Riforma Rai : i contributi degli studenti al seminario e brevi conclusioni (3 marzo 2012)

M.A.S.P.I. IULM
 
Discussione su “Elementi per una riforma RAI”.
 
27 febbraio 2012 – 3 marzo 2012
 
Il 27 febbraio 2012 si è svolto un seminario nell’ambito della decima edizione del Master MASPI (Management della comunicazione sociale, politica e istituzionale) dell’Università IULM di Milano, diretto dal prof. Stefano Rolando, animato dall’ing. Luigi Mattucci, già vice-direttore generale della Rai e presidente di Raisat. Introdotto – nella forma della simulazione manageriale – da un documento di proposta di iniziative dell’Azionista dell’Azienda Rai (il Governo) come ipotetiche misure di riorganizzazione profonda della Rai in vista della riforma di cui è competente il Parlamento. Il documento, redatto da Luigi Mattucci e Stefano Rolando, è in via di pubblicazione. A seguito del seminario una parte dei partecipanti ha inviato opinioni e commenti scritti – qui rubricati in ordine alfabetico – a cui l’ing. Mattucci ha conclusivamente e brevemente replicato.

Il documento in versione integrale al link
http://stefanorolando.it/index.php?option=com_content&view=article&id=955;documento-per-workshop-su-misure-di-emergenza-per-riforma-rai-27-febbraio-2012&catid=35;cat-att-uni&Itemid=59

 
Irene Almici
 
La Rai, nata come servizio pubblico, negli ultimi anni si ritrova ad essere una televisione sempre più commerciale, con programmi tesi spesso solo verso l’audience, con poca cura della qualità dei contenuti e con una sempre maggiore quantità di pubblicità. Essendo sotto il controllo del governo, ed essendo stato l’ultimo governo presieduto dal magnate del polo televisivo avversario quale Mediaset, si è avuto il sentore che le due non si facessero più una vera concorrenza ma che tendessero quasi a coalizzarsi per evitare la lotta allo share più alto o per favorire un certo programma di punta, fino a formare la cosiddetta raiset. Il magnate in questione, impersonificato da Silvio Berlusconi, oltre tutto, ha esercitato la sua potente influenza ponendo a capo di telegiornali persone a lui affini e da lui benvolute, che facessero i suoi interessi, ha portato alla soppressione di programmi, sospensione di conduttori, che per quanto portassero grossi introiti pubblicitari dato il loro buon rendimento in termini di ascolti, non erano a lui graditi, per quanto non fossero esplicitamente politici. Ha così esercitato una censura potente, che ha portato molti di questi personaggi a trasferirsi sul canale la7, il quale, guidato da un furbo direttore quale Mentana, s’è accaparrato i migliori fuggitivi. Per quanto il governo sia cambiato, questa situazione non è ancora mutata, come lo dimostra l’ultimo Sanremo, dove pur di fargli fare la massima audience possibile sono stati tolti dagli altri canali quasi tutti i programmi che potessero fargli un po’ di concorrenza, è stato chiamato un personaggio come Celentano, che coi suoi predicozzi ha tolto molto dello spazio in teoria (visto che dovrebbe essere un gara canora) riservato ai cantanti, che a quanto pare non attirerebbero più da soli molto pubblico, e sempre questi i vincitori o comunque quelli che hanno avuto un maggior successo in classifica sono provenienti quasi tutti da una trasmissione di talent scout su Mediaset. Probabilmente se la Rai non fosse stata sotto il controllo dei partiti ciò non sarebbe accaduto, ma è altrettanto vero che se fosse sotto l’esclusivo controllo di un imprenditore molto probabilmente anch’esso non sarebbe molto interessato a trasmettere cultura e conoscenza ai cittadini ma solo ciò che attrae audience, che spesso è qualcosa che scatena i bassi istinti delle persone o che di sicuro non dà da pensare. È per questo motivo che secondo il mio parere la sua gestione andrebbe affidata a dei professionisti e tecnici di vari campi, come sociologi, esperti di comunicazione e dei media, pochi economisti e “uomini di marketing”, che sappiano proporre alle persone programmi che spazino dal quiz televisivo, al documentario al salotto politico. Ma il tutto dovrebbe avere un certo standard di qualità minimo, anche un quiz può essere fatto in modo intelligente ad esempio, evitando sgambettamenti inutili di vallette e showgirls seminude, ma portando la gente a ragionare: non dico con ciò che le varie “letterine” di sorta debbano essere abolite, ma dovrebbero rivestire un ruolo un po’ meno di sola immagine. Non dovrebbe esserci l’imperio dello share, ma dovrebbe essere un po’ più svalutato nel senso che non bisognerebbe far programmi solo in funzione di quello. È vero che si basa sulla pubblicità la televisione, ma preferirei che si pagasse un canone un po’ più alto ma che i programmi fossero di miglior qualità e intermezzati da minore pubblicità: non si potrebbe fare anche 10 minuti di pubblicità ad esempio nell’intervallo di un film e non interromperlo ogni quarto d’ora? Per quanto sia vero che probabilmente la televisione è lo specchio degli italiani, è anche vero che il rapporto è reciproco, quindi se vogliamo degli italiani migliori, essendo ancora la televisione il mass media più diffuso, è forse il caso di migliorare la qualità del servizio televisivo, prima di qualsiasi altra riforma.
 
Elena Belcredi
La Rai dovrebbe essere la più importante industria culturale del Paese, il luogo del dibattito politico per eccellenza, questi erano i valori su cui è stata creata, oggi è ancora così? Come sostiene l’ingegnere Mattucci il valore auspicabile della Rai si potrebbe riassumere nella formula “meno burocrazia, più produzione”, ma quali sono i passaggi che permetterebbero la concretizzazione di questa affermazione?
La “pesante” struttura burocratica e la sottoccupazione interna sono le cause del deficit economico e dell’impoverimento culturale che purtroppo caratterizzano la Rai ai giorni nostri, quindi se si vuole attuare una “riforma Rai concreta” bisogna intervenire su queste due voragini. Non si può effettuare una riforma radicale se non si prende seriamente in considerazione il contesto culturale e socio-politico in cui si trova attualmente il nostro paese: il primo cambiamento deve riguardare la selezione e la nomina della dirigenza Rai, ritengo che, come è avvenuto per il nostro Governo, in questo momento servirebbe una dirigenza tecnica-di emergenza della Rai: un C. D. A. formato da esperti non-politicizzati che garantiscano efficacia ed efficienza alla struttura.
Esperti di riorganizzazione aziendale servirebbero per trovare la forma strutturale migliore per massimizzare tempi e modalità di produzione, questi soggetti, inoltre, potrebbero individuare soluzioni alternative per diminuire la percentuale di lavoro esternalizzato, organizzando, ad esempio, corsi di aggiornamento per i dipendenti che, attraverso una formazione più ampia potrebbero far spaziare il loro lavoro nelle diverse aree: ad esempio intrattenimento e news, raggiungendo così l’obiettivo di diminuzione dei costi di produzione esterna. Ovviamente non si può scindere il concetto di Rai da quello di Politica e, per questo motivo, ritengo indispensabile che nel C. D. A. sia presente un garante che assicuri una corretta parcellizzazione delle rappresentanze politiche: permettendo il loro confronto-scontro con il fine di far tornare la Rai il luogo di incontro per un dibattito politico informativo e costruttivo che permetta il coinvolgimento dei cittadini. Un’altra figura indispensabile in questo C. D. A. è quella del comunicatore che sia in grado di comunicare in maniera chiara sia all’interno che all’esterno le modifiche applicate, perché solo in questo modo i dipendenti potranno prendere parte attivamente al processo di riforma e perché solo con questo tipo di comunicazione verso l’esterno la Rai potrà, lentamente, ricostruire la sua reputazione ed immagine riacquistando credibilità. Le ultime due figure che inserirei sono, necessariamente, un economista ed un esperto in sviluppo informatico.
Ritengo che un C. D. A. così composto sia sufficientemente snello per poter arrivare a destrutturare la rigidità e la vecchiaia di un sistema ormai saturo che rischia l’implosione, potendo a quel punto ristrutturarsi con un sistema agile e all’avanguardia.
 
Matteo Borghi
 
Per provare ad immaginare una riforma organica del servizio pubblico dobbiamo partire da una serie di problemi che, attualmente, lo affliggono. In primo luogo l’eccessivo peso che, al suo interno, riveste la politica. Non solo la proprietà dell’azienda è del ministero dell’Economia ma gli stessi organi dirigenziali e di vigilanza sono controllati dai partiti secondo un sistema di spartizione dei seggi basato sul consenso elettorale. In secondo luogo l’azienda si trova in una situazione in cui il proprio organico risulta sottoutilizzato a causa della sempre maggiore esternalizzazione dei programmi televisivi di intrattenimento che stanno sempre più prendendo piede a scapito della cultura e dell’informazione. Lungi da facili moralismi è indubbiamente vero che questo tipo di sistema porta la Rai a dipendere, in maniera sempre maggiore, dalla pubblicità allontanandola dal suo ruolo di servizio pubblico tout court. Senza arrivare agli estremi degli Stati Uniti in cui la televisione pubblica, di carattere prettamente culturale e informativo, raccoglie appena il 4-5% dello share ci sarebbe seriamente da riflettere sull’importanza del recupero di parte della filosofia della prima Rai bernabeiana. Una possibilità in questo senso potrebbe essere quella di una divisione dei canali: alcuni (magari due) finanziati esclusivamente col canone e dedicati all’approfondimento culturale mentre i restanti finanziati dalla pubblicità e aperti a investimenti privati. Per la riscossione del canone, spesso evaso, ci si potrebbe affidare all’Agenzia delle Entrate-Equitalia. La parziale privatizzazione delle reti pubbliche (non acquistabili da soggetti attualmente in posizione dominante) contribuirebbe ulteriormente a ridurre il duopolio televisivo già minato dalla nascita del satellite. La separazione fra reti esclusivamente pubbliche e a partecipazione privata prevederebbe due diversi cda: il primo dovrebbe prevedere una serie di figure estranee alla politica, di garanzia, mentre del secondo farebbero parte i soggetti privati che si prenderebbero l’onere di assumere i dipendenti in esubero. Un simile sistema, anche se di difficile attuazione, compenserebbe le esigenze di approfondimento culturale e informativo con l’intrattenimento senza subordinare l’una all’altra.
 
