Riflesssioni dopo. Sul dopo. E un’attenzione specifica a Milano (6 aprile).

La rivendicazione da parte di Umberto Bossi di guidare Milano, la capitale del suo regno – legittimo obiettivo per chi ha costretto l’alleato a cedergli già la guida di Piemonte e Veneto e dargli una preminenza nel suo territorio di maggior radicamento, la Lombardia – dovrebbe aver fatto fare riflessioni reattive a qualcuno.
Avevo promesso qualche spunto post-elettorale su Milano e la Lombardia. Mi pare che si sono ampliate le ragioni (mi scuso tuttavia se la breve vacanza pasquale rende questa lettera e l’allegato materiale un po’ più ampio del previsto). 
Penso che il centro-destra ora avrà qualche mese per frizionare su questo terreno di leadership. Lasciando a Roberto Formigoni tutta la difficoltà di tradurre in una governance accettabile il livello di scontro sotterraneo che si è espresso nel quadro dell’esito delle regionali: a Venezia i leghisti hanno invalidato Brunetta, a Lecco i ciellini (o comunque i pidiellini) hanno invalidato Castelli. Saranno mesi duri per loro. La ricandidatura di Letizia Moratti a Milano passa attraverso rapporti più lividi (bilateralmente) con la sua maggioranza. E’ vero che le risorse finanziarie sono una condizione del patto. Ma gli irrisolti locali (strategia, identità, attrattività, coesione, etica pubblica) aprono inquietudini.
E penso anche che saranno mesi duri per il PD che non solo deve uscire da scontri nazionali riesplosi (partito inclusivo o schieramento inclusivo, leadership che corrisponde ad apparato o a credibilità sociale,eccetera) ma che deve guardarsi in faccia in Lombardia e a Milano dove alla pareti, scadenza dopo scadenza, sono stati appesi i ritratti più scoloriti che la storia della sinistra qui ricordi. Saranno mesi duri per loro.
Verrebbe da dire: mesi dunque da utilizzare. Mesi da mettere al servizio di un progetto che restituisca al tema del rapporto tra società e politica alcune categorie che sono state gravemente dimenticate (ma non dalla Lega che ci ha seriamente lavorato sopra). Società e politica da ricondurre insomma al caso di Milano. Un contesto segnato dall’elettricità dei comportamenti di moda, ma in una certa pietrificazione dei codici che appartengono alla vita democratica.
 
Ho utilizzato la proposta del direttore di Mondoperaio Luigi Covatta  di realizzare sul numero 3/2010 un contributo ad una analisi aperta da Giuseppe De Rita sull’Italia in cui si sterilizza l’identità nazionale e si creano i poteri dei cacicchi e a cui hanno contribuito – con il loro pensiero ben più robusto del mio – in molti, tra cui Luciano Cafagna e Giorgio Rebuffa. Il fascicolo è in uscita in questi giorni.
Per ora si tratta di un appunto (qui un poco ampliato) più che di una analisi. Da un lato  un punto di maturazione della breve, intensa e invalidata esperienza di campagna elettorale. E  forse anche un punto di partenza per una riflessione diciamo operativa che guardi a questi “mesi da utilizzare” nello spirito descritto. Almeno che guardi al bisogno di un luogo e un modo di approfondire quel bisogno di discussione che è il risultato più vistoso della proposta di temi e argomenti che ho effettuato da inizio d’anno (Philippe Daverio mi diceva nei giorni scorsi “come ci manca ora un Club Turati!”). 
Per rifiutare intanto l’idea che delle scadenze della comunità milanese si parli ancora  più a colpi di gossip che di contenuto.
Troppi – che potrebbero partecipare, dire la loro, contare qualcosa – passano il tempo a guardare dalla finestra. Pur ancora (vagamente) interessati alla politica fanno ad altri domande vaghe  su chi sarà il candidato, su come si risolveranno gli scontri di potere innescati a destra e a sinistra. Una parte significativa dei ceti produttivi e professionali, una parte grande della gioventù che sta entrando nel mercato del lavoro non pensa di esprimere un  pensiero che possa contare nelle scelte. Che è cosa diversa dal voto. Il crinale dell’astensione per costoro è sempre accarezzato.
Si comincia a capire che gli apparati professionali della politica pensino che sia meglio avere a che fare direttamente con chi sottosta solo alle regole pubblicitarie della campagna elettorale. Con chi risponde a stimoli da consumatore. L’elettorato critico infastidisce entrambi. Quel che si chiamava “voto d’opinione” ha esigenze non risolvibili con la cultura della  politica che proviene  oggi dai conventi. Dunque pecorelle al voto oggi, garanzia di delega senza partecipazione domani. 
