Recensione del libro “L’inverno di Monti” di Giulio Sapelli (Mondoperaio 6/2012)
mondoperaio 6/2012
biblioteca/schede di lettura
L’inverno di Monti
Stefano Rolando
“Tutto è instabile, tutto rischia di rovinarci addosso”.
C’è un clima plumbeo attorno alle ispirazioni del pamphlet di Giulio Sapelli, scritto di getto in una notte per le insistenze della redazione de Linkiesta (giornale on line) e poi trasferito in 73 pagine a corpo largo nel tascabile che Guerini ha mandato nelle librerie nell’aprile di quest’anno.
Ma siccome uno studioso civilmente fervido come Sapelli non scriverebbe un libro di invettive, ecco che la prosa – benché sulfurea – prende presto la forma dell’orazione appunto civile e quindi dell’atto di carità di patria. La penna s’arresta al perimetro del recinto della descrizione rovinosa: e così, nelle presentazioni, consenzienti e dissenzienti sollecitano l’autore a profetare un po’, per capire se alle strette una via di uscita non venga fuori. Intanto una “via di uscita” è tracciata in questo L’inverno di Monti dalla ricostruzione dei caratteri internazionali della crisi calata sull’Italia: almeno una via di illuminazione su nessi in buona parte sfuggiti alle cronache dei media. Infatti i media ci hanno fatto vivere in forma virtuale la rivoluzione del 2011, quella che ha messo fine al governo Berlusconi, che pure dichiarava “resistenza” fino ad un’ora prima, e che aveva retto, pur con cinismo parlamentare, alle erosioni della scissione finiana. Ma i media, si sa, raccontano bene gli eventi ma spiegano male i processi. E se l’un-due-tre del presidente Napolitano (resa di Berlusconi, nomina a senatore a vita di Monti, conferimento dell’incarico a Monti) è da considerarsi “evento”, è certo che esso sia stato abbondantemente mediatizzato e quindi a noi “spiegato”. Ma se esso fosse da considerare una fase evolutiva di un più lungo processo, sarebbe giusto dire che di esso gli italiani hanno capito poco. E’ il punto di partenza di Giulio Sapelli e lo sarebbe di qualunque studioso di storia economica applicata alle dinamiche politiche che usa bagaglio culturale e approccio critico per fare le connessioni che le notizie delle concitate giornate di novembre non potevano rivelare. Il pamphlet è corto, ossuto e lirico.
Corto, perché taglia via premesse, derivate, contestualizzazioni. Tratta l’Italia come una “preda” nel sistema degli interessi internazionali, e va diritto al sodo.
Ossuto, perché appunto ci riconsegna una visuale del destino nazionale come poteva essere formulato ai tempi del congresso di Vienna, ai tempi della pace di Versailles, ai tempi degli accordi di Yalta: in sostanza una matrice di geo-politica e geo-economia in cui da un lato si portano in emersione gli interessi internazionali prevalenti e dall’altro si guarda allo schema interno della rappresentazione del potere.
Lirico, perché quel destino nazionale non piace all’autore (piemontese d’origine), e il grido di dolore comincia con l’invocazione del “bisogno di politica” (il sottotitolo del libro), e finisce con i versi di T.S. Eliot in East Coker: “I said to my soul, be still, and let the dark come / upon you / Wich shall be the darkness of God” (Ho detto alla mia anima: taci, e lascia che scenda su di te l’oscurità del buio, che sarà l’oscurità di Dio). Forse una reminescenza heideggeriana per cui “ormai solo un Dio ci può salvare”.
Mario Monti ha l’onore del titolo, ma nel libro occupa solo la pagina finale. E’ il “perché Monti” a guidare l’indagine. Della quale colpiscono tre evidenze.
La prima: la descrizione dei due blocchi politico- sociali dell’Italia della seconda Repubblica – che Sapelli identifica nel blocco Berlusconi e nel blocco Prodi, tagliando via le complessità oltre questa sintesi – porta ad identificare una rappresentanza completamente rovesciata rispetto ai significati di destra e sinistra che erano maturati nella prima Repubblica. Il blocco Berlusconi capace di intercettare il sistema sociale e produttivo piccolo e frammentato (una volta si sarebbe detto di sinistra), il nuovo popolo delle partite IVA, i ceti che hanno conservato un po’ di competitività grazie alla tolleranza di illegalità da parte di quella politica (un tempo chiamata “sommerso”). Il blocco Prodi (perché nell’ex premier Sapelli vede un disegno, mentre nel Pds, poi Ds e poi Pd che ne è stata colonna vertebrale politica vede solo adattamento) capace di intercettare grandi banche e grandi imprese, circuiti della finanza, interessi più corposi (che una volta erano appannaggio politico della destra). Tesi che avrebbe alcune contro-deduzioni, ma che comunque serve con efficacia narrativa all’autore per spiegare che questa evoluzione ha confuso gli elettori, poi ha confuso gli stessi partiti protagonisti, e alla fine ha confuso i cosiddetti mercati – ovvero i centri di interesse dell’oligopolio finanziario internazionale – che hanno ritenuto, appunto alla fine, “non credibili” entrambi i blocchi. La rappresentazione del potere è qui quella dell’Italia della commedia dell’arte che finisce in Pirandello: storia di maschere e di ambiguità.