Francesco Paolo Cazzorla
Oggi la parola crisi sembra impregnare il sentire comune con una tale insistenza da racchiudere, con una certa aurea di significatività, ogni tipo di destabilizzazione strutturale e/o personale di fronte all’incerto. La ricorsività di tale allusione comporta molto spesso, a torto o ragione, un alibi di non-intervento proprio su quelle tematiche o questioni che sembrano necessitare, per la loro gravità e urgenza, di una condivisione pubblica auspicabile sulle prospettive risolutive, volte al raggiungimento di un benessere collettivo.
Per affrontare dunque l’emergenza che sta investendo il sistema-Paese, bisognerebbe individuare delle strategie sensate di rinnovamento proprio in quei settori o sottosistemi che, per la loro rilevanza, potrebbero risollevare sia le sue sorti identitarie che il suo livello di immagine e rappresentanza a livello globale. Uno tra questi – e oggetto di un recente intenzione politica/riformatrice – è il “soggetto” Rai, il più importante servizio pubblico informativo in Italia. Tale rivestimento, che deriva da una storia complessa e articolata, potrebbe trovare nell’attuale contingenza politica del Paese le condizioni opportune per un rilancio d’immagine, a seguito di un ripensamento dei fattori di forza e di potenzialità tutt’ora esistenti e che caratterizzano i diversi comparti aziendali.
L’auspicabile ripensamento dovrà necessariamente tener conto – e dunque rapportarsi – agli sviluppi societari in atto, che vedono una colonizzazione sempre più marcata del sistema-mercato in altri sistemi per natura differenti, in cui dovrebbero vigere logiche del tutto diverse da quelle che regolano le transazioni riconducibili alle categorie economiche. Sempre in quest’ottica, si dovrebbe d’altro canto tener conto della visibile e palpabile disaffezione politica dei cittadini, che in ordine di uno scarso riconoscimento di tipo ideologico (caratteristico invece degli anni passati), registra la debolezza dei diversi partiti politici nella rappresentanza dei bisogni espressi e riconosciuti.
Per quanto riguarda la prima questione, pare evidente il ricorso – all’interno di un settore, quello della Rai, considerato pubblico – alle logiche di mercato, poiché considerate meno costose e più efficienti (anche per tenere testa – in una logica concorrenziale – all’altro grande canale informativo di natura privata: Mediaset). La concezione e la pratica delle esternalizzazioni, che si concretizza nella gestione di interi reparti produttivi da parte di soggetti privati, deve essere necessariamente ri-definita secondo un equilibrio che vede soddisfatti sia il valore della flessibilità – uno dei principi cardini su cui poggia il regime di mercato – sia il rispetto dell’equità e del pluralismo societario, che, in teoria, dovrebbe essere garantito da un sistema pubblico teso al raggiungimento di un interesse di tipo collettivo. Quest’ultimo, va reso praticabile e spendibile offrendo tutta una serie di servizi che permettano la concreta esplicitazione di un certo tipo di informazione considerata di qualità, avulsa dalle caratteristiche proprie dei format esterni, che tendono a privilegiare e a perseguire la logica del successo immediato negli orientamenti della competizione sfrenata alla ricerca di maggiore audience.
Ci si rende conto, soprattutto in un’ottica generazionale, che questo tipo di televisione oggi non funziona più, o meglio, che ha funzionato solo per un certo periodo di tempo, in cui il mercato si ergeva come giustiziere dell’intrattenimento e la spinta all’individualizzazione che ne conseguiva soddisfaceva i bisogni culturali del momento, fornendo un senso “confezionato” a certe visioni sul mondo. Oggi, soprattutto tra i giovani, si preferisce accedere ad un’informazione “fai da te” e ricercare un senso culturale più di tipo personalizzato. Questo implica da un lato il quasi completo abbandono di quella “scatola parlante” e unidirezionale chiamata TV, dall’altro l’utilizzo sempre più marcato delle nuove tecnologie messe a disposizione della rete, che consentono in maniera più libera e più critica – e attraverso alcuni strumenti anche in una logica bi-direzionale – la ricerca di quegli spazi di interesse personale, e soprattutto di interesse collettivo, trascurati dall’emittente pubblico, e dunque non messi a disposizione da quest’ultimo. Detto ciò, pare opportuno restituire e concedere una maggiore autonomia alle strutture editoriali proprie di questa azienda, promuovendo un giornalismo che sia veramente d’inchiesta, e che permetta una ricerca sul campo atta a conciliare il bisogno di cultura e la sua declinazione non elitaria del vivere quotidiano. Quindi alleggerire la struttura burocratica, non nell’ottica di una politica dei tagli bensì nell’intenzione di rivitalizzare una struttura che si presenti più funzionale, sembra uno degli interventi strategici più congeniali per mettere in atto una pluralità autonoma all’interno del comparto aziendale, che potrebbe tentare – nelle sue diverse ramificazioni produttive – di vivisezionare la realtà informativa rendendo e offrendo un servizio di maggiore qualità, tale da poter essere fruito da uno spettro di popolazione più ampio.
Ritornando dunque alla prima questione, pare evidente che il risparmio dei costi compiuto attingendo da fonti esterne di mercato sia, ormai, una via impraticabile nella direzione del perseguimento di un servizio che si riconosca – e venga dunque legittimato dall’esterno – come servizio propriamente pubblico. Occorre, in sostanza, un approccio “conciliante” che prenda in considerazione sia le acquisizioni di flessibilità e di libertà proprie del sistema-mercato, sia le qualità e le peculiarità intrinseche che dovrebbero di per sé caratterizzare un sistema di pubblica utilità, com’è quello del soggetto Rai. Quest’ultime, data la cogente situazione odierna d’emergenza, dovrebbero essere rispolverate e rivitalizzate, allo scopo di dar luce a quel senso identitario e patriottico che possa risollevare – e dunque dar voce – al pluralismo societario presente nel nostro Paese, in chiave competitiva ed internazionale. In quest’ottica, gli elementi utili confacenti il sistema-mercato serviranno a snellire e debellare – e rendere in questo modo più dinamiche – quelle logiche che, proprio perché attribuibili al sistema pubblico, vengono troppo spesso imputate di lentezza burocratica, e che per giunta sono gravate da costi onerosi non più sopportabili.
In ultimo, per quanto riguarda la questione della disaffezione dalla politica dei partiti da parte dei cittadini, risulta proponibile un allentamento della “politicizzazione” sugli aspetti gestionali complessi dell’azienda, dando adito ad un quadro della democrazia rappresentativa in ordine alle funzioni essenziali. Questo perché la politica, intesa in senso ampio, sta cominciando ad essere pensata e anche praticata in maniera del tutto diversa rispetto al passato. Le ideologie, ormai, trovano sempre più spesso pochi cittadini proseliti, che preferiscono organizzarsi autonomamente in soggettività sempre più diversificate allo scopo di rivendicare – e rendere in questo modo manifesti – nuovi diritti, valori e bisogni concreti da soddisfare. In questo senso, è utile osservare le diverse realtà che pian piano vanno consolidandosi in quelle che sono state definite “comunità virtuali” e che, attraverso le loro azioni “digitalizzate”, compiono concreti interventi di rappresentanza nel e sul mondo reale: in virtù della loro innovativa rilevanza, riscuotono piccoli successi avendo una non irrilevante incidenza di ripercussione a livello macro-societario. Sarebbe a questo punto auspicabile creare e promuovere nuovi canali informativi pubblici che, in connessione con le nuove tecnologie di rete, possano dare visibilità – tenendo conto dei relativi messaggi – a questi nuovi micro-fenomeni identitari. Quest’ultimi, nel complesso, non esprimono altro che un bisogno di democrazia partecipativa che va a concretizzarsi in un nuovo “Pensiero di Paese”, attivato da soggetti sociali motivati nella creazione inter-attiva di un benessere comune; tutto questo a fronte delle nuove sfide emergenti dal cambiamento in atto.      
 