Che questa atrofia investa anche il ceto imprenditoriale è il colmo. Vuol dire che non hanno ancora capito cosa significhi la storia di un tale Anemone che, nel più assoluto anonimato,  da solo si mangia una fetta impressionante di opere pubbliche nel nostro paese.  Ugualmente  fanno finta di non capire il significato inquietante di indagini sull’arrivo della finanza mafiosa nel riciclaggio di capitali reso possibile dalle crescenti compiacenze dell’economia milanese.
Aggiungo un dettaglio di contesto. Cade la circostanza di un evento promosso dall’Università degli Studi di Milano insieme alla Cattolica per onorare la memoria di Giorgio Rumi, storico fine e di vaglia, cattolico-liberale (Andrea Riccardi preferisce la dizione “guelfo liberale”) di cui molti hanno parlato presso Fondazione Cariplo in modo da restituire qualche speranza sul tema che questo articolo ritiene di sollevare. Piero Bassetti, centralmente, ha sottolineato così un pensiero di Rumi: la storia non la fanno i prìncipi, ma le società e le loro classi dirigenti
Già, un evento in controtendenza rispetto al teatro della politica che viene ormai scelto per riempire le cronache sui media. Così da pensare che alcuni ambienti che hanno fatto la storia di Milano – a cominciare dalle correnti sostanziali del risorgimento, quella repubblicana e quella cattolica liberale per finire alla loro evoluzione nel novecento tra riformismo socialista e umanesimo cattolico – non abbiano più neanche interesse ad uscire dal loro sguardo separato, degnandosi di fare notizia. Ritrovando percorsi anche  chi ha presidato di più libertà e diritti civili, tra cui radicali, volontariato civile, associazioni ispirate alle priorità costituzionali.
Allego il testo, un filo più ampio, dell’articolo che sul fascicolo in distribuzione di “Mondoperaio” ha avuto per titolo “Classe generale cercasi” riprendendo qui, senza sconvenienze per chi avvertisse stridore causato dai significati diversi che nel tempo assumono i luoghi della politica e della cultura, il titolo originale (meditata provocazione) di “Riscossa borghese”.
Grazie a chi avrà la pazienza di leggerlo.

 
Milano, 6 aprile 2010
Stefano Rolando

“Riscossa borghese[1]
Un’ipotesi di ricomposizione lib-lab nella crisi del bipolarismo.
Milano, possibile una sperimentazione in vista del 2011.
Stefano Rolando [2]
 

A costo di perdere alcuni pezzi di analisi per andare al sodo, penso sia venuto il momento di parlare di politica come una volta. Quando si discuteva di “posizionamento” con una certa attenzione ai blocchi sociali rappresentati. “Blocchi” sono, di solito, aggregati stabilizzati in forma di alleanza, dunque parti sociali che intercettano un interprete politico. Ed è venuto il momento di riconoscere – ri-conoscere, perché non è una tesi nuova – che il blocco sociale tra ceti medi impiegatizi e ceti popolari aperti a fasce importanti di proletariato ha scelto in parte cospicua il berlusconismo per la sua capacità di tenere insieme forzosamente e suggestivamente nord e sud, casalinghe e donne in carriera, vip e vamp, operai e capetti, bulli e pupe. Soprattutto tante gente comune. Un miracolo, tessuto dal grosso omogeneo del vero partito di Berlusconi, non Forza Italia ma l’insieme delle reti tv sue e controllate. Non un partito-azienda (anni ’90) ma l’azienda-partito. Soprattutto un miracolo è stato tenere insieme Cicchitto, Calderoli, Gasparri e la vecchia DC di provincia (pur scalfita da Casini e Rutelli). Questo blocco è strutturalmente populista, annuncista, affarista, comunicativo, ottimista. Lo chiameremo per semplicità italoperonista. Tanto che Giuseppe De Rita lo immagina (per la verità anche quando prende le forme del centro-sinistra) sorretto da cacicchi. Con dentro un brandello labur-sindacale. Capace di offrire anche spazi di facciata all’alternativa borghese (Tremonti). L’italoperonismo ha scelto come avversario prediletto (anche per consonanze culturali) il giustizialismo dipietrista. Lo ha così fatto crescere a dispetto del maggior oppositore politico, innescando competitività a sinistra e sospingendo il PD (nella quadra di apparati della sua costituzione) in una sintesi catto-comunista più di quanto la espresse il PCI. Il blocco sociale medio-borghese e operaio (fasce operaie stabilizzate) è qui minoritario rispetto all’invaso cetomediopopolare berlusconiano. Il dramma, per il centro-sinistra, rappresentato dalla distruzione dei socialisti ha comportato la fine di un contenitore strategicamente