Recuperata in internet Storia del Premio Unione Latina nel primo decennio 1990-2000

 
PREMIO INTERNAZIONALE UNIONE LATINA
DI LETTERATURE ROMANZE
Sotto l’Alto Patronato
del Presidente della Repubblica
Con il Patrocinio
della Presidenza del Consiglio dei Ministri
del Ministero degli Affari Esteri
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dell’Ambasciata di Romania presso lo Stato italiano
della Presidenza della Giunta regionale del Lazio
del Comune di Roma
 
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I vincitori delle Edizioni del Premio (1990-2000):
1990 – Juan Carlos Onetti (Uruguay)
1991 – José Cardoso Pires (Portogallo)
1992 – Jean-Marie Gustave Le Clézio (Francia)
1993 – Gonzalo Torrente Ballester (Spagna)
1994 – Vincenzo Consolo (Italia)
1995 – Alexandru Vona (Romania)
1996 – Lalla Romano (Italia)
1997 – Agustina Bessa-Luís (Portogallo)
1998 – Juan Marsé (Spagna)
1999 – Marie-Claire Blais (Québec)
2000 – Francisco Dantas (Brasile)
 
CRONACA DI UN PREMIO
(per l’edizione del 19-21 novembre 2001)

Basterebbe poter fare un rapido giro delle librerie delle principali capitali latine per rendersi conto di quanto, nonostante la miriade di autori e novità editoriali proposti ogni anno, le letterature romanze siano ancora molto distanti tra loro. Ci renderemmo subito conto del fatto che buona parte dell’opera di molti scrittori spagnoli non è ancora stata tradotta in italiano, che certi grandi autori francesi non sono ancora stati pubblicati in Spagna o in Portogallo, che sono rarissime le opere degli scrittori romeni pubblicate al di là delle frontiere del loro paese. Nonostante le radici linguistiche e culturali comuni, la situazione in America latina è ancora più grave. Trovare l’ultimo romanzo di un autore colombiano a Buenos Aires o di un messicano a Bogotà si rivela a volte una vera e propria impresa. Per non parlare dell’ignoranza reciproca che caratterizza, per ciò che riguarda gli scambi letterari, i rapporti tra il Brasile e i suoi vicini ispanofoni. Ciononostante, le letterature latine d’Europa, delle Americhe, d’Africa, eredi di una tradizione comune, espresse in almeno cinque lingue, ognuna con uno spirito ben distinto, depositarie di storie diverse, costituiscono un universo culturale di notevole vastità e varietà.
Nel 1989, per rendere omaggio a questo patrimonio letterario, Philippe Rossillon, l’allora Segretario Generale dell’Unione Latina, decise di creare un premio letterario che riguardasse l’insieme delle lingue latine. “La latinità ha tutti i colori del mondo”—scriveva— “I sefarditi di Istambul ne fanno parte come gli abitanti di Bruxelles di cultura francese o gli scrittori del Congo e del Capo Verde”.
Il premio si sarebbe svolto a Roma, punto di riferimento comune a tutti i latini e sarebbe stato attribuito ad un romanziere di lingua latina, senza distinzione di paese o continente, la cui opera meritasse di essere maggiormente tradotta e diffusa nelle altre lingue latine. Il primo passo fu quello di riunire una giuria di scrittori prestigiosi: per consolidare la credibilità del premio, era indispensabile che fosse attribuito da una giuria di autori di chiara fama. Bisognava, inoltre, fare in modo che la composizione della giuria rappresentasse tutte le lingue latine e ne riflettesse la diversità geografica. A questo scopo fu deciso che sarebbero state rappresentate tutte le grandi lingue latine: lo spagnolo (in generale da uno scrittore spagnolo e da uno scrittore latino-americano), il francese (da uno scrittore francese e da uno scrittore francofono), il portoghese (da un portoghese e, finora, da un brasiliano), l’italiano (dal Presidente della Giuria e da un altro scrittore) e il romeno. Furono stabilite altre due regole, non specificate per iscritto, ma finora strettamente rispettate: i soli criteri di attribuzione del Premio sarebbero stati letterari e nella scelta del vincitore non sarebbero intervenute considerazioni politiche o pressioni da parte dei gruppi editoriali. In altre parole, il Premio letterario sarebbe stato assolutamente indipendente.
