Scienze della Comunicazione e mercato del lavoro. Risposte a Comunicazionepuntodoc
Comunicazionepuntodoc
Rivista del Dottorato di Ricerca in Scienze della Comunicazione della Università “La Sapienza” di Roma.
Milano, 4 giugno 2010
Perché in tutti i paesi occidentali esistono corsi di comunicazione e solo in Italia costituiscono un “problema professionale”?
Se per “problema professionale” intendiamo la reattività di qualcuno che, nel sistema professionale più vistoso (il giornalismo di massa), ha il vezzo di aggredire i corsi di laurea in scienze della comunicazione intesi come fabbriche di disoccupati, due sono i termini della questione:
– il primo serve a ricordarci che giornalisti e pubblicitari in Italia provengono da una lunga tradizione di “apprendimento a bottega” di cui si sono molto vantati, cioè dell’aver snobbato loro stessi gli studi universitari perché la febbre creativa li sospingeva a non perdere tempo e a cercare nell’esperienza la trincea formativa; è una febbre che ho provato anch’io da ragazzo, la conosco, ha una sua logica li per lì propulsiva, poi – considerando il fenomeno globale - se ne vedono le conseguenze, non solo perché l’università ha cercato di innovare l’offerta formativa comprendendo tantissime cose che una volta erano marginali, ma anche perché nell’offerta formativa più tradizionale (lettere, filosofia, giurisprudenza, economia) giornalisti e pubblicitari troverebbero tuttora basi di una muscolatura culturale generale a loro molto utile;
– il secondo dovrebbe essere riferito, una buona volta, ad una seria ricerca sul placement dei laureati in scienze della comunicazione in Italia e altrove per vedere se vi sono e dove sono i problemi; scopriremmo forse che essi – i problemi – sono in linea con tutte le questioni generali del rapporto università-mercato del lavoro che il paese ha, non nello stretto ambito del tema, ma in relazione al radicamento delle imprese e ai modi di assunzione del settore pubblico; in tal senso segnalo che, nel mio ambito di osservazione (Iulm, Milano) il rapporto con il placement (anche dal punto di vista delle nuove strategie organizzative dell’ateneo nei servizi connessi ad un buon approccio al tema) è soddisfacente e fa emergere invece la complessità delle destinazioni e la soddisfazione, tutto sommato, degli ambiti di accoglienza per la freschezza e l’aggiornamento che i ragazzi neo-laureati portano nei loro ambienti di lavoro.
Se “per problema professionale” intendiamo la piena maturazione del concetto interdisciplinare che dovrebbe sorreggere l’offerta formativa in scienze della comunicazione per corrispondere alla citata complessità dei profili oggi attivi nel mercato del lavoro, qui vi sono ancora seri problemi da affrontare largamente dovuti alla concezione di sé dei raggruppamenti disciplinari e alle logiche che presiedono agli incarichi negli atenei. Ma anche qui vi sono mutamenti e adattamenti. L’equilibrio con la docenza a contratto è una parziale risposta, davvero molto parziale, che andrebbe “gestita” di più dagli atenei, non interstiziando i professionisti per scaricare loro cose, ma per portarli in forma testimoniale “dentro” i percorsi degli accademici resi più aperti da una didattica complessa. Ma al centro del dibattito – se mai si volesse fare questo dibattito – vi è il non decollo della “scienza delle comunicazione” come disciplina autonoma davvero affrancata dalle sue pur legittime tutele disciplinari (oggi almeno una dozzina, tra cui la sociologia ha la responsabilità di avere tentato in modo più mirato e più a lungo di conservare la leadership). Ciò avrebbe dovuto farci partire da più lontano (dall’esame del modello americano di “scienza della comunicazione”, aprendoci ad uno sforzo di contaminazione serio con i settori scientifici puri (pensiero, cervello, psichiatria, cibernetica, eccetera), aprendoci ad una profonda contaminazione con la visione sociale dell’economia e facendo entrare di prepotenza sia la cultura tecnologica che quella giuridica non nell’arlecchinata delle materie opzionali, ma nell’idea stessa di evoluzione dei processi comunicativi. Siamo sempre in tempo per raddrizzare le cose. Ma ci vorrebbero anche spinte di sistema e il rapporto attuale tra i soggetti della governance universitaria non mi pare orientato allo sguardo visionario sull’evoluzione delle culture disciplinari e sulla pertinenza dell’offerta formativa. Argomenti di cui per altro (pare incredibile) si parla pure poco dentro gli atenei.
Perché in tutti i paesi d’Europa esistono previsioni sull’evoluzione dei bisogni professionali che identificano il bisogno di laureati in comunicazione e in Italia il mercato sembra invece chiuso nei loro confronti?
