“Letture nittiane”. La democrazia (1932), Stefano Rolando a Melfi il 21 maggio 2011

Ciclo di “letture nittiane”
promosso dalla Associazione Francesco Saverio Nitti
nel quadro del 150° dell’Unità d’Italia
 
Evento conclusivo
Melfi, Centro culturale Nitti, 21 maggio 2011
 
Stefano Rolando
Professore all’Università Iulm di Milano
Presidente della Fondazione Francesco Saverio Nitti
 
presenta La Democrazia, opera di Francesco Saverio Nitti del 1932 [1]
 
 
 
Buonasera a tutti. Sento l’onore e la responsabilità di parlare su un tema così grande e difficile qui, oggi,  a Melfi in questa sede e anche in questo momento nel quale sulla parola democrazia si stanno giocando partite civili, politiche e istituzionali importanti nel nostro Paese. Sul valore della democrazia, sull’attuazione della democrazia, per alcuni sulla crisi della democrazia: quindi, una parola d’attualità.
Sento l’onore che viene anche dal fatto di avere accolto la responsabilità di presiedere la Fondazione Nitti, sostituendo male il compito di chi avrebbe dovuto guidare questa nostra iniziativa, l’ambasciatore Joseph Nitti che aveva già presieduto l’Associazione e che purtroppo è prematuramente scomparso. E’ presente qui Giorgio Nitti, suo figlio. Con gli amici delle istituzioni, con persone che hanno ritrovato familiarità con una personalità della loro terra, il progetto della Fondazione ha preso l’avvio. Guardando a questa terra ma avendo a mente che Nitti è appartenuto, profondamente, all’identità del nostro Paese ed è appartenuto all’identità dell’Europa.
Con il ciclo di queste “lezioni” abbiamo cercato di stabilire un nesso con la storia ripensata, dunque la storia scritta, che si rifà viva nel presente, perché le opere che abbiamo presentato – opere non solo dello statista, ma anche del professore, dello studioso, del giornalista, dell’intellettuale – sono opere scritte con lo sguardo indietro dello studioso ma anche con la consapevolezza della tragicità della prima metà del ‘900 e con la capacità di presagire, di guardare lungo, di vedere il destino del Mezzogiorno, dell’Italia, dell’Europa e di fare delle proposte. Proposte di un uomo vissuto a lungo nelle istituzioni che ha sentito cioè di dover andare al di là del compito intellettuale di porre domande, per affrontare anche il compito di trovare soluzioni. L’opera di Nitti resta molto sconosciuta, soprattutto perché non più ripubblicata. Ciò che spiega anche una ragione di attività della Fondazione e dell’Associazione (che è fatta di persone, mentre la Fondazione raggruppa le istituzioni compresa l’Associazione) per valorizzare quest’opera e questo lavoro intellettuale che contiene proposte e dunque politica.
L’hanno capito i giovani che hanno seguito le nostre lezioni. A maggior ragione lo capiscono coloro che hanno un vissuto e che si pongono domande di fronte a cose non sempre chiare, non sempre facili, non sempre digeribili. Quando conosciamo meglio una personalità che fa parte della nostra tradizione, della nostra identità, che è stata capace di guardare indietro e avanti per porci ancora oggi, a distanza di tanti decenni, interpretazioni di grande attualità, credo che riconosciamo in questo un vero conforto culturale.
L’opera “La Democrazia” è, nel vasto panorama degli scritti nittiani, la più complessa per tante ragioni.
Nitti comincia a scrivere sulla democrazia a partire dal biennio 1903-1904. Sono, per lui, anni di grandissimo impegno operativo. Nel 1905  scriverà il piano per Napoli, documento di intelligenza progettuale tra i più significativi del suo lavoro di proposta per l’innovazione e la modernizzazione. Nitti, appartenuto diciamo alla classe dirigente post-risorgimentale, per molti versi un ceto politico elitario, ha un’idea della democrazia basata largamente sui classici e anche un’ idea della storia d’Italia a quel tempo alle prese con un primo indispensabile consolidamento della propria condizione unitaria. L’apertura del nuovo secolo è per l’Italia e la sua classe dirigente un momento di speranza. L’inizio del secolo infatti vede l’Italia, come altri Paesi europei, pronta alla modernità. Ma gli anni cambiano rapidamente. Si arriva presto in un contesto di guerra. La guerra è vissuta da una parte minoritaria della classe dirigente e certamente anche da Nitti con un certo senso d’angoscia. Nitti inizia nel 1911 il compito decisivo del suo percorso politico-istituzionale, cioè quello di assumere il dicastero dell’Agricoltura e dell’Industria che significava al tempo il controllo dell’economia del paese in un governo, guidato da Giolitti, pieno di speranze, appunto quelle del nuovo secolo, ma anche pieno di problemi, appunto quelli che preludono al grande conflitto mondiale. 
Accanto all’azione di governo Nitti continua a prendere appunti, continua a lavorare sull’idea di spiegare e raccontare la democrazia. Gli anni che vanno dal 1911 al 1919 – con dentro il lustro del violentissimo scontro militare – sono gli anni del Nitti statista. Nel ’19 assume infatti la responsabilità di guida del Governo e di mezzo c’è la trattativa difficile per assicurare all’Europa la pace che dopo la guerra si negozia a Versailles. Come è stato ben detto anche in altre occasioni all’interno di questo ciclo di lezioni, in quel momento Nitti pensa ad un’Europa in cui la guerra sia scongiurata per sempre. In cui cioè il conflitto sia risolto alle radici e, quindi, si fa portatore di una proposta di pace vera. Il richiamo di Nitti – che parlava il tedesco, che capiva la cultura tedesca – di non infierire sui vinti era l’idea che quei vinti, portando l’orgoglio di un grande paese, di una grande tradizione culturale, come  la Germania, avrebbero potuto provocare, da lì a poco, di nuovo il rischio del conflitto. Nitti sarà in minoranza nella trattativa internazionale per la pace. Scriverà libri importanti sull’Europa, sulla guerra e sulla pace, ma non sarà confortato dall’idea che i vincitori ebbero a proposito del modo di regolare i trattati.
