Riflessioni a margine delle cosiddetta legge-bavaglio (Riv.it com. pubblica 41/2010)

                         Rivista italiana di comunicazione pubblica
                          Franco Angeli editore
                                                                                       N. 41/2010
 
Un salto mortale virtuale per capire e discutere i temi della legge-bavaglio e della libertà di informazione
Stefano Rolando
 
Ormai da tempo la lettura dei quotidiani – con più evidenza rispetto alle notizie dei telegiornali che li precedono almeno di molte ore – ci obbliga ad una interpretazione manichea del paese: noi e loro.
Chi ci dà mai questa presunzione? Chi ci sospinge a radicalizzare i giudizi, anche quando l’esperienza ci indurrebbe a prudenza, a rifiutare generalizzazioni e ad aspettare sentenze?
Cerchiamo un po’ di capire – tra indifferenza e indignazione (sentimenti opposti e diseguali nella società) – chi ha interesse a non tenerci a mezza strada, laddove le parole sono soppesate, i pensieri meditati, le indagini guardate con la necessaria freddezza.
Il primo sospetto investe ovviamente i media stessi. Essi sono acquistati – parliamo sempre dei quotidiani – da meno del 10% della popolazione (giornali sportivi compresi). Dunque classe dirigente e pubblico “coinvolto” e dentro il perimetro delle decisionalità. Insomma, acquirenti per necessità e per inveterata abitudine, non per strattonamento emotivo.
Essi (i media) non avrebbero, in apparenza, “interesse”. Dovrebbero invece coltivare l’idea che – sulla nostra cultura del dubbio – si collochi il loro sforzo di analisi, di ricerca, di più ampio commento. Ciò che TG e GR non possono fare per limiti strutturali, ma con il vantaggio di produrre i TG immagini e i GR suoni e parole in diretta che sono un potente elemento di attrattività perché limitano – proprio così, anche se c’è una letteratura a contrariis – l’idea che i giornalisti “manipolino” (perché in video si vede e per radio si sente) mentre i mezzi a stampa sono concepiti soprattutto sulla loro mediazione (cioè riscrittura) di parole e fatti. I quotidiani, uscendo all’alba dalle tipografie, avrebbero il tempo e lo spazio per indagare di più, per raccontare di più, per confrontare di più. Da qui l’idea (astratta) di mezzi potenzialmente meno impulsivi e più argomentati.
Succede però che alcuni di essi (grandi e piccoli) siano fuoriusciti dal confine del “quarto potere” e si siano costituiti in soggetti stessi dell’azione politica. Rimpiazzando con più capacità relazionale e di ascolto ciò che sezioni, circoli, club hanno rappresentato per anni nella vita politica creando comunicazione e condivisione.
Essi – per giunta finanziati dallo Stato per via dei sussidi all’editoria o per via del finanziamento ai partiti e ai loro organi di stampa – introducono una seria distorsione tra informazione e lettori. Quella legata alla sostituzione della libera indagine attorno alla verità con la rappresentazione di un nuovo capitolo della crociata. Un vero e proprio teatro, con foto che fanno da quinte, copioni con battute frutto di fughe di notizie giudiziarie, titoli esortativi e accusatori, contesto permanente di tensione e allarme.
Ed essi ci scelgono (con la disponibilità di una parte di noi) come “compagni” o comunque “appartenenti” più che come lettori/clienti. Soprattutto i quotidiani che hanno scelto questa prospettiva (stingendo largamente su tutto il panorama editoriale) hanno bisogno di sintesi e di provocazione: dunque essi appaiono “più” impulsivi e “meno” argomentati. 
La loro strategia di marketing sostiene che questa condizione è rilevante, anzi ineludibile, per mantenere consolidata proprio la quota di clientela. L’importante è fare un po’ di confusione. Introdurre molte volte la parola “libertà”, agitare molte volte la parola “diritti” e quindi creare un clima di indispensabilità per quella modalità militante dell’informazione che mette da parte il profilo prudente del lettore nella sua difficile identità di cliente serio e misuratore e che accoglie invece il bisogno traboccante generato dall’indignazione (il meccanismo è uguale a destra e a sinistra). L’obiettivo – prevalente e sempre tendenzioso – è archetipico nel profilo professionale giornalistico: lo sbugiardamento.