La seconda: mi sono chiesto, leggendo, se fosse davvero possibile immaginare e scrivere che oggi – dico oggi, con l’Europa, l’euro, la Nato, la globalizzazione, eccetera, eccetera – alcuni paesi europei possano mangiarsi altri paesi europei. Non per modo di dire. Ma è questa la seconda connessione che Sapelli svolge nelle pieghe della crisi di rappresentanza della seconda Repubblica italiana. Con Francia e Germania pronte a disputarsi i resti mortali di un’Italia che al compimento del suo 150° anno, come Stato, rivelava di non avere ancora raggiunto quel traguardo: l’Italia riportata – dopo le glorie di Roma – ai tempi di Carlo Magno, di Napoleone, di Hitler. Anche qui contro-deduzioni sono legittime. Ma nella narrazione resta micidiale per nitore la vicenda di come, per consentire quella deriva, si sia inesorabilmente portata a distruzione la forza della grande impresa italiana, soprattutto pubblica.
La terza: anche qui un certa sorpresa. Possibile che, una volta che i due blocchi politico-sociali descritti si sono resi “incredibili” ai mercati, facendo tra l’altro emergere anche la crisi affaristica dei partiti, la società italiana non abbia mostrato nemmeno l’ombra di altri soggetti di sistema capaci di reggere la transizione? Né altri partiti, né reti delle autonomie, né centri di cultura sociale e civile. Niente. Sapelli, che è studioso di larghissima esperienza anche nelle settorialità e nelle profondità (sud, cooperazione, distretti, eccetera), ha visto il vuoto, ha visto la povertà del tessuto democratico italiano.
Da qui l’epilogo del racconto. Il Capo dello Stato – capo cioè di una istituzione che l’autore (lui dice con la sola condivisione di Stefano Folli) ritiene più potente di quanto abitualmente si pensi – si costituisce in Senatus (che pure aveva un suo diverso pluralismo nell’età di Roma) per mettere in scena il semestre del dictator, un cittadino per bene che ha il sostanziale favore dei patrizi, incaricato di sciogliere i nodi della crisi soprattutto in due direzioni: fare i conti con il quadro internazionale e fare i conti con i plebei. Qui Sapelli taglia cortissimo, presumibilmente per non dovere dar conto del suo personale giudizio critico sulla figura dell’attuale premier, valutato come un corpo figurato del gioco del destino, l’interprete di un disegno: ed è un disegno che non piace all’autore, che finisce, appunto per sentire la cupezza dell’oscurità.
Le nostre domande sono ora legittime.
Innanzitutto quella generata dall’idea di una pre-condizione dell’opera costruens
del governo, ovvero del tornare ad assicurare all’Italia una legittimità di ruolo internazionale che significhi anche un arresto della manovra di spoliazione del paese, non importa se ad opera dei francesi o dei tedeschi: a mio avviso passaggio svolto dal governo Monti, e ad avviso di Sapelli invece svolto a marce basse “per una mancanza di statura politica di Monti che non gli consente né di stare con l’uno o con l’altro e – non essendo Olof Palme – di impostare una duratura mediazione” (la citazione non è tratta dal libro ma dalla discussione con l’autore nella presentazione a Milano).
Inoltre quella generata dal bisogno di una continuazione di analisi per capire se l’esperienza della seconda Repubblica e le condizioni di crisi ormai diffusamente percepite non modifichino la domanda sociale di una politica degli interessi generali: sapendo che questa dinamica non può essere risolta nel “semestre del dictator”, e dunque prefigurerebbe un allungamento dell’esperienza anche dopo le elezioni: il pamphlet non contiene risposte, se non nella critica che Sapelli fa alla commistione tra potere e media in ordine alla “verità che ci è mostrata con infinite riserve, che è quella che ci vogliono far vedere”.
Infine quella generata dal risultato dei due negoziati, con i mercati e con i “plebei”: ossia con chi ci compra i titoli di Stato e con la società che va esprimendo inquietudini, sommovimenti e anche tumulti. Sul primo fronte Sapelli vede compromesso il potere negoziale del paese a causa dello “spezzatino” in cui è stata ridotta la sua dimensione di impresa; sul secondo fronte non immagina che il conflitto sociale giunga a drammaticità, pur sollecitando componenti ancora disponibili all’autoriforma della politica ad indirizzarsi verso forme adattate di dottrina keynesiana.
G. Sapelli, L’inverno di Monti. Il bisogno della politica, Guerini&Associati, 2012, pag. 73, € 8.00