Come sapete la storia da quel periodo, il ’18-’19, da lì a poco si apre – in Italia e in Europa – a passaggi drammatici. La rivoluzione bolscevica in Russia apre infatti paure e preoccupazioni nelle borghesie d’Europa. In Italia lo slittamento impaurito a destra di un Paese già travagliato per la fine della guerra aprirà di lì a poco le porte al fascismo. Il governo Nitti cade nel 1920 e i governi successivi non riescono più a trattenere la situazione. Nel 1922 arriva il fascismo. Nitti fa parte di un ceto politico che credeva fortemente all’idea di vedere ormai consolidata la democrazia. Una democrazia ancora limitata, magari, una democrazia che è comunque “governo di popolo” ma con un popolo che, per la verità,  ancora non vota.
Ma pur sempre con il diritto di chi vota di scegliere e con il diritto delle minoranze di esercitare controlli. Fatta l’unità d’Italia nel 1861,  nel 1870, mi pare, si tennero le elezioni e votò il 2% del Paese. Si votava per censo, votavano solo gli alfabetizzati, non votavano le donne. Il 2% apparteneva a quel “governo di popolo”, ma come parlare di democrazia in senso pieno?
Nitti sapeva di numeri e conosceva il valore delle parole. La tensione tuttavia era di vedere, grazie alla modernizzazione, grazie all’innovazione dell’età industriale che si avviava, a ciò che il ‘900 avrebbe portato di nuovo, anche per le istituzioni.
Il secolo si era aperto con segnali simbolici: la torre Eiffel a Parigi, l’Expo a Milano, segnali di una modernizzazione che ci avrebbe portato in avanti costruendo le condizioni di ricchezza del Paese e di consolidamento anche delle istituzioni. Questa speranza faceva immaginare a Nitti, come ad una buona parte della classe dirigente di quel periodo, che il fascismo sarebbe stato un inconveniente, un errore, una scivolata, un passaggio negativo della storia che tuttavia si sarebbe ricucito. Quella classe dirigente pensava che sarebbe durato pochi mesi. Nitti rimase infatti in Italia, pur ormai essendo chiaro che la classe dirigente prefascista era in difficoltà politica su tutto il fronte. Rimase in quel periodo in una certa attesa, pur colpito dagli avvenimenti, e si ritirò per molto tempo tra il 1922 e il ’24 ad Acquafredda, qui in Basilicata, riprendendo in mano i classici del pensiero storico, della scienza politica, della filosofia; riflettendo sul problema di come lo studio, riportato dalle condizioni antiche fino alla modernità, lasciava aperti molti problemi a cui il presente – per come il presente si andava svolgendo – non dava risposta.
Quei due anni permisero a Nitti come ad altri esponenti ormai di opposizione (liberali, cattolici, socialisti) di verificare l’andamento di una situazione che andava peggiorando. Come tutti sanno, nel 1924 dopo il delitto Matteotti e l’assunzione di responsabilità che fa di Mussolini il trasformatore di un movimento in un regime, quella classe dirigente dovette fare i conti con l’inasprimento proprio della liquidazione delle libertà costituzionali, della funzionalità del Parlamento come luogo di maggioranza e di opposizione e, quindi, in senso lato della democrazia. Nitti – che subì la devastazione della casa operata dalle squadracce fasciste – partì in esilio per Parigi, con la sua ampia famiglia. Una famiglia che rimase per oltre vent’anni fuori dall’Italia.
 La sua riflessione sul significato e sul valore di un patrimonio culturale e civile come la democrazia, si caricava dunque di una evoluzione drammatica del rapporto tra vita e storia. Non avendo più la politica da opporre agli eventi, restava almeno l’obiettivo di consegnare un’opera, un armamentario intellettuale, che servisse a una riflessione profonda attorno a quel tempo, utile agli italiani e soprattutto ai più giovani.
In realtà il libro non uscì praticamente in Italia, uscì in varie lingue, perché Nitti parlava e scriveva più lingue, in diversi Paesi del mondo, tra il ’32 e il ’33. Se ci si pensa bene uscì nel momento in cui la storia dell’Europa prendeva una seconda piega drammatica. Nel ’33 in Germania, su imitazione dell’esperienza italiana, si afferma infatti il nazismo. E gli anni ’30 sono anche quelli in cui ormai quella pallida idea di rifare la rivoluzione francese che aveva avuto all’origine la rivoluzione russa si era trasformata ormai in una dittatura, una dittatura stalinista.
Insomma a destra e a sinistra, se vogliamo dirla così, l’Europa delle democrazie stava consegnandosi a modelli di liquidazione della democrazia stessa e affermava forme di preoccupante dittatura. Nella divaricazione profonda della politica europea si configura anche la tendenza ad un nuovo conflitto. Quegli anni finiranno infatti nello scontro epocale tra il modello democratico e i modelli non democratici. Uno scontro che non poté essere regolato dalla politica, dalla diplomazia, dalla cultura, ma che fu regolato tragicamente dalla guerra, una guerra che consegno al mondo altri 50 milioni di morti.