Alessandro Ceci
 
Il 28 marzo prossimo scade il consiglio di amministrazione della Rai e già i partiti cominciano a scaldarsi e proporre progetti di riforma.. Lo stesso Presidente del Consiglio Monti, recentemente, in un vertice con i tre partiti che sostengono il governo, ha dichiarato necessario e urgente  presentare una proposta di riforma della Rai per “ricuperare efficienza, governabilità e competitività”.
In una intervista fatta qualche settimana fa a Fabio Fazio (“Che tempo fa”) ha inoltre dichiarato che tra le misure in programma c’è probabilmente anche la privatizzazione della Rai, che Monti giudica “una forza del panorama culturale civile italiano, una forza che necessita di ulteriori passi in avanti”.
In sostanza l’argomento Rai-Tv è ormai maturo.  Sembra che si voglia presentare un testo entro pochi giorni di questo mese.
A questo punto , alcuni partiti parlano della necessità di un decreto , cioè della necessità di un intervento rapido che riduca il numero dei consiglieri, possibilmente indipendenti e nomini un Amministratore delegato. Altri invece, sulla base di sentenze della Corte Costituzionale, sottolineano che la competenza debba rimanere al Parlamento : il governo presenti una proposta e poi le Camere potranno accettare o meno e con modifiche.. La tesi invece del “commissariamento” avanzata da qualcuno mi sembra già in minoranza., così come la tesi della “privatizzazione” (forse rinviata a data da destinarsi), anche se alcuni esponenti del Pdl, del Fli, del Pli  la ripropongono. La tesi maggioritaria che sta emergendo all’interno del governo (in particolare nei Ministeri del Tesoro  e in quello delle Attività produttive)  è quella della nomina di un Amministratore delegato con pieni poteri, anche per le nomine interne e i palinsesti, e contestualmente la nomina di un Consiglio di amministrazione , composto solo da 3-5 membri e non pletorico come quello attuale,  con poteri  di indirizzo strategico e di controllo degli investimenti e dei risultati.
Senza alcun dubbio le regole vanno cambiate: riforma della “governance” e stipula del nuovo contratto di servizio 2013-2015. Non dimentichiamo che la partecipazione del Tesoro è del 99,56% e per la restante parte è della Siae.
Ricordo che nel 1995 , in occasione di una consultazione  referendaria, i cittadini avevano bocciato i tre quesiti , diciamo “anti-Fininvest” e avevano approvato il referendum  (promosso dai Radicali e dalla Lega) per l’abolizione delle norme riguardanti il carattere necessariamente pubblico della Rai.
Il 54% degli elettori, l’11 giugno di oltre 16 anni fa, disse sì all’ingresso dei privati nella proprietà della Rai.
Personalmente, da anni sono  per la privatizzazione, innanzi tutto per creare una vera concorrenza e un vero pluralismo nel mercato italiano dei media,  poi per  liberare la Rai dall’egemonia della politica e dei partiti e quindi “liberalizzare” veramente un settore congelato e in sofferenza.  Si può cominciare con il cedere singole reti, liberando frequenze e cedere i numerosi immobili e ripetitori.
Certamente tutto questo deve avvenire tramite aste pubbliche ed evitare che non venga venduta agli “amici degli amici”, come più volte, purtroppo, è successo nel passato per altre privatizzazioni, e comunque le tre reti vengano vendute separatamente, in modo da aumentare la concorrenza sul mercato.
La stessa sinistra, negli anni 1996-2001, si era dimostrata abbastanza favorevole alla privatizzazione e alla commercializzazione quantomeno di due reti (si vedano certe dichiarazioni di D’Alema, Parisi, Amato). Lo stesso ex-premier Prodi aveva dichiarato in una intervista di quegli anni : “ Sono per la privatizzazione della Rai”….Se c’e’ una rete che ha una missione pubblica, questa dev’essere del servizio pubblico. Ma l’intrattenimento resta nel quadro generale del mercato che richiede concorrenza e pluralismo”…”le regole sono queste, la concorrenza va rispettata tanto nel settore pubblico come nel privato”. “La forma della proprieta’ pubblica della Rai dev’essere legata a un obiettivo specifico. Per il resto non vedo la necessita’ che essa rimanga pubblica, con le tensioni e le interferenze politiche che questo comporta… ritengo che questo passo dovrebbe accompagnarsi ad un passo per realizzare il pluralismo anche nel settore delle tv private“.
Oggi invece a sentire le dichiarazioni di diversi esponenti del Pd, ma anche di altri partiti, mi sembra che la situazione sia cambiata.
Anche il mercato pubblicitario sembra che dica no alla privatizzazione della Rai; si pensa ad un canale senza pubblicità per cercare di mantenere il servizio pubblico in tv (si veda le recenti dichiarazioni di Lorenzo Sassoli de Bianchi (presidente dell’Associazione delle imprese che investono nella pubblicità)
Una buona parte  degli associati all’Upa dà un giudizio negativo sull’attuale Rai (mal gestita, priva di strategia, ingovernabile, subordinata alla politica) e propone una Rai pubblica a gestione privatistica.
Ricordo che gli investitori dell’Upa spendono un miliardo di euro l’anno in pubblicità sulle reti Rai.
“Un servizio pubblico è una garanzia democratica”, sottolinea Lorenzo Sassoli, “ma la gestione finanziaria e la produzione devono essere separate”. L’Upa propone infatti che la proprietà della Rai venga conferita a una Fondazione, con uno statuto che rifletta l’attuale contratto di servizio. “E una rete generalista dovrà essere priva di pubblicità”, aggiunge il presidente dell’Upa, “con l’obiettivo di perseguire la sperimentazione e la qualità”. Una scelta che secondo l’Upa aiuterebbe a giustificare il canone, tassa che conta 16 milioni di abbonati a fronte di 22 milioni di famiglie.
Poi c’è il problema del canone e la definizione  dei tetti sulla pubblicità.
Il canone televisivo e il bollo auto sono sicuramente le tasse più evase nel nostro Paese.
Secondo le associazioni dei consumatori il canone per la TV non è pagato da un utente su tre, e uno su due chiederebbe, se potesse , di essere esonerato perché “si guarda solo gli altri canali”. Non parliamo poi  degli esercizi commerciali e delle imprese  che devono pagare un “canone speciale”: qui l’evasione è altissima. La somma complessiva sottratta alla Rai dovrebbe aggirarsi sui 700 milioni di euro.
Perchè la lotta all’evasione del canone non si può fare tramite l’inserimento nella bolletta elettrica o tramite l’incrocio con gli elenchi degli abbonati a Sky o altre Tv a pagamento ? L’intero e complesso argomento della riforma della Rai-Tv va quindi affrontato con decisione : evitiamo un Parlamento bloccato dai veti incrociati e auspichiamo che i partiti elaborino una proposta di riforma incisiva sul rapporto pubblico e privato, possibilmente condivisa.
 
Andrea Chianura
 
Scrive Theodor W. Adorno nella Dialettica dell’illuminismo a proposito dell’industria culturale (film, spettacoli Tv, infotainment…) che: “l’impoverimento dell’immaginazione e della spontaneità del consumatore culturale dei nostri giorni non ha bisogno di essere ricondotto in prima istanza, a meccanismi di ordine psicologico. Sono i prodotti stessi, a cominciare dal più caratteristico di tutti, i film, a paralizzare quelle facoltà per la loro stessa costituzione oggettiva. Sono fatti in modo che la loro ricezione adeguata esiga bensì prontezza d’intuito, capacità d’osservazione e competenza specifica, ma anche da vietare letteralmente l’attività mentale o intellettuale dello spettatore, se questi non vuole perdere i fatti che sgusciano rapidamente davanti”.
Certamente Adorno fa riferimento ad una condizione personale che può o non può essere condivisa. E’certo che la prosecuzione della Tv spinge la cittadinanza e/o l’opinione pubblica a uno spazio di discussione pubblica collettivo e condiviso. Ma questo spazio non c’è, è virtuale. L’organizzazione dell’esterno non-televisivo ha regole diverse dall’interno televisivo, ma non per questo meno complesse. La partecipazione ad una struttura che garantisce discussione e iniziativa, è un’azione sociale non semplice. E soprattutto non c’e un continuum tra non luogo televisivo e luoghi d’aggregazione. La Tv la si vede dentro le mura domestiche e una discussione sociale avviene in un secondo momento, per “non perdere i fatti che sgusciano rapidamente davanti”, e in altro luogo, creando un amarezza collettiva di frustrazione dalla mancata risposta immediata su ciò che sta accadendo in Tv. Questo accadeva prima del 2004.
Oggi l’opinione pubblica reagisce e risponde in tempo reale su ciò che sta televedendo (vedere ciò che sta lontano dalla propria posizione) utilizzando un altro canale: il WEB 2.0.
Non c’è da stupirsi se Facebook ha raggiunto 50 milioni di utenti in soli 3 anni rispetto alla Tv che ne ha impiegati circa 10. Questi dati indicano come la costruzione del consenso tramite la Tv è sempre più di breve periodo non potendo controllare il web che ha, per giunta, un altro linguaggio.
Posto ciò, sembrerebbe che la Tv non abbia la funzione comunicativa necessaria alla costruzione di un consenso che prevede sia un informare ma anche feedback rivalutativi dell’informazione. La risposta o la reazione sociale ad un evento televisivo si trasforma essa stessa in un altro evento mediatico con le stesse caratteristiche, organizzato da gruppi di interesse o organizzazioni politiche ( e ultimamente anti-politiche), o associazioni non-profit che sempre più imparano e attuano regole mediatiche per la preparazione dei loro eventi.
In un mondo globale dove tutti sono collegati, accade che milioni di persone si riversano nelle piazze aderendo ai movimenti nati sul web (un esempio è stato il successo del popolo viola). Lo stato virtuale che come una griglia posta sopra, si sta avvicinando al mondo reale tramite le persone in mezzo, rende necessaria una riforma strategica della RAI per divenire un Servizio Pubblico rivedibile e controllabile. Una strategia che parte dal principio di rete e territorialità, come spazio d’azione, e con un tempo di risposta, e revisione, basata sulla percezione dell’individuo, non più sui sofismi intellettuali.
Secondo me questo dovrebbe accadere così: tagliando orizzontalmente la struttura organizzativa della RAI – credo che questo mi procurerà nemici e , quindi, scriverò anche per loro – lasciando intatto l’organico burocratico che sta a rappresentare quei regolamenti e quelle leggi che sono scienza dei comportamenti che potrebbero indurre il malfunzionamento della struttura, che inducono, inoltre, ad un abuso del denaro pubblico con interventi sovrapposti tali da sforare l’utilità – chi si è formato nel ’68 proporrebbe un taglio verticale, ma a questi rispondo che quella rivoluzione è stata un onda che si è infranta e che ha lasciato il segno proprio lì, in quella burocrazia – ; tagliando fuori dalla RAI gli operatori (produttori) di questa perché preferiscono parlare di procedimenti assimilabili al mondo economico.
Vedi l’insuccesso delle serate Telethon nelle piazze italiane organizzate solo per andare in collegamento-diretta con gli studi di Roma non curando la partecipazione popolare, organizzandosi con mere regole “mediatiche” poco popolari, o, ancora, i vari festival sanremesi che devono ricorrere sempre più a “cavalli pazzi” o “farfalline” per risuscitare i morti.
Mandando a casa gli operatori RAI, le produzioni saranno sì esterne, ma provenienti dalla società, dai movimenti socio culturali, dalle associazioni non-profit e organizzazioni politiche, da tutto quella parte sociale sussidiaria allo Stato.
Il prodotto RAI diviene un prodotto d’immagine accattivante, perché curato dai professionisti del managment della comunicazione – che lentamente muovono una ”rivoluzione silenziosa” negli ambiti politici, istituzionali e sociali, e partecipativo in quanto sviluppato dal territorio in cui agiscono le associazioni varie.
Con gli operatori e tecnici esterni – per ovviare alla sottoccupazione che ha indicato l’ing. Luigi Mattucci – si determina un risparmio notevole per l’azienda e un miglioramento del prodotto che va ha qualificare la Territorialitàdel Paese, mettendo i presupposti di una sana concorrenza alle Tv private che mirano ad una sempre più americanizzazione dei programmi televisivi. Proponendo, invece, una ibridazione degli stili dei programmi e spettacoli – che è una qualità più olistica che riduzioniztica – per mettersi in sintonia con il concetto di glocalizzazione proprio dei giorni nostri. Concetto che ha già investito il sociale così come la politica, l’arte finanche l’alta cucina. Quindi la riforma per determinare più equilibrio tra domanda e offerta deve tener ben saldo questo principio che sta sviluppandosi nella società post-razionalista.
Sino ad oggi l’organizzazione è andata in una sola direzione: potenziare il versante manageriale delle produzioni, e non delle capacità ideative. Questi fautori di una via del tutto tecnico-specialistica dello spettacolo televisivo hanno dimenticato che i grandi eventi culturali dell’umanità sono stati ispirati da una visione mistica della civitas , dove l’aspetto magico-sacrale si rispecchiava nella spettacolarità delle messe in scena, rifondando il patto primigenio tra individuo e collettività. V
edi per esempio Woodstock – per dare uno sguardo al mondo – la sua messa in onda fa audience anche oggi (anche se non fu realizzato con tecniche puramente mediatiche) oppure la Notte della Taranta evento che ha “svoltato” lo sviluppo turistico pugliese, sponsorizzato una squadra di calcio nella Serie-A, e da buona visibilità ai candidati delle amministrative di Puglia che la vogliono promuovere).
Con una riforma di tale portata la RAI sarebbe la prima impresa italiana ad avere le radice nell’emergenza, ormai storica, del Paese, ad evocare le energie ancestrali della nostra cultura, a richiamare una visione profetica del presente, a lanciare immagini del futuro.
Quindi da una parte le trasformazioni necessarie per la sopravvivenza dell’impresa, dall’altra un’offerta alla politica e al Parlamento che può servirsi di un palcoscenico, che è un Servizio Pubblico, capace di fruizione, decodifica e rielaborazione, necessario ad intercettare le percezioni dell’opinione pubblica sul quale si determineranno le strategie di consenso a lungo periodo. Ma soprattutto la riforma è per l’utente RAI che vedrà l’ammontare del canone restituito al suo territorio, in forma fisica e intellettuale.
 