intermedio interessato al cambiamento dei ceti piccolo e medio-borghesi. E quando dico “interessato” ammetto la doppiezza di una proposta un po’ arrivista e spavalda (il craxismo da clan) ma riuscendo a tenere (sempre Craxi con alcune filiere del gruppo dirigente) voti e consenso anche per una politica ancora seriamente progettuale, capace di interpretare il continuo cambiamento sociale (nuovi equilibri tra Stato e mercato). Una parte del PCI aveva avuto intuizioni analoghe che non emersero a sufficienza e non si coalizzarono. Via i socialisti, questo contenitore si è infranto e ha redistribuito la sua energia a destra e un po’ a sinistra perdendo la forza che aveva stando concentrato nel punto nevralgico (il famoso ago della bilancia). Resta poi a sinistra il goscismo (no-tavismo, antiglobalismo, neoguevarismo, eccetera), che in una società capitalistica competitiva ha una fisiologia attorno al 10 % (l’ecologismo italiano avrebbe invece una sua naturale collocazione nelle battaglie radicali per le riforme).
Un discorso a se stante meriterebbe la crescita elettorale della Lega che semplifica in senso popolare e autarchico la politica, presidiando seriamente territori e contesti di lavoro, con tre dichiarate linee anti-borghesi: il disprezzo per la cultura, l’enfatizzazione delle paure, l’entropia di territori per loro natura orientati all’internazionalizzazione competitiva. Ma anche con tre meriti: austerità, radicamento, concretezza. Erode elettorati di sinistra e assicura (instabilmente) copertura all’attuale maggioranza. Evolverà. Così come deve evolvere la consapevolezza di discutere di più con la sua dirigenza non solo per contenderle egemonia nei territori aziendali da parte di chi dovrebbe elaborare un modello credibile per la tenuta e la crescita soprattutto del settore manifatturiero. Essa comincia ad esercitare suggestione a sinistra perché è capace di schiettezze perdute (“Avete iniziato a sputare su ignoranti e incolti, dimenticando chi fossero i vostri nonni – scrive un leghista di base al Corriere della sera, 1 aprile 2010, per spiegare la sottrazione di voti alla sinistra – e oggi la memoria si vendica. Meno spocchia sarebbe meglio. Che con le vostre lauree ci fate i precari, con la sua ignoranza mio padre ci ha mandato avanti una famiglia e ha mandato me a studiare. Cerca ‘cultura’ oggi è solo il ‘cafonal’ della sinistra”) ma è una schiettezza che non ci deve obbligare a rimettere le lancette indietro per recuperare l’identità che serve a territori evoluti impegnati oggi in una competizione altamente competente.
Nell’evoluzione recente di questo schema si esprime un’evidenza che – considerando il ciclo storico naturale dell’età contemporanea (quello che lega risorgimento, età post-unitaria, ciclo drammatico della prima metà del novecento, ricostruzione, dinamiche economiche tra local e global) – ha una categoria sociale protagonista appunto della contemporaneità: il profilo, ormai sottotraccia, della borghesia. Quella “non classe” sociale aperta, mobile, intraprendente ma non arrivista, amante del buon vivere ma non schiava del materialismo, fiduciosa ma consapevole, conscia della responsabilità di essere la spina dorsale del Paese, fatta da appartenenti alle professioni, al mondo della cultura, alla dirigenza del settore pubblico e privato, alla piccola e media imprenditoria, alle élites artigianali ed operaie, alle nuove professioni, alla gioventù in formazione imbevuta di cultura internazionale. Il ceto che ha creato la modernità, che ha plasmato lo Stato moderno impregnandolo con la sua cultura delle regole.
Un soggetto tuttavia – e ciò va scritto a chiare lettere – che ha variamente disdettato appuntamenti con la storia e con la politica, che è troppo spesso venuto meno ai suoi doveri, che si è troppo riparato a custodia di interessi privati, che non ha fatto un vero sforzo di indossare visione degli interessi generali, che non è stato più egemonizzato da figure carismatiche capaci di coniugare religione della patria e weberismo, internazionalità e cultura della responsabilità. L’ultimo epigono è stato forse Carlo Azeglio Ciampi, tuttavia figura sciolta da appartenenze politiche e quindi condannato alla sola “esemplarità”. Come lui, altre personalità che poco sorrette da un pensiero politico elaborato (da Ugo La Malfa ai nostri giolittiani), possono al massimo venare di tratti civilmente coraggiosi la loro esposizione istituzionale (tra i nomi si staglia oggi quello di Mario Draghi).
