice il meccanismo delle primarie, ma in questo caso non vedo perché se vince Renzi il partito si dovrebbe spaccare a sinistra e invece se vince Bersani il partito non dovrebbe spaccarsi a destra. Sinceramente non credo che nessuno dei dirigenti Pd lascerebbe il partito ma molti elettori sicuramente sarebbero tentati dal votare per la continuazione delle politiche di Monti piuttosto che per una coalizione una cui parte sostanziale fa campagna elettorale dichiaratamente contro questo governo.
Università Statale di Milano