Chiara Daneo
 
Si potrebbe analizzare il “problema” Rai sotto numerosi aspetti: si potrebbe ipotizzare il contenuto di un’ipotesi di riforma; si potrebbero analizzare le ragioni delle indicazioni pre-riforma necessarie; si potrebbe analizzare il concetto di servizio pubblico, definirne il perimetro, la storia, le contraddizioni; si potrebbe cercare di capire se per qualcuno questo servizio pubblico e questa tanto chiacchierata TV di qualità siano davvero ancora importanti. Il quadro tracciato dall’Ing. Matteucci sulla Rai, sulla necessità di una riforma (di cui si parla ormai da anni) e di azioni propedeutiche affinchè la riforma non cada nel vuoto o non si trovi a dover affrontare questioni difficilmente dipanabili con il solo strumento legislativo, è piuttosto scoraggiante.
Per esaminare solamente le principali questioni da affrontare urgentemente l’Ingegnere ha citato: il ridimensionamento di una ferraginosa macchina burocratica; una riorganizzazione industriale e strategica delle risorse umane e delle linee editoriali; il ripristino di strumenti meritocratici, come quello del concorso pubblico, per accedere alle posizioni all’interno dell’Azienda. Questioni che sfiorano il limite del banale. Ma perché, e come, il banale ad un certo punto ha smesso di essere tale ed è diventato serio obiettivo da raggiungere? (Talmente serio che non ci si vergogna di parlarne e si discute di come arrivarci attraverso diverse vie).
Quale meccanismo è necessario perchè le risorse umane siano distribuite e allocate evitando il più possibile gli sprechi? Quale meccanismo, al di là di un concorso pubblico, dovrebbe essere applicato per raggiungere un livello, anche minimo, di meritocrazia? A mio avviso questo meccanismo è da invididuarsi nella responsabilità individuale del proprio lavoro e delle proprie scelte, principio che non solo in Rai ma in Italia sembra mancare spesso.
In un paese in cui i manager che fanno fallire aziende di stato quando vengono liquidati per la loro mal gestione acquisiscono un ricco bonus e continuano la carriera da qualche altra parte (fino al prossimo fallimento), il principio da applicare dovrebbe essere proprio l’opposto: dovrebbe essere il principio secondo cui chi fa le scelte ne risponde, anche mettendo sul piatto della bilancia il proprio posto.
In questo modo non ci sarebbero concorsi truccati (se qualcuno è responsabile di un concorso e perde il posto alla prima scorrettezza commessa allora i concorsi saranno più seri), non ci sarebbero gli amici degli amici assunti senza un adeguato curriculum vitae, non ci sarebbero sprechi o sottoimpiego di risorse.
Perché è solo quando chi si prende l’onore della scelta (e gode del potere connesso a questa facoltà) è costretto a subire anche l’onere della responsabilità legata a quella scelta che le cose possono funzionare. Allora possono funzionare anche le raccomandazioni – che non ci si possono azzardare a fornire senza stimare i meriti della persona che si raccomanda: poiché si rischierebbe, diversamente, di avere un incompetente che grava sul proprio operato. Allora funzionano i piani, funziona la governance, possono funzionare le riforme.
È una riflessione davvero banale anche questa. Ma forse dobbiamo ricostruire questo paese con piccoli pezzi di banalità e di normalità come la responsabilità delle scelte o la razionalità delle spese (se non siamo i perfetti homini economici di John Stuart Mill possiamo però anche non essere, all’opposto, dilapidatori dei soldi nostri e dei nostri vicini).
Sarebbe interessante studiare anche un altro meccanismo, per andare a risolvere le nostre banalità e costruire nuovi pezzi di normalità, un meccanismo legato alla teoria dei giochi: in che misura è possibile stabilire degli incentivi sulle scelte e sulle responsabilità personali (legate a ogni lavoratore ma anche a ogni contribuente, per esempio) affinché le scelte individuali non configgano con le scelte collettive ma possano anzi andare nella stessa direzione? Solo i bonus economici? (Salvo poi agire con il primo principio esposto, quello di responsabilità personale, se i bonus venissero male allocati). Oppure un po’ più di coscienza civile appresa a scuola? Un po’ più di sentire comune, di bene comune? (Ingredienti fondamentali e “calorici” di una società che è però in tal senso sempre a dieta).
Un po’ di coscienza politica diversa da coscienza partitica? Un po’ più di pubblico nel senso di tutti e non come recinto dal filo spinato di pochi?
E se misure preliminari come queste possono portare più razionalità in RAI, prima e a prescindere da qualunque intervento istituzionale, non è forse possibile e pensabile una riforma che in un secondo tempo vada esattamente nella stessa direzione (ovvero fuori dalla logica della lottizzazione partitica a favore di una TV pubblica, in cui ciascuno ha delle responsabilità e un’etica di budget, linee editoriali, progettualità organizzativa, eccetera)?
 
Andrea Franchini
 
Tutti dicono che bisogna rinnovare la Rai. Si parla di paralisi della governance, di costi fuori controllo, di troppa pubblicità, d’influenze esterne. Se si accoglie l’estensione alla Rai delle condizioni emergenziali generali del Paese, è necessario pianificare alcune riforme per superare l’impasse.
In attesa di una nuova legge si può e si deve intervenire urgentemente, almeno per rimediare ai difetti più gravi e cercare di risanare la struttura economico-organizzativa alla quale affidare i compiti che il Parlamento deciderà.
Il periodo che stiamo vivendo è un crocevia importante del nostro Paese, per questo il Governo non può esimersi dall’operare scelte importanti sulla crisi che da anni imperversa su quest’azienda.
C’è bisogno di pensare alla Rai come un’azienda-paese che faccia da volano allo sviluppo italiano, un’azienda che sia in grado di competere con quelle europee.
Diversi sono i punti su cui intervenire: la scelta di adeguati e competenti organi di gestione, una ridefinizione della misura e della gestione del canone, la riduzione dei costi gestionali, investimenti innovativi, riduzione della pubblicità.
Proprio quest’ultimo punto è uno snodo importante. Abbassando la quota pubblicitaria, la fetta in esubero potrebbe essere indirizzata verso la carta stampata, dando ai quotidiani la possibilità di maggiori introiti pubblicitari, e alla Rai, di contrattare e avere piccoli risvolti economici in cambio.
Questo denaro, unito a un sensibile aumento del canone, sarebbe basilare per l’ammodernizzazione dell’azienda.
Per realizzare un piano del genere, c’è bisogno che i nostri politici creino un tavolo di dibattito.
L’esigenza è quella di rinnovare non solo il Cda, ma l’intera governance della Rai, restituendola al suo ruolo naturale di servizio pubblicoe non a mero contenitore in balia dei politici di turno, come negli ultimi anni è capitato. 
E ancora, con la nomina dei vertici mediante concorsi pubblici in base a criteri di professionalità, competenza nel campo radiotelevisivo ed indipendenza.
Uno dei problemi maggiori che quest’azienda si trova ad affrontare è di vivere con una forte burocrazia che la domina e, al contempo, una corposa sottoccupazione, con investitori esterni che reclamano introiti immediati. Conseguenza di questa contraddizione è un impoverimento culturale, oltre che un forte deficit economico.
Solo una riforma del genere permetterebbe alla Rai di tornare a essere un’azienda efficiente, capace di pensare il futuro, rendendosi più credibile agli occhi di tutti i telespettatori, eliminando l’influenza dei partiti nel servizio pubblico e riportando la democrazia dell’informazione ai livelli degli altri Paesi europei.
 