E’ evidente che l’insegnamento della democrazia ha fatto dire a quelle generazioni e alle generazioni che sono nate dopo che questa era una partita non garantita nel tempo e a qualunque condizione perché era scritto nei classici,  perché già la storia di 2500 anni del valore inverato della parola democrazia aveva dimostrato che essa appariva e scompariva nella storia, c’era e non c’era più. Esisteva ed era sottratta.
Vero che essa è esistita anche quando la storia poi – lo dico semplificando – ha “parlato d’ altro”. I lunghi anni del medioevo, per esempio, in cui si è detto che le forme di governo erano “tribù e leader”, un capo che si aggirava con la spada a conquistare e a fare preda, nella disarticolazione di un mondo che per tanti anni aveva avuto un assetto assicurato da Roma e dal suo impero. Ma non si può non vedere che anche durante il medioevo il pensiero democratico camminava in qualche modo, le comunità cristiane che applicavano la cultura del vangelo avevano per esempio un senso diverso delle culture delle dittature. Solo un esempio di ciò che fa della cultura medioevale una cultura complessa e transitoria. Una cultura tra l’altro che ha consegnato al tardo medioevo poi alla fine all’età pre-rinascimentale la tradizione dei classici e quindi la possibilità di conservare l’idea della democrazia come idea dell’organizzazione delle comunità.
L’Italia è un esempio di storia in cui non distinguendo nettamente nord e sud, ma anche a volte tra un paese e un altro paese vicino, tra una città ed un’altra città nella stessa regione, il modello del comune democratico poteva esistere rispetto al modello storico rappresentato dalla signoria, come esperienza di una comunità che sapeva auto-reggere i suoi destini;  oppure come esperienza di una comunità che aspettava tutto (o quasi tutto) dall’alto. Esprimo questo in modo forse un po’ troppo semplificato ma la sostanza che si legge nella nostra storia è quella di vicende di comunità che sapevano organizzarsi e vicende di comunità che dipendevano – cittadini in forma pura di sudditi – dal risolutore. Non è propriamente questa la storia che ha condannato il Mezzogiorno perché l’esperienza del comune democratico è stata diffusa e la si rintraccia anche nel Mezzogiorno.
Dicevo stamattina ai ragazzi delle scuole, facendo un po’ di campanilismo milanese, di cui per la verità non soffro per niente (magari ce l’avrò tra qualche giorno…), che Milano è una città che nel duecento ha istituito il catasto, nel senso che se avevi casa avevi anche il diritto di averla accatasta a tuo nome. Una città che più o meno a quel tempo se non eri nobile avevi il diritto lo stesso ad accedere alle cariche pubbliche. Questa cosa non avveniva a Roma, per dire un’altra città molto significativa nel panorama italiano, che a lungo non ha avuto il catasto, a lungo non ha avuto l’università, a lungo non ha avuto l’accesso al potere dei non nobili.
Quando noi diciamo queste cose per dire democratico o non democratico, facciamo riferimento a categorie che vediamo al giorno d’oggi trasformarsi da culture antiche a forme sociali e culturali ancora estremamente vive. Fatemi ripetere l’ultima cosa “campanilistica” che dicevo questa mattina ai ragazzi: se in una scuola elementare di Milano si rompe un vetro, le mamme hanno preoccupazione che, siccome fa freddo, i bambini non prendano la bronchite e quindi si telefonano, fanno rapidamente la colletta, si comprano il vetro, lo rimontano e poi vanno a presentare il conto al direttore dell’istituto. Avendo vissuto – e per altro benissimo – a Roma per trent’anni dico che la tendenza lì è piuttosto quella che le mamme si telefonano per sapere chi conosce l’assessore. Insomma la storia delle esperienze che noi riconnettiamo alla comunità in cui viviamo ci deve far risalire ai caratteri democratici come caratteri di una cultura civile profonda. Se attraverso più o meno codificate assemblee dei cittadini che malgrado i cosiddetti “secoli bui” riuscivano a vivere l’esperienza di comunità decisionale è leggibile la storia antica di una città o di un borgo, state sicuri che quella traccia non si è perduta. Essa si riflette nelle culture oggi che appartengono a cittadini che non pensano che tutto debba venire dall’alto. Così come laddove non c’era esperienza di comunità c’era anche l’attesa mitica e messianica che qualcuno ti risolvesse i problemi o anche il convincimento che vi fosse qualcuno a cui delegare tutto, ebbene quella resterà una dominante della cultura locale.
Questo ci spiega perché sulla parola democrazia noi non giochiamo solo sul terreno delle regole o delle costituzioni, ma anche sul terreno delle culture collettive.
Questo è un problema di fondo che ci fa dire che la questione democratica non è solo una questione giuridica ma è prima di tutto una questione culturale. Misurata con la storia del ‘900, in cui le regole e le culture ci sono state e non ci sono state, sono esistite e sono state sottratte, questo tema ci fa dire oggi a noi stessi e ai nostri ragazzi: guardate che la democrazia non è un valore spontaneo, non è regalata per sempre, dipende dalla coscienza vigile dei cittadini e dalla capacità della comunità di vivere la democrazia come un insieme di diritti acquisiti, ma da difendere continuamente e soprattutto da sperimentare continuamente.
La prima lettura che vi propongo – su questo aspetto – non è di Nitti. E’ un brano di un discorso di un signore che noi tutti conosciamo bene, il nostro Presidente della Repubblica , Giorgio Napolitano,  che a Tel Aviv, pochi giorni fa, ha detto le seguenti cose:
 
