Renzo Zorzi (30 gennaio 2010)

Renzo Zorzi (1921-2010). Davvero un’altra Italia

Ero talmente abituato a vederlo nella sua linea austera – abiti scuri stretti sul suo profilo alto e magro, il naso pronunciato, un volto rigato da un impercettibile sorriso di riluttanza e di semplificazione, occhiali accademici e soprattutto i capelli  tutti in testa e a lungo scuri – che vederne la foto sul Corriere della Sera, di dieci anni dopo le nostre frequentazioni, in abito chiaro e con la testa giustamente imbiancata, mi ha colpito.

Colpito perché la vita appunto fa prendere a volte congedo dagli amici prima del tempo voluto dal destino. Colpito perché, nel tempo, occasioni a Venezia, a Roma e poi a Mantova di ritrovarsi ne lasciavano inalterate la mutua cordialità e la condivisione di vicende. Colpito perché da qualche tempo vado saccheggiando il mio album fotografico per questo doloroso scopo, di segnalare alla mia rete di amici eventi che meritano una parola di ricordo.

Il Corriere (per ciò che l’antico direttore delle Relazioni esterne dell’Olivetti collocate nella centralissima via Camperio di Milano e non a Ivrea, aveva fatto con l’ambiente culturale milanese) e la Repubblica (per il sodalizio personale che Zorzi aveva mantenuto con Carlo De Benedetti dopo aver lasciato quella direzione all’Olivetti, prima a Vittorio Moccagatta e poi a me) ne hanno parlato con adeguati articoli nelle pagine della cultura. Ma il ritratto più legato alla storia dell’ex partigiano di Giustizia e Libertà e poi delle originarie imprese editoriali (quando presso Da Silva impose una prima autobiografia di un chimico piemontese che Einaudi aveva rifiutato; si trattava di Primo Levi, il testo finì pressoché invenduto ma Primo Levi divenne Primo Levi) è stato fatto dall’Arena, giornale della sua città da lui condiretto (come Verona libera) nel 1945, a firma di Giuseppe Anti.
Sentii parlare di Zorzi per primo da Riccardo Felicioli all’inizio degli anni settanta. Del mitico team zorziano creato nell’Olivetti di Adriano, Felicioli – che era stato anche segretario di Olivetti – dirigeva la pubblicità. Un toscano estroso e scintillante rispetto ad un veneto compassato ed essenziale non erano fatti per amarsi troppo. Finì in una separazione. Ma malgrado i cenni alle differenze, le parole restavano sempre quelle del rispetto. E di quel rispetto Zorzi era circondato anche quando venti anni dopo io frequentai un’ormai cambiatissima Olivetti, lui ne era fuori da tempo, ma restava consultato per alcune partite culturalmente significative lasciando nei giovani con cui lavoravo io (Daniele Comboni, Mario Dal Co, Sergio Primus, Roberto Maglione, Paolo Fiore e altri) il piacere illusorio di continuare l’opera del fondatore di “Comunità”.
Ma nel frattempo avevo svolto negli anni ottanta un’operazione che avrebbe creato tra noi due un’intesa programmata e importante. Lui presiedeva la Fondazione Cini all’isola di San Giorgio e io, direttore generale alla Presidenza del Consiglio, dovevo riprogrammare le convenzioni di Palazzo Chigi in qualche modo riguardanti il campo dell’informazione. La Cini – luogo di incanto per qualunque visitatore – divenne la cornice di grandi eventi (quindi sempre “comunicazione”) istituzionali e culturali, con un programma di quattro importanti occasioni all’anno per vedere capi di stato e di governo, piuttosto che premi nobel o anche operatori culturali innovativi e manager di primo piano parlare con la quiete dell’ambiente circostante e attirare pubblico e stampa. I bilanci della Cini trovarono così un sostegno e il prestigio delle iniziative del governo ebbero una location (che era anche parte attiva di alcuni eventi, come i corsi di alta formazione) di livello internazionale.
Nel 1993 – per dare merito non solo a quella tessitura, ma anche per ricordare una storia di editore che sprovincializzò (insieme al Mulino) la cultura sociologica italiana e per ricordare la più importante esperienza dell’impresa italiana non di “pagare il conto” di eventi culturali ma di “gestire”  con capacità progettuali e di presidio importantissime iniziative di restauro e di esposizione (che accorciarono i rapporti tra Italia, America e Giappone, per esempio) –  proposi il suo nome per il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio che gli fu attribuito a Villa Miani (la foto si riferisce a quella cerimonia) rimanendo un riconoscimento che, tra i tanti, Zorzi amava ricordare nei suoi scarni curricula vitae. Poi accarezzammo insieme alcune idee attorno al novantennale dell’Olivetti. Ma non vi furono le condizioni realizzative. E infine ci furono frequentazioni in un altro suo meraviglioso contesto operativo, la presidenza del Palazzo Te a Mantova. Un manager che agiva nel rapporto tra impresa e istituzione senza vantare appartenenze e fedeltà politiche. Che aveva connesso alcuni mondi che avevano necessità di trovare nella progettazione culturale una sintesi altrimenti non facile. E che aveva una storia personale che gli permetteva, pur nei doveri diplomatici della posizione, di scartare il rapporto con la sopravvenienza di un’Italia di serie C.
Nel 1987, con la prefazione di Giuliano Amato, pubblicai una sorta di diario di bordo dei miei primi progetti di rinnovamento della comunicazione istituzionale in Italia. Il titolo del libro era “Il principe e la parola”. Leonardo Mondadori ne accolse il progetto a Segrate. Quando si trattò di collocarlo in collana, venne l’ipotesi di pubblicarlo nella risorta Comunità (appunto salvata da Mondadori e destinata a saggistica) e non nelle commercialissime collane di Mondadori. Leonardo me lo disse quasi scusandosi, io lo considerai un premio. Scrissi un bigliettino a Zorzi (ormai completamente estraneo all’editrice) per “chiedergli permesso”. Fu una cosa che diede una piccola complicità in più alla nostra amicizia.