Andrea Gianassi

A fronte di strutture e caratteristiche tuttora presenti in Rai e di sostegno al dibattito socio-culturale che si è sviluppato in questi anni e che necessità del supporto di una televisione pubblica di qualità, è necessario un allentamento delle briglie politiche sulla televisione pubblica. Questo dovrebbe avvenire parallelamente al maggiore potere autonomo delle reti, pur giustamente mantenendo, grazie ad un piano comunicativo tout court, l’identità unitaria dell’azienda, potenziandone i poteri produttivi e limitandone la necessità-scelta verso produzioni esterne e format.                                                         
Sul fronte della parziale autonomia delle reti, per evitarne la frammentazione, e per costruire un’immagine vincente per la Rai, si potrebbe immaginare anche una partecipazione attiva che si basi su feedback e proposte “bottom up”. Personalmente sento come dovere della rete pubblica nazionale quello di concretizzare la necessità di preservare e diffondere la memoria di un paese unito alla sfida verso le nuove tecnologie, che una rete pubblica non può esimersi dal fare, e alla grande potenzialità che ha la Rai nella sua storia, nel perfezionamento, perché esistente ma a danno dell’immagine dell’azienda per inefficienza e incompletezza, di un grande archivio fruibile dal sito ufficiale, che riposizionerebbe l’azienda, supportato da strategie di marketing e comunicazione ad hoc, differenziandosi dalle concorrenti commerciali verso un target che richiede un intrattenimento culturale e di contenuti che attualmente solo il web riesce a soddisfare, ritagliandosi una fetta di mercato relativamente fertile, già esplorata da alcuni canali digitali Rai, rafforzando contemporaneamente l’immagine di responsabilità sociale al centro del potenziamento del ruolo già assunto e assumibile tramite il mezzo televisivo.
 
Francesca Guccione
 
Oggi la Rai corre dei rischi, perché è da quasi 10 anni che il CdA non è in grado di prendere decisioni strategiche e risolutive per l’azienda nel settore in cui opera, in un panorama di cambiamenti delle comunicazioni come quello attuale. In Italia si evidenziano: paralisi della governance, costi fuori controllo, pubblicità ridondante e influenze esterne. Bisogna ammodernare la Rai, attraverso degli interventi importanti per creare le condizioni di una riforma.
Il tema si concentra verso la figura dell’amministratore delegato, avente pieni poteri, eletto da un Consiglio d’Amministrazione composto da quattro membri eletti dalla commissione parlamentare di vigilanza, quattro da Regioni, Comuni e Province, più, ovviamente, il nuovo AD della Rai (schema metodologico che è stato adottato per la formazione del Governo Monti).
Una riforma, per avere senso dovrebbe uscire da ogni logica che conduce verso il conflitto d’interesse, ed è questo il vero male che ci affligge da quindici anni.
In realtà finora non abbiamo fatto nulla per risolvere questo problema e trovo inaccettabile che ora ci si arrenda al conflitto d’interessi, come se ormai facesse parte del paesaggio naturale dell’Italia.
Molti articoli denunciano la mancanza di una industria dell’audiovisivo in Italia, che non ha avuto, specie nel servizio pubblico, lo sviluppo e il peso che ha avuto in altri Stati quali la Germania, Francia, Regno Unito etc. E’ talmente vero, che  la  Rai ha rinunciato a giocarla questa partita, semplicemente perché qualcuno l’ha lasciata in disparte, accantonata a se stessa, in poche parole l’Italia non è stata fatta entrare sul terreno di gioco.
L’Italia non sa cosa significa competizione e mercato televisivo. Oggi per fare una buona televisione è importante investire sulla qualità e sull’innovazione, questo diventa un fattore determinante per conquistare nuove fette di mercato. Alla Rai tutto ciò è mancato.
La situazione deve essere riaffrontata e presa di petto, rilanciando una battaglia per il pluralismo televisivo, per la nascita di un vero polo industriale dell’audiovisivo, per questa via riformare la Rai, per farla competere sul mercato con altri soggetti televisivi.
Il futuro si può semplificare con una polirematica: libertà d’impresa, inesistente in Italia, per quanto riguarda la televisione. Bisogna creare una televisione aperta a tutti, con libertà creativa e industriale.
La Rai in realtà è insidiata da lottizzazione, occupazione, carenza di investimenti innovativi e dalla carenza di personale di nuova generazione (più sensibile alle nuove ed attuali tematiche dell’informazione e della comunicazione) la sola che in realtà potrebbe cambiare il volto della televisione, e conseguentemente, liberarla dai presenti modelli operativi pesanti e obsoleti.
Sostanzialmente è caduto il controllo di burocrati politicizzati (in parte provenienti dall’esterno, in parte auto-propostisi ai poteri politici di turno), molti dei quali rivelatisi inidonei, per mancanza di esperienza e formazione, ad immaginare strategie e gestire la operatività e quindi costretti alla ripetitività o al ricorso alla creatività esterna.
La vera riforma della Rai dovrebbe ricondursi verso un’informazione libera ed indipendente per i cittadini e garantire la libera circolazione delle informazioni e il libero accesso alle notizie, liberare la televisione di Stato dal controllo dei partiti e restituirla agli utenti.
La riforma dovrebbe puntare sul potenziale creativo del sistema editoriale interno dell’azienda, sul target sociale (cercando di capire i gusti e le esigenze degli utenti) e infine separare la politica dall’azienda con riduzione al minimo del numero dei componenti il consiglio d’amministrazione, mossa che risulta essere necessaria in un epoca di crisi in cui si cerca di andare verso il risparmio.
Manca una voce importante da introdurre e su cui discutere che è quella relativa al canone, unico e per questo motivo non perequativo circa la faccenda della quantità, qualità e periodicità degli interventi pubblicitari. A mio modesto avviso, occorre istituire una sorta di tassa sulle telecomunicazioni, emittente di stato o non, che il fruitore dovrà pagare semplicemente acquistando delle schede magnetiche ricaricabili o quant’altro e che daranno diritto ad un tot di ore di ascolto, in base al pacchetto prescelto, esattamente come avviene oggi per la navigazione in internet e/o l’utilizzo dei telefoni cellulari e varie connessioni internet.
Il canone è una tassa ritenuta inutile e negativa dagli utenti. Gli italiani non si riconoscono nella Rai, e nella Rai non riconoscono più il servizio pubblico già da molti anni.
 
 
 
Rossella Lacedra
 
L’ultima riforma della Rai è datata 1975; quanto è cambiato lo scenario politico e sociale in un quarantennio?
Non è soltanto un sillogismo dunque affermare che la televisione pubblica non si sia evoluta, forse regredita, ma di certo non ha saputo cogliere i segnali dell’andare del tempo.
Lo stato attuale della Rai si può definire di stagnazione, immobilismo e deficit economico derivante dalla perdita di ascolti. Il problema è duplice, da una parte la Rai è un’azienda, dall’altra è pubblica e con valore istituzionale, la partita consiste quindi nel coniugare tutti gli aspetti, senza trascurarne nessuno.
Una proposta, molto democratica sarebbe far scegliere ai cittadini i consiglieri, ma escludendo quindi del tutto i partiti politici? No. Ogni partito nomina un suo candidato, gli altri, i giornalisti, i funzionari si autocandidano (magari con delle primarie al loro interno, stile PD), il cittadino, che nel caso Rai è sia spettatore che contribuente, sceglie tra questa rosa di nomi, ognuno dei candidati presenta un curriculum completo ed esauriente, di immediata leggibilità data la composizione vasta ed eterogenea di chi voterà.
In questo modo si ricostituisce saldo il concetto di trasparenza, ma non si taglia fuori del tutto la politica, le si dà nuovamente fiducia, mettendola “sul mercato”, chiamandosi fuori da conseguenze ineluttabilmente monopolistiche.
I consiglieri così nominati andrebbero a scegliere l’amministratore delegato, o Direttore Generale, anche perché non bastano i nomi a modificare i concetti di fondo.
La programmazione, la scelta delle linee editoriali per quanto libera e discrezionale, dovrà rispondere con dei vertici così strutturati, ad una logica dicotomica, il servizio pubblico e il rendimento aziendale.
In nome di quest’ultimo aspetto è poco utile invocare una rai seriosa e autorevole che non lasci spazio a format quali il reality o i quiz, perché come qualunque altra azienda deve tener ben presente chi e cosa fanno i concorrenti.
Mediare tra il più volte nominato scopo educativo e pedagogico del servizio pubblico e gli introiti che audience e pubblicità danno, non soltanto è possibile, ma doveroso se si vuole salvare la Rai, muovendosi nel panorama reale e non nell’utopia.
Si possono produrre reality intelligenti, che abbiano un format familiare agli spettatori, ma con contenuti differenti, innovativi, e anche intelligenti.
Si può proporre la trasmissione di intrattenimento il sabato sera che sia divertente, ma non ridicola.
Si può tornare a fare dei telegiornali che informino.
Questo sistema risolutivo si potrebbe definire quasi un sistema misto, bottom-up, ma anche con direttive verticistiche, un compromesso affinché politica e società tornino gradualmente a stabilire una reciprocità.
 