La sfida non si annunciava tra le più facili: si trattava di interpellare i grandi scrittori di lingua spagnola, francese, italiana, portoghese, romena. Le risposte non si fecero attendere: José Saramago, Manuel Vázquez Montalbán, Jorge Amado, Augusto Roa Bastos, Pascal Quignard e Francesca Duranti accettarono di far parte della prima giuria, insieme all’italiano Stefano Rolando, Presidente del Premio, e al romeno Dan Haulica. Il fatto che scrittori tanto prestigiosi si lanciassero con entusiasmo in quest’avventura Provava che il Premio colmava una lacuna e che se non era indispensabile era per lo meno ben ispirato. Fin da subito la Presidenza del Consiglio dei Ministri italiano accordò il suo alto patronato a quest’iniziativa insieme al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e ad altre istituzioni.
Il Premio Internazionale Unione Latina di Letterature romanze nasceva così sotto buoni auspici. La prima edizione si svolse nel novembre del 1990. Le parole del romanziere brasiliano Jorge Amado, pronunciate in occasione dell’annuncio alla stampa del nome del candidato scelto dalla giuria, riassumono bene lo spirito del Premio: “L’iniziativa dell’Unione Latina consentirà la diffusione dell’opera di un grande scrittore ben oltre le frontiere della sua patria e della sua lingua e costituirà al contempo una straordinaria promozione per le letterature e gli autori dei paesi in cui si parla e si scrive in francese, italiano, spagnolo, romeno e nella dolce e soave lingua portoghese, di Camões e José de Alencar”.
La giuria premiò all’unanimità lo scrittore uruguayano Juan Carlos Onetti, “per la sua capacità di opporre l’ordine dell’immaginario al disordine della realtà servendosi unicamente dell’artifizio letterario e del suo strumento: la lingua”. Lo scrittore spagnolo Manuel Vázquez Montalbán, nel corso della conferenza stampa tenutasi come ogni anno al Caffè Greco, sottolineò come il romanziere uruguayano fosse uno scrittore della solitudine e uno spirito universale la cui opera non aveva ancora ottenuto il riconoscimento mondiale che meritava. L’universo letterario di Onetti, autore di romanzi indimenticabili come El Astillero, La vida breve, Dejemos hablar alviento, Juntacadáveres e altri ancora, è al centro di un pessimismo impietoso, nello spazio mitico di Santa María, trasposizione letteraria della Montevideo degli anni quaranta e
cinquanta. Le opere di questo scrittore “difficile”, per molto tempo ammirato da un ristretto gruppo di “iniziati” in America latina, rimasero a lungo prigioniere delle barriere della lingua spagnola. Il successo iniziò ad arrivare nel 1974, quando, costretto a fuggire in esilio in Spagna (dopo un anno di prigionia nelle carceri della giunta militare uruguayana) i suoi libri furono ripresi da alcune grandi case editrici spagnole.
Dal 1990, decise di vivere a letto e passò così gli ultimi anni della sua vita. Onetti era sicuramente un uomo fuori dal comune, come conferma una lunga intervista filmata da Ramón Chao in quel periodo.