Verrebbe insomma da chiederci se nel tratto di cultura politica che ha per anni cercato di coniugare pensiero liberale e pensiero socialista (lib-lab)- territorio che ha tentato anche altri spezzoni della sinistra riformista della prima repubblica (post-azionisti, miglioristi, radicali, federalisti, repubblicani, cattoliciliberali) – non si apra oggi uno stimolo per un fenomeno che ha profilo europeo, tocca la sensibilità del mondo protestante, segnala urgenze di stabilizzazione sociale nell’evoluzione dell’est. Un fenomeno che – tanto per esagerare – chiamerei di “riscossa borghese”.
Il perimetro del suo manifesto per questo avvio di terzo millennio è netto: mercato, concorrenza (rigido antitrust e pratiche di governo antiprotezionistiche), solidarietà, autonomia della società civile e reti civiche, classe dirigente, nuove economie, identità nazionale evolutiva, europeismo e respiro internazionale, diritti civili, laicità e autonomia della coscienza, legalità (etica anche come convenienza), giustizia giusta. Quanto al “federalismo”, prima guardarci dentro con grande serietà e fuori dagli stereotipi. Qualche anno fa Cacciari, De Rita e Bonomi si chiesero “Che fine ha fatto la borghesia italiana” e pur in mezzo a pesanti interrogativi (responsabilità e classe dirigente) proposero piste di indagine sui nuovi universi borghesi capaci di innovazione, memori di una risposta che avrebbe pur dovuto essere data al comunismo rivoluzionario e al terrorismo in ordine alla loro ossessione sulla borghesia come patologia. Come già era stata data al movimentismo fascista che derideva la “pantofolaggine” dei borghesi.
La storia d’Italia, certo, presenta tratti sfuocati per ritrovare politici e politiche coerenti rispetto a questo perimetro e aiuta poco a fare “radice”. Il sintomo da verificare sarebbe quello (De Rita) di capire quando la borghesia civilmente impegnata ha ritenuto di pensare (esprimere) il pensiero (sentimento) del popolo. E’ successo a tratti. Ma poi quei tratti hanno prodotto modelli pittoreschi di consenso. Se avesse avuto potere politico forse anche Garibaldi avrebbe rischiato approcci autoritari. Mussolini e Berlusconi (piccoloborghesi) non si sono fatti scrupoli di gestire o pensare a soluzioni autoritarie. Prima di tutto andrebbe aggiornato il profilo definitorio, magari ripartendo da dove Benedetto Croce aveva – trattando con prudenza il termine (Etica e politica, 1931) – lasciato intendere che un approccio ai valori era più utile che il profilo strettamente economico in cui i detentori dei mezzi di produzione avevano evidenti differenze rispetto ai professionisti. Un nucleo traente nel ceto medio, ovvero “nel complesso di tutti coloro che hanno vivo il sentimento del bene pubblico, ne soffrono la passione, affinano e determinano i loro concetti a quest’uopo e operano in modo conforme”. Risalendo nel pensiero politico italiano c’è – come ha ben riscontrato Horkheimer – la concezione di Machiavelli del rapporto tra Stato e società. Nell’approdo recente non potremmo fare a mano di rimettere mano alla riflessione antigiacobina dei nostri socialisti liberali e quindi al linguaggio di Carlo Rosselli (e all’aggiornamento che ne ha fatto Norberto Bobbio) che coniuga modernamente libertà, conflittualità, responsabilità.