Alessandro Marocchi
 
 
Ultimamente si discute molto della necessità per uno Stato democratico di possedere un servizio pubblico radiotelevisivo, a fronte dei moderni mezzi che permettono diverse piattaforme televisive e ci si domanda se il pluralismo dell’informazione non dovrebbe svilupparsi in regime di concorrenza senza una ‘tassa’ a favore di un unico concorrente. E’ da premettere che la partecipazione del Tesoro è del 99,56% e per la restante parte è della Siae, quindi l’azionista di maggioranza è il primo ministro Monti con l’interim all’Economia. I temi caldi sono un cambio di regole che sicuramente va affrontato ed esse sono: la riforma della ‘governance‘ e la stipula del nuovo contratto di servizio 2013-2015; la riforma vera e propria sarà invece di competenza del Parlamento. Quali sono, a mio avviso, i principali problemi della RAI? In primis la lottizzazione che, purtroppo, è stata un conseguenza della riforma del 1975 che ha trasformato il sistema in terreno di caccia e di scontro per la politica; in secondo luogo i costi enormi dovuti ad una gestione elefantiaca con una alto livello di improduttività e bassissima utilizzazione; la scelta di competere con la televisione commerciale negli ascolti, e inseguirla verso il basso sul terreno della qualità. Attualmente la RAI è presieduta da un consiglio di amministrazione a 16 membri, che nomina un direttore generale coadiuvato da un coordinamento. La prima ipotesi che condivido per liberare il controllo e la spartizione del sistema effettuata dal Parlamento, è la riduzione del numero di consiglieri del CDA, con poteri di indirizzo strategico e di controllo degli investimenti e dei risultati, e la nomina di un amministratore delegato unico sempre nominato dal CDA, con pieni poteri, anche per le nomine interne e i palinsesti. Questo almeno per il momento, in seguito sarebbe da considerare la reintroduzione dei concorsi nazionali per la selezione della dirigenza. Per quanto attiene ai costi enormi del sistema, essi richiedono indiscutibilmente una razionalizzazione nel personale, con il ridimensionamento dello stesso e la creazione di figure professionali multitask, che possano operare su più produzioni evitando un fenomeno oggi diffuso di sottoutilizzo del personale dovuto all’iper specializzazione. Quale visione della RAI è possibile e si vuole quindi? Ritengo fondamentale evitare il confronto con la televisione commerciale e quindi terminare questa rincorsa ai format sia per motivazioni di qualità che economiche. E’ dimostrabile che produrre all’interno della RAI costa di più solo relativamente ai problemi di organizzazione, che andrebbero immediatamente risolti, inoltre è evidente che esternalizzando troppo la produzione si rischia un calo della cultura creativa e innovativa interna, oltre al succitato sottoutilizzo della figure professionali. Condivido quindi l’ipotesi di realizzare all’interno la produzione che presenta forti caratteristiche di stabilità. Si può discutere anche di privatizzazione del sistema. Già nel 1995, in occasione di una consultazione referendaria, i cittadini avevano bocciato i tre quesiti, diciamo ‘anti-Fininvest’ e avevano approvato il referendum (promosso dai Radicali e dalla Lega) per l’abolizione delle norme riguardanti il carattere necessariamente pubblico della RAI. Il 54% degli elettori, l’11 giugno di oltre 16 anni fa, disse sì all’ingresso dei privati nella proprietà della RAI. Credo però che in Italia un sistema radiotelevisivo pubblico abbia ancora senso nel 2012, così come lo ha in diversi Paesi moderni, benestanti e di impeccabile tradizione democratica. Si pensi alla BBC britannica, al PBS americano, ad ARD e ZDF tedesche. La RAI è la memoria del Paese e ha un grande patrimonio di competenze e know how. Il sistema radiotelevisivo dovrebbe essere indipendente e si potrebbe ancora pagare il canone ma dovrebbe essere azzerata la pubblicità, che oggi ammonta a più di un miliardo di investimenti. Un sistema con meno ascolti forse ma più incentro al “servizio pubblico” con più cultura, giornalismo di approfondimento e di inchiesta e programmi sperimentali.
Il canone televisivo, come il bollo auto, sono sicuramente le tasse più evase nel nostro Paese, e questo rappresenta un altro nodo da risolvere. La somma complessiva sottratta alla RAI dovrebbe aggirarsi sui 700 milioni di euro, secondo le stime delle associazioni dei consumatori. La percezione della RAI attualmente è molto negativa, lo si evince da questi dati. Revisione organizzativa e riscossione del canone come tassa di Stato rappresentano le chiavi di volta di un nuovo processo per   il sistema radiotelevisivo.
 
Emilia Secci
 
La condotta tenuta dai dirigenti Rai nell’affrontare il caso Celentano a Sanremo, ha posto l’accento sulla loro assoluta incompetenza. Quella che tempo fa veniva definita come l’industria culturale più importante del Paese, si ritrova oggi completamente allo sbando, in totale crisi identitaria e con un passivo non ancora allarmante, ma destinato a crescere nei prossimi anni, come ricordato dal giornalista del Corriere della Sera Massimo Mucchetti, in un suo recente editoriale.
L’attuale Presidente del Consiglio Mario Monti, ha dichiarato di volersi occupare della Rai, di cui, ricordiamolo, il governo è azionista di maggioranza.
Ma quali sono i principali problemi che è chiamato a risolvere? Esaminiamoli punto per punto:
Ø       Mancanza di organizzazione: in Rai non si capisce chi fa cosa e perchè, vince la politica del pressapochismo e dell’improvvisazione;
Ø       Degenerazione del processo di lottizzazione, una pratica da sempre in uso in Rai, ma che negli ultimi anni ha raggiunto livelli fuori misura. Questo meccanismo in cui è la politica a scegliere i dirigenti e talvolta i conduttori televisivi, si traduce nella presenza di personaggi totalmente privi di meriti e competenze. È il riflesso di ciò che in buona parte è presente in parlamento oggi, per l’appunto personaggi privi di meriti e competenze specifiche;
Ø       Perdita di credibilità e autorevolezza. Emblematico in tal senso il caso del TG1 degli ultimi anni;
Ø       Tradimento della mission. Se la Rai vuole porsi come servizio pubblico, ed è obbligata a farlo, quantomeno per dare una ragion d’essere al pagamento del canone, occorre che “riveda” i suoi contenuti e le sue linee editoriali;
Ø       Incapacità di intercettare una fetta di pubblico più giovane;
Ø       Troppi sprechi e troppa esternalizzazione.
 Quali sono allora gli interventi più urgenti che il governo potrebbe attuare in vista della    tanto agognata riforma?
Ø       Apparato organizzativo e dirigenza scelti in base a una politica meritocratica: i curricula ricominciano ad avere un loro peso;
Ø       Ridurre l’importo del canone, la tassa più odiata e più evasa dai cittadini italiani. A questa decisione non può che seguire un calo della pubblicità e un ripensamento radicale dei contenuti proposti. Gli italiani si domandano: perché dovrei pagare 112 euro per una tv scadente e caratterizzata da una presenza così importante di pubblicità?
Ø       Per definire e proporre i contenuti bisogna capire cosa l’utente vuole. Assecondare quanto più possibile la richiesta dei contribuenti;
Ø       Evitare gli sprechi: se si decide di esternalizzare lo si fa con cognizione di causa e solo per determinati programmi;
Ø       Politica di maggior trasparenza: che fine fanno i soldi del canone? Chi stabilisce e perchè che quella persona debba ricoprire quel ruolo? Il cittadino ha il diritto di sapere, basta con la segretezza, è il momento di mettersi in discussione, fare autocritica e aprirsi al confronto con chi paga per avere un servizio;
Ø       Ridurre l’evasione del canone.               
 
Erica Sirgiovanni
 
Proposte per una riforma della Rai (e della società italiana)
Che servano nuove regole per la gestione del servizio pubblico televisivo è un osservazione quasi tautologica e oramai condivisa dai più. La sensazione comune, come ha affermato recentemente Sergio Zavoli, Presidente della commissione di Vigilanza Rai, è quella che “Un ciclo epocale sia oramai giunto alla fine”. Si conclude così un’era in cui una governance fondata sulla lottizzazione per mano dei dei partiti, ha portato ad un’implosione lenta e dolorosa -quasi contemporanea a quella del sistema partitico nel paese – del servizio pubblico radiotelevisivo. Ma il sipario cala definitivamente anche sulla lunghissima stagione che ha visto la Rai ricoprire un ruolo nodale nel laborioso processo di ammodernamento culturale del paese.
La Rai, esattamente come il sistema politico italiano, ha bisogno di una nuova governance, di nuove regole e soprattutto di indipendenza: servizio pubblico televisivo e partiti, se vogliono continuare a ricoprire il ruolo strategico che hanno ricoperto per più di sessanta anni di storia di questo paese, devono necessariamente riformarsi.
L’Ocse, il Centro Internazionale di Studi Economici di Parigi, pochi giorni fa ha suggerito all’Italia di privatizzare alcuni dei suoi beni pubblici e nella lista è compresa anche la televisione di Stato. L’ipotesi, che già nel ’95 era stata avallata dalla maggior parte degli italiani attraverso un referendum, sembra almeno momentaneamente, non essere stata presa in considerazione dal Ministero per lo Sviluppo economico.
In un periodo di delicata transizione politica e di estremo scollamento sociale, quali le possibili innovazioni in grado di integrare qualità e ammodernamento in una logica di competitività? E ancora; quale la condicio sine qua non necessaria per dar vita ad un reale confronto sullo stato di salute del servizio pubblico radiotelevisivo, che non si limiti ai proclami indispettiti dell’ultimo tra gli esponenti politici più in voga del momento?
Necessaria e irrimandabile, a mio parere, l’approvazione di una seria legge sul conflitto di interessi e di un’altrettanto seria normativa antitrust. Bisognerebbe poi prendere in considerazione la possibilità di privatizzare anche una sola parte delle reti pubbliche, cercando di costruire un nuovo modello di servizio pubblico più vicino a quello di altre esperienze europee. Infine, si potrebbe pensare di inserire il canone all’interno della fiscalità generale, cercando così di ridurre al minimo l’evasione fiscale.
Insomma, prescindendo dall’appuntamento dettato dalla scadenza dell’attuale Cda, l’esecutivo è chiamato ad agire il prima possibile per mettere fine, una volta per tutte, alle spartizioni barbariche di viale Mazzini. Un consiglio di amministrazione tecnico (ridotto), espressione dei “tecnici” (Ministero del Tesoro), potrebbe essere un primo passo verso la modernizzazione di un’enorme struttura in cui le lancette degli orologi sembrano essersi fermate più di quindici anni fa.
Certo è che se Monti dovesse riuscire anche in quest’impresa titanica, ai partiti verrebbe assestato l’ennesimo pesantissimo colpo; forse quello definitivo, quello che li costringerebbe per forza di cose ad una completa ridefinizione identitaria. E chissà se tra le righe dell’appello alla cultura firmato qualche giorno fa da tre dei Ministri chiave di questo governo, non si possa leggere anche un messaggio di cambiamento che potrebbe avere il suo motore propulsore proprio nella nuova (ideale) vocazione del servizio pubblico radiotelevisivo:
 “Potrebbe sembrare paradossale cercare di mettere la cultura al centro del dibattito politico in un momento in cui l’Italia è sottoposta a tensioni di natura finanziaria e si trova nel bel mezzo di una nuova recessione […] le prospettive di ripresa e di tenuta della coesione sociale sono legate a processi virtuosi di cambiamento che scaturiscono e sono guidati, se vogliono farsi fondamenta solide di sviluppo duraturo, soprattutto da una spinta di natura culturale: spinta che interessa la nostre prospettive, il nostro civismo, il nostro senso di responsabilità, il contenuto della nostra democrazia, il nostro rapporto con la cosa pubblica e il bene comune“.
(24-02-2012 Il Sole 24ore, Lorenzo Ornaghi, ministro dei Beni culturali; Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico e Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca)
Insomma, è necessario tornare ad investire nella cultura; è indispensabile. Rimarrà solo un pensiero utopico quello di una nuova Rai capace di contribuire alla ripresa culturale di questo di paese?
 