Alcuni editori, sempre meno “puri”, sentirebbero la crescente utilità di collocare la loro impresa giornalistica in questo ring aumentando la partitizzazione della stampa. La quale avrebbe più rendimento complessivo (anche qui a destra come a sinistra) rispetto al vecchio stereotipo della fiera indipendenza di quegli organi che la vecchia cultura liberale chiamava “guardiani della democrazia”.
Questa visione di un ampio cambiamento di fini del nostro sistema dell’informazione, porterebbe a concludere che la battaglia sostenuta da alcuni organi mediatici contro la legge sulle intercettazioni è all’insegna di questa percezione di ruolo. 
Per cui la guerra all’“imbavagliamento” non sarebbe tanto parte di una crisi di sistema delle libertà comunicative del paese, quanto una componente di una battaglia politica. Una battaglia che ha sempre al centro dei suoi argomenti due temi: far scandalo sul conflitto di interessi del premier; e trattare come propaganda (in qualunque modo e in qualunque luogo) la comunicazione generata dal governo. Dall’altra parte si oppongono due riconvenzionali fisse: la propaganda è cultura dell’opposizione priva di proposte concrete; l’orticaria per il successo del premier è l’unico collante di coalizioni impossibili, possibile solo mantenendo rovente la temperatura mediatica.
Questa rivista non può ignorare che per molti mesi questo tema è stato al centro del dibattito pubblico nazionale e che si è andato configurando come un tema prioritario dell’agenda setting e dunque della comunicazione pubblica in Italia, su cui sono intervenuti i politici, i partiti, gli operatori dell’informazione e le loro associazioni di categoria; ma anche istituzioni, corporazioni dello Stato, funzionari pubblici. Vi dedichiamo qui un commento che è basato su un tentativo di svolgere una riflessione intesa forse come un “salto mortale”, virtuale ma non per questo più facile della prova ginnica per eccellenza.
Per sostenere cioè da un lato che l’informazione in Italia ha assunto quella distorsione radicale a causa della partitizzazione di alcuni organi di stampa. Ma al tempo stesso per sostenere che effettivamente i margini delle libertà classiche che connotano uno stato liberale nel campo essenziale della comunicazione si sono assai ridotti, facendo insorgere allarmati giudizi internazionali e creando condizioni in cui il cittadino-utilizzatore è costituzionalmente penalizzato.
Un colpo al cerchio e uno alla botte, si dirà. A parte che non sono state scritte leggi per impedire, nell’uso della ragione, questo comportamento a suo modo “complesso”, ci pare che i due contesti non affermino una impossibile contraddizione.
 
Il disegno di legge presentato dal Ministro della Giustizia Alfano per riformare il sistema delle intercettazioni giudiziarie come è noto – essendo oggetto di divaricazione politica all’interno della maggioranza e per questa ragione, non tanto per l’opposizione suscitata nel paese e nelle forze parlamentari di “minoranza”, divenuto dossier a velocità ridotta – può ora (scriviamo a fine luglio) vedere una priorità diversa e forse anche determinare cambiamenti in alcuni punti sostanziali.
Esso riguarda due distinti ma connessi ambiti: lo strumento delle intercettazioni nelle indagini condotte dai pm e realizzate dalla polizia giudiziaria; la censura imposta a giornalisti ed editori, con evidenti limitazioni alla libertà d’informazione. Queste “limitazioni” non sono neppure veramente oggetto di contrasto tra chi le teme e chi le nega. Una parte le vuole e l’altra non le vuole, ma tutti ne affermano la corrispondenza nella formulazione della proposta di legge. Quanto alla prima parte del problema, stesso scontro: chi vuole ridurre la modalità di un potere oggi esercitato e chi ritiene che questa riduzione abbia sia conseguenze sui punti di profitto politico di chi propone la legge sia conseguenze sulla riduzione di contrasto a varie forme di criminalità. Qui accusando l’avversario politico in realtà della peggiore accusa, cioè di coprire appunto quegli ambiti di illegalità che – nelle leggi carcerarie e in quelle che regolano il meccanismo di indagine – cercano da sempre norme di alleggerimento del rischio.
