“Stati Uniti d’Europa”. Intervento al seminario promosso al Senato da Critica Liberale (21 giugno)
Stati Uniti d’Europa
Seminario promosso da Critica Liberale
Senato della Repubblica – Sala Santa Chiara
Roma,21 giugno 2010
Seminario promosso da Critica Liberale
Senato della Repubblica – Sala Santa Chiara
Roma,21 giugno 2010
Contribuisco a questo seminario – in controtendenza con il diffuso rinunciatarismo circa le accelerazioni del processo di integrazione europea – come professore universitario impegnato nell’area della comunicazione e dei processi identitari (Iulm, Milano) e, tra gli ambiti di dibattito storico e civile, come presidente della Fondazione Francesco Saverio Nitti, costituita con la partnership di tre amministrazioni centrali e delle istituzioni della Basilicata per esprimere anche qui una controtendenza circa l’idea diffusa che il Mezzogiorno italiano sia spacciato e che non ci debba provare, per esempio sul terreno della formazione della classe dirigente, a seguire progetti di reale innovazione nel management per lo sviluppo con sguardo ben radicato nell’Europa.
Abbiamo svolto, da anni, in università un lavoro sul posizionamento identitario degli studenti: la risposta immediata vede marginalizzata l’Europa, al 60% la risposta di “prima appartenenza” è locale (città, quartiere, etc.), una quota minoritaria risponde ancora all’ideale nazionale (come prima appartenenza), vere minoranze rispondono “regione”, l’Europa non viene in mente salvo poi recuperarla nel contesto delle co-appartenenze Credo che abbiamo conosciuto periodi di maggiore tensione identitaria sull’Europa. Mancando oggi stimolo e presidio attorno al percorso sulla memoria collettiva, manca anche spinta verso il percorso sulla destinazione identitaria. Passano stereotipi che non costano più alcun coraggio. L’accesso facilitato all’Europa (viaggi, consumi, moneta, omologazioni culturali e formative) è un dato certamente importante e rende la gioventù più simile. Ma bisogna chiedersi se l’infrastruttura omologata dei consumi e della musica sia sufficiente rispetto al bisogno di nuovi standard di democrazia, di controllo e di partecipazione.
L’integrazione a ventisette ha chiesto il sacrificio della identità europea (commisurata a coscienza dei diritti e dell’unità politica) rispetto a cui nemmeno il “nucleo forte” ha realmente resistito alla pressione identitaria nazionale dei paesi ex-oltrecortina in cui l’identità nazionale era stata compressa dal comunismo e si riteneva che nemmeno la nuova Europa delle libertà avrebbe potuto esprimere ora poteri riduttivi di un bisogno di rappresentazione primaria di identità storicamente sequestrate. Avevamo – i paesi fondatori – storie diverse al riguardo, ma non siamo riusciti a farle valere. Anche perché non abbiamo più puntato su rappresentanze politiche in Europa credibili attorno ai temi dell’innovazione identitaria.
In questo contesto galleggia il dibattito identitario europeo. Dal mondo dell’economia e delle imprese c’è silenzio, perchè gli interessi hanno già avuto quello che occorreva loro. Su quali punti si può riaprire il dibattito? A breve non certo sulla Costituzione, argomento a sagomatura differenziata circa i diritti individuale e collettivi consacrati; né tantomeno sulle religioni, su cui ogni riflessione scende dai piani alti delle radici spirituali a fare i conti con le convenienze che ormai circondano le politiche migratorie. In realtà si potrebbe aprire una nuova riflessione sulla geopolitica e sulla nuova cultura della sicurezza e della difesa. Dipenderebbe dalla piega che potrebbe prendere la vicenda Turchia che sta passando ad un registro di progressivo peggioramento. Tuttavia esercito e pace (la pace di oggi, non quella dell’immediato dopoguerra, sessanta anni fa) restano discussione importante rispetto a tutte le dinamiche di paura che attanagliano l’Europa e di cui essa deve liberarsi per investire energie là dove l’integrazione è più debole, ovvero il campo della cultura. La parola pace ha scaldato intere generazioni, come garanzia interna della fine per sempre di ogni storica ostilità. A poco a poco essa è stata sostituita dalla parola paura, che ha connotato sia le dinamiche migratorie sia il fronte generale della sicurezza, per venire da ultimo inquadrata nei fenomeni di crisi economica e occupazionale. L’esercitazione – che discende solo da nuovi patti e nuove responsabilità – è quella di trovare una parola nuova e adeguata alla contaminazione identitaria per comunicare l’Europa. La provocazione di rilanciare gli “Stati Uniti” è dunque giusta e dovrebbe corredarsi di proposte anche sotto questo profilo.