La presenza a Roma di una rosa di scrittori di fama mondiale contribuì a suscitare l’interesse della stampa italiana e internazionale per questa manifestazione alla sua prima edizione e a far sì che il Premio diventasse fin dall’inizio uno degli appuntamenti irrinunciabili del calendario culturale della città. “Per un giorno Roma è ritornata ad essere il centro ideale del mondo, perlomeno del mondo culturale”, scrisse un quotidiano romano del 20 novembre 1991. “Nel cuore della capitale, nell’antico e cosmopolita Caffè Greco di Via Condotti, da ormai due secoli luogo di incontro di artisti e scrittori, Juan Carlos Onetti, il più grande romanziere uruguayano vivente, è stato proclamato vincitore del Premio Unione Latina di Letterature romanze”. E il giornale spagnolo El Paíscommentò: “È stato ricchissimo di spunti il dibattito in occasione della conferenza stampa tra i membri della giuria e il pubblico di giornalisti, scrittori e critici letterari che ha invaso il Caffè Greco, per lo stupore dei turisti che, dalla strada, cercavano di vedere quello che succedeva all’interno”.Nel 1991, Carlos Fuentes e Tahar Ben Jelloun entrarono a far parte della giuria che premiò all’unanimità il romanziere portoghese José Cardoso Pires. Scomparso nel 1998, Cardoso Pires era conosciuto soprattutto come giornalista. La dittatura di Salazar, che aveva combattuto in una satira mordace (Dinossauro excelentíssimo), lo obbligò a fuggire in Inghilterra. Dopo la rivoluzione dei garofani, fu per qualche tempo consigliere comunale per la cultura a Lisbona, ma questo lisbonese d’adozione fu innanzi tutto uno scrittore capace di dar vita a storie meravigliose nate da una traboccante fantasia; appassionato cronista in Lisboa, livro de bordo, riuscì a raccontare le profonde ferite del Portogallo odierno. José Saramago, membro della giuria di quell’anno, dichiarò al Diario de Notícias di Lisbona: “Questo Premio occupa una posizione fulgida nel mondo delle lingue latine; è un premio atteso e che gode di grande reputazione. Con questo non voglio dire che gli altri premi manchino di rigore, ma solo che in questo la scelta del vincitore è il risultato di una discussione molto maturata. Il vincitore non è stato deciso alla leggera: i criteri sono strettamente letterari, la politica dei paesi non interviene affatto nella scelta. Per il Portogallo il Premio è molto importante, perché ci mette pubblicamente in risalto e, in un certo qual modo, è un segno di riconoscimento e di interesse per la nostra lingua”. Nell’albo d’onore dei vincitori figuravano così due grandi scrittori, un ispanofono e un lusofono. Nel 1992, Philippe Sollers sostituì Pascal Quignard nella giuria, che come l’anno precedente era composta da Jorge Amado, Tahar Ben Jelloun, Francesca Duranti, Carlos Fuentes, José Saramago, Manuel Vázquez Montalbán e Dan Haulica. Presidente Stefano Rolando.
L’edizione del 1992 premiò l’unico vincitore francofono del Premio: il romanziere francese Jean-Marie Gustave Le Clézio. Secondo la motivazione della giuria, dal suo primo romanzo (Le procès verbal, pubblicato all’età di 23 anni e consacrato dal Premio Renaudot) fino al suo ultimo libro, Étoile errante, Le Clézio non ha mai smesso di essere lo scrittore della riconquista della dignità, della rivalutazione della memoria dei popoli dimenticati (gli Indiani d’America in Le rêve mexicain), della considerazione per gli uomini e le culture umiliate e per la natura, troppo spesso maltrattata dalla tecnica. Scrittore francese con gli occhi aperti sul mondo, Le Clézio ha una scrittura classica, pura, semplice e sempre immensamente sensibile. Ha scritto molto per l’infanzia e non smette di scandagliare la memoria dei suoi antenati per raccontare l’Africa (Onitscha), le isole Mauritius (Le chercheur d’or) e tanti altri luoghi in cui l’uomo impara il significato della libertà (Désert). Il romanziere Antonio Tabucchi (che intrattiene profondi legami con la cultura e la letteratura portoghesi) sostituì Francesca Duranti nella giuria dell’edizione del 1993. Quell’anno il Premio fu attribuito al romanziere spagnolo Gonzalo Torrente Ballester.