Non mi sottraggo alta responsabilità che ancora mi spetta esercitare operando e pensando per l’ulteriore “marcia della democrazia”. Mi compete di certo la responsabilità di operare come Presidente della Repubblica italiana per il consolidamento della democrazia rinata nel mio paese più di sessant’anni fa grazie alla lotta contro il fascismo, alla Resistenza e alla vittoria detta coalizione antinazista nella seconda guerra mondiale. La democrazia, neppure se sia stata ricostruita come in Italia sulle forti basi di una moderna Costituzione, può considerarsi compiuta e vitale una volta per tutte. Essa richiede attente cure; verifiche critiche, riforme se necessario e comunque nuovi sviluppi in rapporto al mutare dei tempi e dette esigenze. E’ mio dovere adoperarmi perché in questo senso si esprima in Italia uno sforzo condiviso. Ma l’impegno per la democrazia non può restringersi in un orizzonte nazionale. E’ essenziale che dall’Italia come da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea si contribuisca a rafforzare e fare avanzare i valori e te istituzioni che caratterizzano l’integrazione dell’Europa oggi a 27 come grande esperienza di democrazia comunitaria e sovranazionale. A questo fine vanno decisamente arricchite le possibilità – attraverso canali efficaci – di partecipazione dei cittadini al processo di formazione degli orientamenti e delle decisioni dell’Unione, vanno garantite la trasparenza e la affidabilità delle istituzioni dell’Unione, nel loro rapporto con le opinioni pubbliche e con te istituzioni rappresentative nazionali[2]
 