Corrado Tardonato
 
In una condizione emergenziale del Paese, la necessità della riforma della RAI rappresenta, se vogliamo, la cartina di tornasole di un periodo di riforme(soprattutto politiche) necessarie per superare l’impasse, prima tra tutte la quella dell’articolo 18 relativa al mercato del lavoro.
Prendendo in considerazione il contesto istituzionale   all’interno del quale ci muoviamo , e, in attesa di una riforma, si potrebbe ipotizzare una costruzione del vertice secondo lo schema metodologico adottato per la formazione del governo Monti,oppure la riorganizzazione del rapporto organizzativo( all’interno della RAI) tra la DG e le autonomie organizzative, ecc., con il presupposto che ogni intervento di tipo preliminare( e poi successivo) venga compiuto nel convincimento che la RAI,soprattutto in questa fase delicatissima della storia italiana, sia un’azienda che funziona, dotata di un efficace apparato tecnico produttivo e che gode(nonostante l’attacco dei concorrenti televisivi) di una reputazione nazionale molto forte.
La cifra più significativa del fenomeno in questione , che fa da collante e nello stesso tempo da corollario è perfettamente incentrata sul concetto di “servizio pubblico”,che è parte di un progetto per la valorizzazione dell’identità e lo sviluppo del Paese. E’ evidente ormai da molti anni che la prerogativa dell’attività parlamentare circa la risoluzione della suddetta questione è ,a mio avviso, animata da logiche di controllo capillare e nello stesso tempo strategico, (vedi tra le altre cose la nomina a consigliere Rai di esponenti legati al partito di governo) capaci di stravolgere la mission della TV pubblica, venendo meno il suo fine ultimo, cioè il perseguimento di interessi generali a sostegno di quei segmenti di cultura nazionale che hanno bisogno di un volano televisivo per potersi affermare( nel rispetto del “pluralismo” dell’informazione sancito dalla riforma del 1975in cui nacque RAI 3).
 Fu appunto la legge del 1975 che diede un forte impulso all’affermazione del pluralismo dell’informazione, ponendo fine (almeno inizialmente)all’insostenibilità relativa alla gestione dell’azienda radiotelevisiva in stretto rapporto con il quadro di governo e soprattutto con il partito di maggioranza( allora la DC).La riforma riguardò la struttura organizzativa interna, in cui , ciascuna autonomia organizzativa acquisiva autonomia gestionale e il consiglio d’amministrazione adottava logiche di produzione del “servizio”all’insegna del pluralismo. Il potenziale trasformativo di quella riforma trova da una parte applicazione, dall’altra instaura delle forme concorrenziali tra i soggetti dell’informazione che, come noto, sono state diversamente risolte e si sono assestano entro un assetto duopolistico, configuratosi in seguito al proliferare delle reti nazionali del gruppo Mediaset che hanno comportato in un primo momento la cristallizzazione entro logiche strategiche e di controllo il tanto sospirato pluralismo dell’informazione , successivamente hanno frenato lo sviluppo del prodotto televisivo pubblico. I motivi più emblematici di tale configurazione, rinvenibili a partire dagli anni novanta (processo iniziato verso la metà degli anni ottanta),possono essere individuati sostanzialmente in due fattori: l’iperburocratizzazione della struttura organizzativa della Rai( DG, coordinamento , autonomie organizzative), i continui sprechi che ciascuna autonomia organizzativa produceva, prima dovuti alla presenza della DC e poi per la presenza della TV privata(Mediaset) che comportò una degenerazione della struttura organizzativa interna( in cui,dati gli sprechi, conveniva produrre all’esterno) e di conseguenza uno stravolgimento del prodotto televisivo, sempre più plasmato dai format esterni orientati al raggiungimento del profitto. Ciò ha comportato una strumentalizzazione a scopi auto-conservativi di gran parte delle risorse disponibili da parte di Mediaset e di riflesso la competizione per l’informazione si è autolimitata fino al trasferimento all’interno della Rai del personale di Mediaset. Un forte impulso è stato dato dalla legge 112 del 2004, meglio nota come legge “Gasparri”, che prevedeva una riforma generale del sistema radiotelevisivo, presentando elementi che lasciavano presupporre l’andamento odierno, come l’aumento del limite del tetto antitrust che tra l’altro viola il principio del pluralismo sancito dalla legge del 1975, oppure l’incentivazione della pubblicità televisiva, oppure ancora la mancata chiarezza del limite per lo switch- off dell’analogico. Elementi che andavano a rafforzare e rafforzato la posizione di Mediaset e di Berlusconi.
Alla luce di ciò e della crisi politica attuale, il ministro Monti ha auspicato la risoluzione della questione Rai a margine della riforma dell’articolo 18, individuando alcune soluzioni strategiche. Innanzi tutto è escluso un commissariamento dell’azienda a patto che i partiti collaboreranno( la sfida più problematica), riduzione del Cda da nove membri a cinque, e quest’ultimo aspetto avrebbe una duplice valenza: in prima istanza verrebbe garantita la separazione della politica dall’azienda , e in seconda istanza rientrerebbe appieno nella crisi economica e nella logica dei tagli imposta dal governo; la novità più importante riguarderebbe la figura dell’AD chiamato a sostituire la figura del DG, accantonando temporaneamente l’ipotesi privatizzazione; riforma quindi che colpirebbe la governante senza intaccare il canone. Altra questione delicata quella del canone, la più odiata dagli italiani, che quest’anno è incrementato fino a 112 euro, alimentando ancor di più il problema evasione del canone. Si ipotizzerebbe una riduzione dello stesso tale per cui,gli italiani, a patto che la Rai torni ad acquisire la fisionomia di servizio pubblico, si riconoscano in essa limitando il fenomeno in questione.
Quindi è necessario secondo me rilanciare una battaglia per il pluralismo televisivo, affinchè nasca un vero polo industriale dell’audiovisivo capace di competere con altri soggetti televisivi che investendo in innovazione e qualità, conquistano nuove fette di mercato. Abbiamo diritto a puntare in alto,perché questa è una delle partite che decide le sorti di una nazione: uno sviluppo libero dell’industria televisiva può dare molto in termini di crescita ed occupazione. Per far ciò è necessario partire con il piede giusto:cioè la presa di coscienza del progressivo processo di annichilimento e svuotamento della Rai, e le mosse dell’attuale DG Masi vanno tutte in questa direzione.
 
Chiara Turrini
 
Il mezzo televisivo è sempre meno frequentato da quelle fasce della società più aperte alla tecnologica: iphone, ipad ecc. diventano gli unici hub multimediali, piattaforme da cui fruire di tutti i servizi, televisione compresa. Nella nostra contemporaneità anche il fattore tempo libero tende a ridursi, a scapito della formula classica divano+tv. Nonostante questi elementi salvare la Rai in quanto tv di Stato dalla deriva generalista e della mala-gestione è un’operazione che bisogna compiere non solo per salvare un pezzo di Storia italiana ma anche e soprattutto per rifocillare l’identità nazionale attraverso i 3 canali. Un obiettivo ambizioso, certo, ma che con una riforma sostanziale potrebbe essere raggiunto. I drivers di tale operazione devono essere: appartenenza, cultura, eccellenza.
 
La struttura
Impossibile togliere la politica dalla Rai, ma fino a poco tempo fa sembrava impossibile anche togliere la politica dal governo. E invece oggi il governo di emergenza è guidato da tecnici, e il Parlamento che deve legittimare le sue scelte è unanime e quasi del tutto coeso.
Anche per la Rai andrebbe rinnovata e snellita la struttura burocratica, ridimensionando i direttori e privilegiando le competenze specifiche in campo artistico e solo per il minimo indispensabile in campo dirigenziale.
Tredicimila dipendenti sono troppi. Serve una mediazione con i sindacati per introdurre massima flessibilità per gli orari e la mobilitazione sul territorio: per i dipendente più vicini alla pensione, ricorrere a misure di mobilità, cassa integrazione ecc. per ammorbidire ma rendere rapida l’uscita dal mondo del lavoro. Durante queste manovre va pianificata ed attuata una robusta comunicazione interna per comunicare il cambiamento ed affezionare i dipendenti, cercando però di trasmettere una nuova cultura meritocratica.
Queste misure permetterebbero di risparmiare parte delle spese fisse, capitali che potrebbero essere re-indirizzati nella produzione.
Il canone, immediatamente dopo la riforma, andrebbe abbassato in modo da facilitarne il pagamento da parte di tutti, ma l’offerta deve essere temporanea: la possibilità di provare un prodotto nuovo a prezzo ridotto, sapendo che il valore di quel prodotto è alto e che quindi dopo due-tre anni se ne dovrà pagare il prezzo pieno. Ma perchè le famiglie dovrebbero pagare 150 euro di canone Rai?
Perchè il prodotto, ritrovata una seria corporate identity, diventerebbe attrattivo e di alta qualità.
 
Il prodotto
La Rai dovrebbe smettere con il generalismo ispirato dalla diretta concorrente, Mediaset, i cui programmi di punta (considerati a volte trash tv: Grande Fratello ecc.) sono comunque in crisi di ascolti. La storia dell’emittente è quella di un canale soprattutto educativo, culturale, di svago leggero ma tutt’altro che volgare. Io penso che la società stia pian piano riscoprendo questi valori. E siccome l’offerta televisiva è vastissima, grazie anche al digitale, la Rai nei sui tre canali principali dovrebbe darsi una connotazione forte e raggiungere l’eccellenza nelle specialità prefissate. Ad esempio: destinare Rai 1 alla cultura, RaiUno Storia e Storie, ad esempio, dove convogliare programmi culturali ma riproposti in una chiave giovane e fresca. RaiDue intrattenimento, con programmi storici come Carosello e Non è la Rai ristrutturati secondo i tempi, senza però adeguarsi alle volgarità degli altri canali. RaiTre invece potrebbe essere omologa di Rainews, solo più varia e meno statica, avvalendosi di contributi dall’estero.
La produzione di fiction dovrebbe secondo me essere ridotta e calibrata secondo la possibilità di raggiungere eccellenza. Finora si è puntato sulla quantità, è ora di virare verso la qualità. Fiction come Montalbano, ad esempio, vengono prodotte in Italia, incamerano grandi successi di ascolto e poi vengono trasmesse anche all’estero. La Rai deve essere anche un volano di qualità televisiva italiana nel mondo, come una volta lo fu Cinecittà.
 