Un celebre critico scrisse a proposito di Torrente: “Finora c’era un posto vuoto alla destra di Cervantes; è appena stato occupato da Gonzalo Torrente Ballester”. Autore di più di 18 romanzi (di cui solo due tradotti in Italia, perlomeno fino ad allora), Torrente Ballester si autodefiniva uno scrittore “d’intelligenza francese e d’immaginazione inglese, condensati in una prosa castigliana alla maniera galiziana”. Ovvero uno scrittore dalle molteplici origini. Torrente, che per anni fu critico letterario e teatrale, diventò, con la trilogia Los gozos y las sombras, La saga/fuga de J.B., El Reypasmado, per citare solo i suoi romanzi più tradotti, il cronista della sua Galizia natale, dei suoi paradossi e dei suoi miti. “Per me — dichiarava —, la cosa più importante nella scrittura è la musica. Nella mia vita, mi sono imposto un’unica regola: fare in modo che le parole castigliane siano impregnate di musica galiziana, la mia musica”. E aggiungeva, parlando della propria opera: “Sono dalla parte di Cervantes; scrivere significa trasformare la realtà, interpretare l’invisibile, l’indicibile. Per questo scrivere romanzi è un’attività meravigliosa. Tutto diventa possibile, non esistono contraddizioni tra il razionale e l’irrazionale, solo una tensione più o meno estrema”.
Nel 1994, in occasione della quinta edizione del Premio, ci furono dei grandi cambiamenti in seno alla giuria: il messicano Carlos Fuentes cedette il posto al cileno José Donoso, il francese François-Régis Bastide sostituì il compatriota Philippe Sollers, il romanziere italiano Luigi Malerba sostituì Antonio Tabucchi, il giovane Antonio Muñoz Molina accettò di far parte della giuria al posto di Manuel Vázquez Montalbán. La giuria comprendeva, inoltre, Jorge Amado, José Saramago, Tahar Ben Jelloun e Dan Haulica.
Per la prima volta il Premio fu attribuito ad uno scrittore di lingua italiana: Vincenzo Consolo. “La Sicilia è il soggetto di tutti i libri di Vincenzo Consolo — si legge nella motivazione della giuria redatta da Stefano Rolando —, una Sicilia reale e metaforica, sublime e degradata, in cui l’attualità si mescola alla millenaria storia dell’isola. La sua scrittura — precisa, acuta, radicata nella grande tradizione della letteratura italiana— illumina di nuova luce una terra che è, al contempo, oggetto d’amore e di polemica, la Sicilia dei luoghi epici, ma anche la terra di Pirandello e di Verga. Questo sguardo critico sulla memoria e sull’identità si trova nel suo ultimo libro L’Olivo e l’olivastro, ma attraversa tutta la sua opera, da La ferita dell’aprile, apparso nel 1963, a Il sorriso dell’ignoto marinaio, il libro che gli è valso il suo più grande successo di critica, nel 1976. Per il suo stile lussureggiante e raffinato al contempo, Consolo è uno dei grandi eredi del barocco siciliano. Sollevando i temi essenziali della Sicilia tradita da un potere perverso che non conosce ostacoli e rischia di trasformare in polveriera uno dei più bei paesi d’Europa, Consolo si inscrive anche nella serie di intellettuali siciliani che hanno preso un impegno nei confronti della loro terra natale, come Salvatore Quasimodo, Elio Vittorini e Leonardo Sciascia”.
Premiato dalla giuria del Premio Unione Latina nel 1995, Ferestrele zidite (Le finestre murate), unico romanzo dello scrittore romeno Alexandre Vona, è al centro di una vicenda del tutto singolare. Anche se nato a Bucarest, Alexandre Vona, il cui vero nome è Alberto Samuel Béjar y Mayor, appartiene a una di quelle famiglie di ebrei sefarditi che, dopo l’espulsione dalla Spagna nel 1492, si dispersero un po’ dappertutto nei paesi del Mediterraneo e in seguito in Europa dell’est. Questo caso è particolare perché nel 1948, un anno dopo aver scritto Ferestrele zidite, — il romanzo fu scritto di getto in tre settimane e in condizioni di emergenza davvero inaudite— Vona, che aveva meno di trent’anni, fu obbligato ad espatriare in Francia, abbandonò la scrittura intraprese una brillante carriera di ingegnere e il manoscritto fu dimenticato. Restò chiuso in una valigia a Bucarest per quarant’anni. Nel 1990, alla caduta del regime di Ceaucescu, il manoscritto uscì dal nascondiglio in cui era rimasto per tanti anni. Un amico lo fece pubblicare all’insaputa dell’autore. Colpo di scena, il successo fu folgorante. La critica lo paragonò ai più grandi scrittori del secolo: Proust, Kafka, Joyce. Il pubblico scoprì un romanzo geniale pubblicato cinquant’anni dopo essere stato scritto. Tradotto in francese, fu presentato al Premio Internazionale Unione Latina da Dan Haulica