E’ stato il conferimento di una particolare priorità nell’iter legislativo a determinare il carattere ideologico del provvedimento e quindi anche dello scontro che esso ha prodotto.
Questa attribuzione ha messo in evidenza che questi territori normativi hanno più importanza e più priorità per il quadro politico rispetto alla difficile, faticosa, complessa ricerca normativa che dovrebbe – a tutto campo – intervenire sull’evoluzione della crisi economica e occupazionale. Nella quale si aprono delicate e dunque rischiose opzioni sulla stretta coperta della finanza pubblica. Favorendo alla fine la centralità di temi che l’opinione pubblica non avverte come rilevanti, perché il grosso degli effetti è generato solo attorno a chi rischia di essere esposto alle indagini giudiziarie e a chi opera in condizioni di costante avvicinamento alla sfera di illegalità in cui politica e malaffare hanno creato spesso rete e collusione.
La maggioranza ha imposto una pista privilegiata alla discussione su questo tema, mettendo allo scoperto – appena si è aperta una falla nella propria compattezza – un’idea di arroganza nel dare una volta di più priorità legislativa ai suoi interessi rispetto quelli del cittadini (pur condendo sempre ciò con la ben relativa evidenza dell’offesa alla privacy potenzialmente di tutti i cittadini da parte dell’attuale modalità di gestione delle intercettazioni).
L’opposizione ha concorso nella definitiva affermazione della priorità di questo dibattito, rispetto a quello sui nodi economico-sociali (tagli alla cultura e alla spesa sociale compresi), intuendo il lucro politico attivabile da una messa in campo della potenzialità combattente di quel sistema mediatico che appunto il provvedimento scatena.
Mettendo in tensione sia i giornalisti sia – questa volta – gli editori, portati nell’area di rischio sanzionatorio e quindi portati ad una palese azione preventiva o censoria nei confronti dell’operatività professionale delle loro redazioni. Ciò che fin qui è stato ambito di chiaro limite di prerogative che hanno fatto parte appunto di uno schema “liberale” del rapporto tra proprietà e lavoro giornalistico.
Insomma questa legge in sé brutta e nefasta, che peggiora i profili professionali dell’informazione, è stata combattuta dall’esistenza sul campo di gioco di una patologia radicata ormai da tempo che appunto da tempo ha peggiorato nella sostanza i profili professionali dell’informazione. Aver voluto investire su questo duello da entrambe le parti ha significato che una almeno abbia seriamente sottovalutato il significato sostanziale, anche se non del tutto esplicito, della propria sconfitta.
Cosa è mancato allora nell’ottica dell’interesse nazionale?
La visione appunto costituzionale di un approccio ad un dibattito di questa natura che – tenuto conto delle perversioni, delle distorsioni che agiscono nel rapporto tra poteri (i cinque poteri ormai estesi dai tre di Montesquieu al quarto dei media e al quinto del lobbying di impresa e associativo, in cui comprendere l’azione di organismi per bene e di organismi malvagi) – richiede tavoli “bicamerali” delegati ad una trattativa seria, condotta su profili di ricerca e di analisi molto autorevoli, cercando soluzioni un po’ al riparo dall’immediato sfruttamento politico di una parte sull’altra.
Condizioni di sogno, irreali, fantascientifiche, si dirà. Forse, ma allora è infantile e ridicolo mettere mano a provvedimenti che investono l’anima della sostanza giuridica di un paese rispetto alla sua storia, facendo passare quei provvedimenti come “funzionali”.
Quelle condizioni – sia detto su queste pagine “pour cause” – che giustificano l’esistenza di una comunicazione pubblica al servizio del cittadino e su cui dovrebbero ritrovarsi tutte le fonti di natura istituzionale e, in primis, il servizio pubblico radiotelevisivo.