Davide Viola
 
Il delicato processo di riforma della RAI dovrebbe a mio avviso correre su due binari paralleli, più organizzativo da un lato e più politico dall’altro. Prima di esporre alcune considerazioni strettamente legate a questi due aspetti vorrei condividere un breve ragionamento che prendendo la RAI come spunto guarda al sistema paese come sfondo.
Parlare di crisi oggi è il motivo ricorrente di quasi la totalità dei ragionamenti che puntano a determinare processi di trasformazione nel paese. Ma la crisi non è ascrivibile solo al settore economico e produttivo: imprese e banche, lavoro e welfare, conti e debito pubblico e così via… A mio modo di vedere troppo si sottovaluta l’incidenza dell’impoverimento culturale degli italiani e delle italiane come causa diretta dell’impoverimento economico del paese. In una famosa “parabola” Saint-Simon ipotizzava (e dimostrava) la rovina per la Francia di inizio 800 nel caso in cui fosse stata cancellata l’eccellenza dei suoi ceti produttivi. Quello che accade oggi nel nostro paese non è poi così diverso dalla fantastica e catastrofica previsione del socialista francese. Assistiamo da anni ormai, ad un costante livellamento verso il basso del livello culturale e quindi anche professionale dei cittadini, incoraggiato da un sistema di comunicazione che costantemente presenta come modelli di successo e quindi invidiabili e auspicabilicategorie sociali (e professionali) per le quali il pensiero critico è un optional. Perché..? avessimo un mese a disposizione sarebbe interessante parlarne ma sintetizzando all’estremo possiamo dire che solo in un contesto di così poca “cultura di massa” molte delle vergogne del nostro paese sono potute passare senza troppo clamore. In questo contesto la Rai ha giocato la sua parte, ha avuto le sue responsabilità, e non potrebbe essere altrimenti essendo la Rai oggi come oggi espressione seppur indiretta delle stesse forze politiche che hanno determinato e voluto questa catastrofe culturale. L’aver inseguito Mediaset sul terreno della produzione della TV spazzatura mettendo pian piano da parte un’ idea di televisione di qualità, abbandonando quasi del tutto quella funzione pedagogica per anni fiore all’occhiello dell’impresa, rappresenta una chiara assunzione di responsabilità.
Una parte del paese a metà anni novanta andava in una direzione e la Rai è stata il suo principale mezzo di locomozione, azzerando la concorrenza (a mediaset)e abbassando la qualità della sua proposta. Chissà cosa sarebbe successo se negli ultimi anni alle schifezze prodotte da Mediaset la Rai avesse risposto con una programmazione diametralmente opposta sia nella maniera di fare intrattenimento che giornalismo.
Ovviamente tutto ciò non è piovuto dal cielo, ma è stato il frutto di consapevoli scelte politiche che onestà intellettuale mi porta a ritenere bipartisan. Da qui la riflessione sul controllo politico effettuato sulla Rai ad opera del parlamento. Ritengo che ci sia un problemadi fondoin questo meccanismo, ossia l’utilizzo di pratiche da Manuale Cencelli nel decidere i posti chiavi dell’azienda e quindi le linee editoriali. C’è del marcio in Danimarca… mi verrebbe da dire, e non può non essere così nel momento in cui si constata che siamo tutti testimoni di un sistema nel quale l’informazione è soggetta al controllo politico, nel quale la linea editoriale di una rete televisiva pubblica è direttamente sovrapponibile alla linea politica di questo o quel partito o coalizione, nel quale agenda politica di governo e proposta televisiva invece di controllarsi e stimolarsi a vicenda sono il prodotto della stessa cabina di regia.
Insomma, se per un lato è comprensibile che sia l’organo di rappresentanza di tutti i cittadini, il parlamento, a controllare il principale mezzo di comunicazione del paese, per l’altro questo controllo troppe volte si è dimostrato funzionale a trasformare la Rai in una struttura serva (o per lo meno timorosa) del potere. Da qui ne è conseguito perdita di pluralismo, democrazia interna e aumento di censura da un lato, e mancanza di creatività e innovazione dall’altro. Forse è impossibile pensare ad una Rai completamente scollegata dal controllo politico, soprattutto ora nel momento in cui la politica deve dare risposte ai bisogni e ai problemi dei cittadini, voltare pagina e puntare verso una stagione di riforme strutturali del paese. Questo però non significa che non si possa ragionare in un’ ottica volta a estirpare quelle aberrazioni che questo sistema ha prodotto. Possiamo pensare ad un sistema nel quale il rapporto tra Rai e politica sia più trasparente? Nel quale la dialettica Rai – parlamento non si riduca alla nomina di dirigenti in base all’appartenenza ad una determinata area politica? Nel quale infine l’obiettivo della Rai torni ad essere quello del fornire un servizio che sia di maggior qualità possibile?
Il sistema democratico\rappresentativo moderno (almeno in teoria) si basa su un concetto fondamentale: la rappresentanza degli interessi dei cittadini sintetizzata nel ruolo del parlamentare va e deve andare di pari passo con l’autonomia del parlamentare stesso anche (e soprattutto) dal potere che lo ha nominato. Nel diritto esistono tanti altri esempi di enunciazione di questo principio, come il procedimento che porta alla nomina dei giudici della Corte Costituzionale o del Presidente della Repubblica. Forse è su questa strada che bisogna muovere i primi passi, pensando ad un sistema di nomine e di gestione (e meno di controllo) che nasca dalla politica ma che da li si muova in piena autonomia. Questo porterebbe all’evitare situazioni come la nomina di dirigenti incapaci o per lo meno “fuori settore” messi li solo perché esponenti o peggio amici del politico di turno. Forse si potrebbe anche pensare ad un sistema nel quale il potere politico fissi solo i punti cardine dell’azione strategica della Rai, con procedimenti decisionali che siano inoltre posti in essere con un procedimento a maggioranza assoluta del parlamento così come previsto per esempio per i progetti di riforma costituzionale, ma allo stesso tempo con un obbligo sancito per legge di giungere alla presa di decisione (questo per evitare una prevedibile impasse del sistema). Una specie di “legge Rai annuale” (o biennale o triennale) sul modello della legge finanziaria. Il tutto potrebbe essere più snello se sviluppato e discusso precedentementeall’interno di una specifica commissione parlamentare.
Va quindisottolineato che per politica non dovremmo intendere quel sistema di pesi e contrappesi che si indentifica nella dialettica partitica ma l’insieme delle differenti anime e sensibilità nazionali di cui il parlamento dovrebbe essere la rappresentanza e la sintesi.
Questo processo ha bisogno di un contesto fatto di trasparenza e legalità, da questo punto di vista il dibattito che si svolgerà attorno alla riforma della rai dovrebbe coinvolgere il dibattito ben più ampio sui problemi (trasparenza e legalità appunto)che affliggono il nostro paese al punto di essere considerati quasi come caratteristiche dell’italianità.


 
COMMENTO AI CONTRIBUTI DEGLI STUDENTI
AL PROGETTO DI RIFORMA RAI
 
Luigi Mattucci
 
Sono rimasto positivamente impressionato dalla serietà (solo in qualche caso seriosità) delle proposte avanzate.
Nello stesso tempo mi ha sorpreso (questa volta negativamente) la rinuncia a qualunque ipotesi “rivoluzionaria” come erano state, ai nostri tempi ,i NIP (nuclei ideativo-produttivi ), la istituzione di canali di “genere” (sempre donne, queer ecc.), lo sfruttamento delle nuove tecnologie di produzione e distribuzione per organizzare autonomamente iniziative di programmazione di base che costituissero anche una opportunità di imprenditorialità giovanile.
Segni, tutti questi, di una sostanziale freddezza (forse addirittura di non conoscenza) della platea giovanile nei confronti della televisione come offerta culturale ma anche come forma di imprenditorialità.
Per cui, di fronte alla sollecitazione a proporre interventi innovativi o correttivi della istituzione (o impresa ) RAI, ci si è limitati a riorganizzare – con differenti proporzioni – gli ingredienti tradizionalmente proposti dalla stampa o dai partiti ( pur considerando questi ultimi come una delle cause più forti della crisi del servizio pubblico ).
I principi innovativi a cui ci si dovrebbe ispirare per una nuova legge sulla Rai potrebbero in sintesi essere i seguenti :
                       derivazione parlamentare ;
                     separazione della funzione pubblica da quella di intrattenimento , con differenti forme di finanziamento fino alla privatizzazione di questa seconda attività;
                     riduzione della pubblicità televisiva in generale;
                     riduzione del canone e generalizzazione del pagamento;
                     riduzione dei componenti del CdA;
                     programmazione Rai dedicata al sostegno e alla diffusione ( anche all’estero ) della produzione e del patrimonio artistici dell’Italia;
                     riduzione dei dipendenti della Rai,
                     rientro della produzione ( e, soprattutto, della ideazione ) in appalto ;
                     istituzione di concorsi ( e cioè di formule oggettive di valutazione ) per ingressi, carriere e nomine al vertice del servizio pubblico.
Complessivamente (e conclusivamente ) a me sembra che i nostri ragazzi – sia pure attenti , informati e ordinatamente in grado di affrontare il problema istituzionale e gestionale della Rai – manifestino però ( e qui, per quello che penso , sfondo una porta aperta ) un forte scetticismo sulla possibilità e sulla capacità delle “idee” ( vogliamo dire della politica ? ) di cambiare profondamente le cose nel nostro paese.
Il ripetuto interesse alle formule di ingresso “a concorso“ mi fa invece pensare all’ansia che le giovani generazioni debbono avere rispetto a istituzioni (o attività) dalle quali si sentono esclusi (negli anni ’70 si sarebbero proposte le occupazioni..).
Il prossimo seminario lo vorrei fare (scherzo…. ) dopo la proiezione del film di Bertolucci “Dreamers“.