e la giuria, entusiasta, fu subito d’accordo. Nel suo spagnolo arcaico e musicale di cinque secoli orsono, Alexandre Vona disse ad una giornalista peruviana: “Ho scritto questo libro in pochissimo tempo. Mi ricordo perfettamente di come ho organizzato il mio tempo per poterlo scrivere. Avevo appena ottenuto il diploma di ingegnere e volevo sfuggire al destino che mi aspettava. Allora sentii che la sola cosa da fare era scrivere. Non saprò mai perché quel giorno, tornando a casa dei miei genitori, mi sia messo a scrivere questo romanzo, ma il testo mi si imponeva con vigore. Per tre settimane ho vissuto un’avventura straordinaria: mentre scrivevo il romanzo, avevo la sensazione di leggerlo. Non so se sia successo ad altri scrittori, mi dicevo anche che forse questo provava che io non lo ero. Non saprò mai la risposta. È l’unica cosa che ho scritto in quello stato, dall’inizio alla fine, con la sensazione di essere stato investito di una sorta di missione e con la determinazione di arrivare fino in fondo”. Quell’anno la giuria era composta da molti volti nuovi. L’autrice portoghese Agustina Bessa-Luís, lo scrittore brasiliano Rubem Fonseca e il poeta e romanziere colombiano Álvaro Mutis accettarono di far parte della giuria di questo Premio, che alcuni giornali italiani definirono “il Nobel dei paesi latini”. Stefano Rolando, che era stato per cinque anni il brillante e affabile Presidente della giuria, in qualità di Direttore generale del Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri, fu chiamato ad altre funzioni nel 1995. Dato che l’Italia era il paese ospitante del Premio, fu deciso fin dall’inizio che il presidente avrebbe dovuto essere in ogni caso una personalità italiana. Vincenzo Consolo accettò di sostituire Stefano Rolando. Il neo-eletto presidente dichiarò in occasione dell’annuncio alla stampa della premiazione di Alexandre Vona: “Le finestre murate è uno dei tesori più preziosi della letteratura del nostro secolo. Dimenticato per moltissimo tempo, è stato finalmente ritrovato per la gioia di tutti coloro che hanno avuto l’occasione di leggerlo. Mai premio letterario è stato attribuito con tanta giustizia, poiché penso che non sia stato facile per Alexandre Vona pubblicare i suoi testi e superare le barriere linguistiche”. La settima edizione del Premio, nel 1996, ricompensò l’opera di una scrittrice italiana che, nonostante la sua importanza, è ancora molto poco conosciuta negli altri paesi latini: Lalla Romano. “Una vita lunga e laboriosa quella di Lalla Romano, cinquant’anni di costante amore per la scrittura e di fedeltà al suo stile e alla sua poetica. I suoi temi sono quelli eterni della vita umana nei suoi momenti cruciali: la nascita, l’amore, la morte, situati in un contesto storico preciso (l’anteguerra, la guerra, la resistenza al fascismo, gli anni Venti in Piemonte, gli anni Quaranta a Torino), con uno sguardo molto penetrante sulla società del suo tempo (la borghesia, l’ambiente intellettuale, il mondo contadino e subalterno). Lalla Romano cerca con ostinazione la verità dell’esistenza, che può essere restituita solo nella verità della letteratura. Vi è un dolore sotterraneo, della pietà, in tutta l’opera di Lalla Romano, una sorta di fraterna solidarietà di fronte al nostro comune destino di uomini”. Lalla Romano ricevette il Premio Unione Latina di Letterature Romanze il giorno del suo novantesimo compleanno. Nella sala di Palazzo Farnese in cui si svolgeva la cerimonia di consegna del Premio di quell’anno, gli invitati l’accolsero con un lungo applauso mentre attraversava la folla per prendere posto accanto ai giurati. Un’anziana signora dal portamento aristocratico e dallo sguardo limpido che parlava con voce appena percepibile per ringraziare i colleghi scrittori del riconoscimento che le attribuivano. E che proseguì dicendo: “È ridicolo che si diventi importanti perché si sono raggiunti i novant’anni; non si è mai vecchi nello spirito, poter capire e avere un dialogo sincero con i giovani che mi scrivono o vengono a trovarmi è sempre stata per me una delle più grandi ricompense del mestiere di scrittore”. Sincerità è la parola giusta, perché tutto in Lalla Romano è trasparenza, trasparente limpidezza dello sguardo, trasparente lucidità delle parole. Durante l’incontro con gli studenti di numerosi licei romani, ebbe l’opportunità di rivelare con parole semplici la sua verità di scrittrice: “scrivere, per me, è scegliere alcune immagini del tessuto della vita, estrarre alcuni suoni dal rumore del mondo e circondarli di silenzio”.