Non oso fare né nomi né riferimenti più precisi, ma anziché fare convegnistica da palleggio invocando astrattamente l’uscita dalla crisi, le associazioni imprenditoriali dovrebbero riprendere le iniziative di ricerca e di formazione che hanno avuto in anni d’oro, per mettere a fuoco questo e altri temi di nuova cultura politica dando ben più spessore alla rischiosa tematica aspeniana fin qui limitata all’analisi della nuova leadership. Una ricerca (che propongo di denominare “Caso di studio: dov’eravamo mentre il signor Anemone regolava la domanda pubblica?”) da indirizzare verso la misura della consistenza dell’area sociale e di rappresentanza di una alternativa al modello di governabilità italiana strozzato dall’improbabile bipolarismo che si è formato. C’è qualche angolo di università italiana, ci sono alcune fondazioni di vecchia e nuova consistenza che avrebbero tensioni attorno a questa catalizzazione di dibattito. Il superamento della costrizione ideologica che incombe ancora in questi ambiti conventuali (pregevoli come teche di custodia delle memoria, inutili rispetto all’obiettivo accennato) riduce molto l’ambito dei soggetti che realmente possono concorrere. I soggetti invocati possono inventariare molti documenti in quell’ipotesi di ricerca. Oltre al curriculm vitae del signor Anemone propongo anche quello dei tremila manager che nel solo scorcio del primo trimestre del 2010 sono stati licenziati in tronco nelle aziende della Lombardia per effetto della crisi.
I continuatori del pensiero innovatore del socialismo italiano (Mondoperaio ha qualche titolo) non dovrebbero sottrarsi a questo dibattito. Almeno avviando alcune sperimentazioni. Che oggi in Italia possono prendere spunto dal rischio concreto della disunità nazionale (lo sviluppo del partito secessionista al nord, lo sviluppo del partito clientelare al sud), addirittura usare il fantastico e drammatico case history dell’impossibilità culturale e politica di celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia (“identità nazionale a rischio”, dice De Rita nell’introduzione; e “unità nazionale in pericolo” scrive Giorgio Ruffolo nel suo bel libro Una paese troppo lungo) e quindi riguardare, anche separatamente, diversi contesti territoriali. Vanno tutti bene, perché quando la Lega si afferma in Emilia è evidente che gli stereotipi della “vocazione politica” dei territori stanno saltando. E tuttavia si consentirà di dire che Milano, che vota nel 2011, ha a disposizione un territorio di macerie e di novità rispetto a cui ancora nessuno riesce a fare sintesi, per la assenza di mandato che la politica traccheggiante (a destra e a sinistra) non sa nemmeno concepire. Se torniamo ai blocchi sociali che reggono le attuali rappresentanze politiche appaiono evidenti alcune distorsioni rispetto al ruolo anticipatorio e innovativo che Milano ha avuto nel novecento politico italiano. Il PD è disidratato identitariamente per presumere una leadership territoriale in ordine a cui non ha sufficiente progetto e pochi leader spendibili. Il PDL esprime alleanze inquiete: quella interna con il blocco di potere integralista ciellino (che ha il merito di avere riportato il cuore della politica sulla centralità della persona ma che di per sé rischia di essere fattore anti-borghese per come “borghese” ha storicamente significato rotazione) e quella esterna con il soggetto emergente, la Lega, come si è già detto per definizione anti-borghese (contro il Risorgimento, contro l’Europa, contro l’integrazione, contro la finanza, contro l’università) anche se essa si è conquistata parti spaesate (etimologicamente) dei ceti medi.
I due aggregati politici reggono finché il pulviscolo intermedio si sfianca (tra mugugno e faide) con lo sguardo prevalentemente indietro (ormai purtroppo patologia dei socialisti). Ma avrebbero forti rischi di erosione se tale pulviscolo riuscisse a condensare le innovazioni che non sono riuscite né a Letizia Moratti, che per un po’ ha intuito uno spazio, promuovendo una sua lista civica, che poi non ha né saputo leggere né saputo raccontare, spinta ormai senza passione all’organicità con un quadro politico che le ricambia sentimenti ostili e rispetto a cui utilizzerà solo risorse finanziarie per ammansirlo; né a Roberto Formigoni che pure ha sviluppato una più robusta governance ma che non è stato autorizzato a suo tempo a sostituire le alleanze scaricando la Lega e rigenerando un’area centrista laico-socialista. Se a Milano partisse questa onda, la città più contaminabile, che ha in sé ancora energie (qualche) per sostenere questo dialogo, sarebbe Napoli. Per cercare, tra l’altro, un minimo di radicamento sociale che si confronti con il fenomeno della criminalità organizzata che – come osserva Luciano Cafagna – “mai nella storia della questione meridionale aveva avuto tanto rilievo”. Tanti soggetti che avevano alcune doti per fare sperimentazione territoriale di questa sintesi (da Illy a Soru, entrambi da riconsiderare) hanno mollato la presa.