Non credo che il mercato sia “chiuso”. Credo che siano deboli i cosiddetti tavoli di analisi e di negoziato sulla materia. Operando come segretario generale di una fondazione universitaria (con soci gli stakeholder del territorio) attiva nella ricerca applicata e nella formazione continua, potrei dire che – pur non essendo facile – quella tipologia di relazione è perseguibile e offre spunti interessanti. Per esempio, in un’esperienza che si conduce da tempo, prevalentemente stimolata dalla consorella fondazione del Politecnico di Milano, vi è una valutazione attenta alla potenzialità che il singolo laureato creativo ha oggi di costituirsi direttamente in nuova impresa. Quando ho sollevato il problema con i “giovani imprenditori” di Assolombarda per cercare forme concrete di partnership nel campo degli operatori della comunicazione ho trovato vivissimo interesse. Quanto poi al mercato pubblico, a quando si rimanda una vera vertenza etica promossa anche dal sistema universitario sull’opacità e la faziosità dominata dall’occupazione dei partiti nelle istituzioni circa le modalità di ingresso nella PA, nelle agenzie e nelle autorità, nelle aziende di servizio pubblico? Qui parlo come direttore di un master universitario di I° livello (il 3+1, per capirci) in Management della comunicazione sociale, politica e istituzionale che, non solo va a sempre a break-even, ma da nove anni ha messo al lavoro più di duecento specializzati in aerea per lo più pubblica. I percorsi sono manicomiali. Stage breve gratuito (coperto da assicurazione), capacità di far valere le competenze e bisogni degli apparati di servirsene, prolungamento dello stage, relazionalità interna, creazione delle condizioni contrattuali, eccetera, eccetera. Ma, insomma, qui davvero si deve riprendere il tema della centralità costituzionale dei concorsi e definire bene i profili nel campo della comunicazione al di là del modesto obbligo offerto oggi dalle normative.
Perché all’espansione della maggior parte delle imprese comunicative e dell’aumento dei consumi dei pubblici in Italia non corrisponde un’adeguata crescita della domanda dei professionisti in comunicazione?
Il sistema della comunicazione – quante volte ci facciamo davvero questa domanda ? – di chi ha davvero bisogno? Tot capita, tot sententiae. Qualcuno dirà, tecnici innovativi. Altri, creativi stimolati a percepire il simbolico vagante. Altri ancora, quadri competenti nel business del settore, altri ancora professionisti “della scrittura”. E altri, altri, altri. L’inventario di questa “domanda” non ci è sempre chiaro. Meno ancora ci è chiara – in rapporto a macro-aree territoriali di assorbimento – la gerarchia concreta e previsionale. Mi sia consentito anche qui uno spunto di esperienza. Da qualche tempo l’Italia è stata collocata da Freedom House (l’istituto americano che Eleonora Roosevelt volle per combattere la manipolazione informativa del nazismo) nell’area gialla della “semi-libertà dei processi di informazione” . Un pugno nello stomaco rispetto al verde di quasi tutta l’Europa. Sono andato a Washington per capire. Ma tant’è. Un articoletto sul Sole-24 ore, una stoccata del premier. E via. Si è mai visto un convegno delle università, anche a porte chiuse, per prendere sul serio l’analisi che sta dietro alla cosa e porselo come framework nell’attuale prospettiva formativa? Nel mio quadro di esperienza, ho provato ad alzare la “temperatura civile” della mia didattica sia nell’ambito del trattamento della comunicazione pubblica, sia nell’ambito – del tutto diverso – di un nuovo corso di “Politiche pubbliche per le comunicazioni”. Mantenendo lo sforzo di indipendenza e neutralità. L’adesione degli studenti è forte. Si capisce che cresce così la soglia critica della formazione. Per esempio in materia di “politiche per le comunicazioni” si tratta non di parteggiare (come fanno i media ormai costantemente) ma di introdurre l’idea che un management del settore adeguato, per lavorare in Italia sia nelle imprese che nelle istituzioni, deve porsi il problema di una approccio serio a come temperare i conflitti che sono di per sé fattore maturativo della crescita, perché senza conflitto non c’è concorrenza. Mi permetto di dire che è difficile questo crinale della didattica. Forse ne facciamo degli spostati rispetto a un sistema apparentemente fatto di maggiore “obbedienza”, ma forse invece ne facciamo dei quadri adatti all’uscita dalle crisi, perché alla fine portatori della loro sparsa creatività gestionale capace di adattarsi a opzioni politiche diverse ma senza perdere la nozione del “valore aggiunto”.
Stefano Rolando
Raggruppamento disciplinare “Economia e gestione delle imprese”
Docente di “Teoria e tecniche della comunicazione pubblica “ e di “Politiche pubbliche per le comunicazioni”
Facoltà di Comunicazione, relazioni pubbliche e pubblicità dell’Università IULM di Milano.
Segretario generale di Fondazione Università IULM.