Il 19 novembre 1997, un giornale italiano pubblicò un articolo con questo titolo: “Il Portogallo diventa simbolo del mondo”, e il sottotitolo diceva: “Il Premio Internazionale Unione Latina di Letterature Romanze consegnato alla scrittrice Agustina Bessa-Luís”. “Una terra ricca di contrasti e di una bellezza stupefacente, il Portogallo, si trasforma attraverso una prosa piena di misteriosi richiami, in simbolo universale della condizione umana: questo è il valore della scrittura di Agustina Bessa-Luís. Per questa universalità ha ottenuto il Premio Internazionale Unione Latina di Letterature Romanze, giunto alla sua ottava edizione. L’annuncio è stato dato al Caffè Greco da Vincenzo Consolo, presidente della giuria, composta anche da Almeida Faria, Roger Grenier, Luis Sepúlveda, Patrícia Melo, Luigi Malerba, Álvaro Mutis, Robert Lalonde, Javier Tomeo e Dan Haulica”. Agustina Bessa-Luís, autrice di trent’un romanzi, di numerose raccolte di racconti e opere teatrali, sceneggiatrice (in particolare per Manuel de Oliveira), è sicuramente la nobildonna Agustina Bessa-Luís ha vinto il Premio Unione Latina di Letterature Romanze. La giuria ha considerato che il suo ultimo libro, Um cão que sonha, aveva in sé tutte le qualità di un’opera vasta e universale. Agustina è stata la prima ad apprendere la decisione della giuria, per telefono, solo pochi minuti dopo la fine della delibera. Era così impaziente di andare a Roma che ha preso l’aereo prima dei suoi bagagli. Era questo che la preoccupava ieri sera quando siamo riusciti a parlare con lei nell’albergo della capitale italiana in cui alloggia. “Il Premio…., non so dirvi come mi sono sentita quando ho appreso la notizia, non sono molto emotiva, soprattutto quando le notizie sono piacevoli”. Agustina ha sempre espresso delle riserve a proposito dei Premi letterari. Ma non ne ha rifiutato nessuno —“sarebbe indelicato da parte mia”— e bisogna dire che il Premio Unione Latina di Letterature Romanze è la decima ricompensa letteraria che riceve. “Questo premio comprende più cose, in primo luogo il nome del Portogallo. Sono molto soddisfatta della decisione della giuria e della sua intenzione di nobilitare la creazione letteraria. Ma non mi sono commossa, perché il lavoro della scrittura non ha niente a che vedere con tutto ciò”. E al giornale O primeiro de janeiro, ha dichiarato: “sono contenta, ma devo dire che non ho mai seguito troppo da vicino i premi, perché la mia opera mi assorbe completamente”. Contattato per telefono a San Paolo del Brasile, José Saramago, un vecchio amico dell’Unione Latina, ex-membro della giuria del Premio, si è mostrato molto soddisfatto apprendendo la notizia: “se in Portogallo esiste uno scrittore con gli attributi del genio, questo scrittore è Agustina Bessa-Luís” 
José Cardoso Pires, il primo scrittore portoghese premiato dal Premio, ha dichiarato a sua volta nel Jornal de Notícias: “la scelta di Agustina Bessa-Luís è pienamente giustificata, sono molto contento per lei, poiché il Premio Unione Latina di Letterature Romanze è un punto di riferimento molto serio per la letteratura portoghese”.