Il censimento dei soggetti culturali e professionali disponibili alla discussione è in corso. Teatro, cinema, spettacolo, arte contemporanea e letteratura devono essere il campo dei linguaggi di presa di distanza dal format televisivo che ha pentotalizzato la comunicazione al servizio dell’incolta egemonia berlusconiana. La società borghese (in senso storico, rispetto ad una città che ha un catasto dal 1200 e ha tolto ai nobili l’esclusività del potere di borgo dall’alto medioevo) ha bisogno di una lettura creativa perché essa ha qualche interesse all’ottimismo dei centri-commerciali, ma ha soprattutto bisogno (anche un po’ compiaciuto) di vedere rappresentati i suoi drammi (come lo ha fatto il cinema di Antonioni più che quello di Fellini, il cinema di Bertolucci non quello dei Taviani). Per inciso quei “drammi” sono stati interpretati, nella politica italiana post-fascista, prevalentemente dal dialogo tra socialisti e radicali, perché esso ha introdotto nei perimetri limitati della politica ciò che la cultura marxista della “sovrastruttura” (rispetto all’economia) e la cultura cattolica dell’egemonia sociale non volevano introdurre. Questo articolo segnala in definitiva un’esigenza e un’ipotesi di lavoro. Fondandosi su germi visibili e sulla ripresa di legittimità della “terza via” nel quadro del nostro caricaturale bipolarismo. Ma il grosso è ancora da dimostrare.
Ebbe grande importanza nelle generazioni che erano sfuggite all’indottrinamento della sinistra ideologica e all’ebbrezza sessantottina un filone di pensiero che trova sintesi in questa citazione (che va riferita al tempo in cui fu scritta) di Gaetano Salvemini: “I comunisti hanno per molti anni insegnato che libertà, verità, giustizia sono pregiudizi borghesi. Come possono allora sottrarsi alla necessità di non essere creduti, e come possiamo noi sottrarci alla necessità di non crederli? Allora io continuo e continuerò a ripetere: terza via, terza via, terza via, anche se mi vedo solo in mezzo alla via, in attesa che i totalitari di sinistra mi facciano fuori, o i totalitari di destra mi mettano dentro”. Dopo mezzo secolo i totalitarismi sono stati sconfitti ma i vincitori sono annegati nella melassa confusionaria di tutto ciò che – per sopravvivenza ideologica a sinistra e per populismo neorepubblichino a destra – mantiene a distanza il suo fantasma: la borghesia.
49 senatori del PD, dopo il risultato delle regionali, hanno scritto a Bersani denunciando nel partito “l’imborghesimento…che arriva persino a coinvolgerci in scellerate trasversalità ammantate di riformismo”. Giovanni Berardinelli ne ha fatto materia per una nota preoccupata sul Corriere della sera (Se nel PD la parola “borghese” torna a essere usata come un insulto, 3 aprile 2010) : “I 49 firmatari sembrano aver dimenticato quanto la storia da cui molti di loro provengono o della quale sono comunque eredi sia stata funestata nell’ultimo secolo e più proprio dall’accusa di imborghesimento scagliata dalle correnti intransigenti (composte, volta a volta, da socialisti massimalisti, comunisti, sinistra extra-parlamentare) contro le frange moderate e riformiste della sinistra. Forse non è un caso che la loro lettera a Bersani affianchi il pericolo dell’imborghesimento all’altra bestia nera della sinistra intransigente d’ogni epoca, l’eccessiva inclinazione al riformismo e al dialogo. C’è dunque da augurarsi che la discussione interna al PD prosegua con un lessico un po’ meno datato”.

Ecco, se ci fosse stato bisogno di un esempio – tra il conflitto a sinistra ancora poco esploso e quello a destra già servito con gli esiti delle regionali – di quale spazio resti ancora seriamente da rigenerare per fronteggiare, nell’interesse del paese, il problema di un blocco a tempo stesso sociale e politico capace di riannodare storia e innovazione, la cronaca ci ha ben aiutato
Non essendo sicurissimi che i soggetti a cui qui si accenna siano capaci ora di aiutarsi da sé.
 
 
 
 
 


[1] Questo testo costituisce adattamento e aggiornamento dell’articolo pubblicato nel n. 3/2010 di Mondoperaio con il titolo “Classe generale cercasi”.

[2] Presidente della Fondazione Francesco Saverio Nitti. Membro del comitato di redazione di Mondoperaio. Membro dei comitati scientifici della Fondazione Craxi e della Fondazione Nenni. Già candidato a Milano e Como nelle liste radicali (escluse alle elezioni Regionali 2010). Professore di ruolo alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università IULM di Milano.