Candidato proposto dal romanziere spagnolo Javier Tomeo, Juan Marsé, fu proclamato vincitore del Premio nel novembre del 1998. Jesús Ferrero, che aveva sostituito Javier Tomeo in seno alla giuria (trattenuto a Barcellona da un contrattempo familiare), parteggiò con ardore per il romanziere catalano. “Juan Marsé vince il Premio Unione Latina di Letterature Romanze”, intitolò il quotidiano spagnolo ABC, il 18 novembre 1998. Secondo la motivazione dei giurati letta da Vincenzo Consolo nel corso del consueto incontro con la stampa al Caffè Greco: “nei suoi romanzi, come Encerrados con un solo juguete, Últimas tardes con Teresa, Si te dicen que caí o Ronda del Guinardó, Juan Marsé dà una visione estremamente personale della Barcellona cosmopolita e asfissiante degli anni ‘50 e ‘60. Autore di più di una decina di romanzi, Marsé rievoca il quartiere della sua infanzia, il Carmelo, universo equivoco, borgata che si sviluppa dopo la guerra civile, appollaiato sulle colline della città, a strapiombo sui quartieri borghesi, in cui si mischiano immigrati di ogni sorta e uomini e donne vinti dalla guerra, dalla miseria, dalla mancanza di prospettive. Sono pochissimi gli scrittori spagnoli che sono riusciti, come Juan Marsé ha fatto nelle sue opere di fantasia, a cogliere con acutezza i contrasti tra la borghesia trionfante —quella dell’industrializzazione della Barcellona post-franchista— e l’universo dei perdenti e degli emarginati. Per la ricchezza del suo universo, per il suo realismo impregnato di poesia, Marsé ha fatto della sua Barcellona natale uno spazio letterario, ovvero un luogo mitico, che può essere paragonato alla Santa María di Juan Carlos Onetti, o al Macondo, di Gabriel García Márquez”. In un certo senso, la nona edizione del Premio Unione Latina di Letterature Romanze è stata un premio al talento di Juan Marsé, certo, ma anche alla fedeltà, la fedeltà a se stesso, alle proprie convinzioni, al proprio universo saldamente radicato nel paesaggio umano dell’infanzia. Ciò che colpisce inizialmente in Juan Marsé, è la sua umiltà. Premiato per la sua indipendenza intellettuale e morale, questo scrittore di sangue catalano che scrive in castigliano, ha dichiarato al giornale spagnolo El País: “Sono felicissimo di ricevere un premio, se è per la mia indipendenza. Ma non mi piace curare la mia immagine e parlare di me mi annoia profondamente. Per me è già una gran fatica scrivere, se in più devo spiegare come avviene… che se ne occupi l’editore”.
Il Premio 1999 fu invece attribuito alla scrittrice Marie-Claire Blais (Québec), candidata da Robert Lalonde con la seguente motivazione: «Se c’è, nel Québec, un’oppressione, non è tanto l’opera concertata dall’intolleranza e dalla violenza, quanto quella del silenzio. Immenso territorio d’oblio, l’America francese ha vissuto a lungo nell’isolamento e nel silenzio forzato“. Alla fine degli anni cinquanta, alcune voci, poche, sono esplose come un grido. Una delle prime voci fu quella di Marie-Claire Blais che, con il romanzo La Belle Bête, denunciava la crudeltà fatta al corpo e all’anima dei Canadesi francesi come si diceva allora, non esitando ad agire senza riguardi nei confronti di quel cuore gonfio di vergogna e di terrore che batteva in tutti. Marie-Claire Blais è lo scrittore tragico di una felicità che cerca di raccontarsi, nell’intimo luogo della letteratura, liberato dalla paura e dall’enorme peso del silenzio. Per parafrasare Gabriel García Márquez, Marie-Claire Blais metteva fine a cent’anni di solitudine.
Dopo più di quarant’anni e in circa una quarantina di titoli – romanzi, opere teatrali, racconti, cronache giornalistiche – Marie-Claire Blais racconta, con la parola poetica, l’infanzia solitaria, la rivolta, l’eterna tenerezza e la possibilità di una trasfigurazione. Con lei, attraversiamo i numerosi specchi della realtà americano, che è quello delle apparenze (uno dei suoi romanzi si intitola appunto Les Apparences). L’autore ci rivela le mostruosità nascoste e l’immenso desiderio di «meraviglioso» in ognuno di quegli «eredi di Rimbaud» a lungo esiliati in America. Il suo romanzo Une saison dans la vie d’Emmanuel, scritto negli Stati Uniti e pubblicato in Francia, ha ottenuto il Premio Médicis nel 1965. Era già la stigmatizzazione di una parola selvaggiamente tenace in un certo senso legata al crollo di quel famoso muro di silenzio che circondava il Québec. Seguirono numerosi romanzi – Les Manuscrits de Pauline Archange, David Sterne, Les nuits de l’Underground, Un sourd dans la Ville, Visions d’Anna e, recentemente, Soifs in cui, sotto il sole della Florida, l’autore fa sentire non tanto il rantolo della morte quanto quello del desiderio. “L’opera d’arte, scrive Marie-Claire Blais, addolcisce l’asprezza della verità.”»
Il candidato proposto dalla scrittrice brasiliana Ana Miranda è stato proclamato vincitore del Premio nel 2000. Francisco Dantas è uno scrittore ancora poco conosciuto al di fuori del suo paese d’origine, ma molto importante per la letteratura brasiliana. È infatti un continuatore del Regionalismo, una tendenza inaugurata da Graciliano Ramos, con Caetés, e continuata con Guimarães Rosa, con Grande Sertão Veredas. Il Regionalismo di Dantas è l’oralità sertaneja, che con tutte le sue particolarità crea una situazione estremamente realista. A 50 anni ha pubblicato il suo primo romanzo: Coivara da memoria. Più tardi pubblica Os desvalidos e quindi Cartilha do silencio. Sono tre capolavori profondamente legati al sertão e armoniosamente intrecciati, con assoluta coerenza, dove la tradizione e l’invenzione si completano, ricordando le narrative pastorali e la letteratura “de cordel”. La sua narrativa artigianale, costruita parola per parola, di immensa bellezza poetica, mostra le minime cose del mondo, i palpiti dello spirito, l’ambivalenza della vita tra essere e non essere. Dantas parla delle anime lacerate del Nordeste decadente, dei rapporti umani agonizzanti, della morte della vecchia aristocrazia rurale e patriarcale, dell’erosione del Brasile arcaico, una questione fondamentale in un Paese che si è liberato di recente da un regime autoritario, la cui storia è segnata da un patriarcalismo oppressore perpetuato di padre in figlio. Juan Carlos Onetti, José Cardoso Pires, Jean-Marie Gustave Le Clézio, Gonzalo Torrente Ballester, Vincenzo Consolo, Alexandre Vona, Lalla Romano, Agustina Bessa- Luís, Juan Marsé, Marie-Claire Blais, Francisco Dantas; tre lusofoni, tre ispanofoni, due francofoni, due italiani, un romeno… In undici anni, il Premio Unione Latina di Letterature Romanze ha permesso di attirare l’attenzione su un certo numero di scrittori conosciuti nei loro paesi e nelle loro rispettive aree linguistiche, ma molto meno nelle altre lingue latine. Veri e propri crogiuoli in cui si fondono i miti moderni, cantori delle loro culture, delle loro città e, ognuno a modo suo, della vita, questi scrittori costituiscono un bell’esempio della straordinaria ricchezza delle letterature in lingue romanze. Creare legami tra le letterature latine, mettere l’accento su una certa nozione di parentela in uno spazio tanto vasto e diverso come quello delle lingue romanze, preservando la diversità, i tratti distintivi delle lingue e delle culture nate da una matrice comune è l’obiettivo del Premio Unione Latina di Letterature Romanze.
Certo, è difficile fare di un Premio di questa portata, che comprende cinque lingue e almeno tre continenti, un appuntamento di rilievo in tutti i paesi interessati, ma la fedeltà dimostrata fino ad oggi dagli scrittori ci consente di pensare che siamo sulla buona strada.