Diciamo la verità, noi – parlo per la mia generazione, per esempio, ma anche per le successive – siamo nati figli o fratelli della Costituzione, della Repubblica, della affermazione della democrazia. Abbiamo convissuto con questa parola come una parola che ci appartiene. Pensiamo di essere “naturalmente democratici”, diciamo così. E con questa parola non abbiamo fatto dei conti drammatici, così come la generazione dei nostri genitori. Abbiamo qualche volta scherzato sull’essere o meno democratici, abbiamo per esempio  nostri artisti che ci hanno strappato un sorriso su questo. Sentiamo alcune parole dell’attacco di una famosa canzone di Giorgio Gaber, scritta nel 1996, che s’intitola “La democrazia”.
 
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno Stato di organizzarsi sono arrivato alla conclusione che la democrazia è il sistema più democratico che ci sia. Dunque, c’è la democrazia, la dittatura… e basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura in Italia c’è stata e chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. Io, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che quando nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa vuol dire, ma romano io?!… D’altronde, diciamolo, come si fa oggi a non essere democratici?” [3].
 
Se si riprende in mano la storia dei classici che Francesco Saverio Nitti padroneggia in questa che Luigi Firpo chiama nella sua prefazione “immane opera”, due tomi di complessive 1100 pagine, precisI nella costruzione della cultura della memoria e nella cultura della proposta, si capisce che non c’è questa scherzosità . C’è un avvicinamento della storia – anzi delle storie del mondo – a una vecchia, antica espressione: democrazia. Che è parola greca che vuol dire governo del popolo Il Devoto- Oli ci dice essere “concezione politica fondata sui principi della sovranità popolare, dell’uguaglianza giuridica dei cittadini, dall’attribuzione di diritti e dovere sanciti dalla Costituzione, dalla separazione dall’indipendenza dei poteri”.
Non diamo per scontato niente di tutto questo. Pensiamo che c’è dibattito vivo intorno a tutto ciò.
Ci rendiamo così conto che il tema è figlio di regole e, come sempre e in pari tempo, figlio di culture condivise nella società. Prima di giungere alla condivisione (nei limiti in cui oggi questa parola esprime un significato univoco , limiti immensi a guardare i conflitti nazionali e internazionali ancora in atto) di culture e regole, l’umanità moderna per alcuni secoli ha fatto grandi cammini, grandi scontri, non poche anticipazioni. Marsilio da Padova, nel ‘500, sviluppò l’idea della sovranità popolare legata ai principi della cooperazione e della rappresentanza. Per lungo tempo, forse le nostre reminiscenze liceali ce lo ricordano, grandi pensatori, grandi filosofi su questa parola hanno misurato l’evoluzione del pensiero, tenendo conto che ci fu, per lungo tempo, un apprezzamento prevalente della filosofia per l’istituzione della monarchia. La monarchia garante, la monarchia costituzionale. Così da indurci a dire anche oggi che la democrazia non è formula regolata dalla modalità della forma dello stato, ma piuttosto dalla forma di governo. Il ‘600 inglese riprende tutta questa problematica della cultura costituzionale, per arrivare a Montesquieu nel ‘700 con il punto relativamente più importante di quella elaborazione sulla separazione dei poteri, il legislativo, l’esecutivo ed il giudiziario. In pieno ‘800, con “On Liberty” di John Stuart Mill, il tema della democrazia diventa il tema della democrazia rappresentativa cioè l’esercizio del potere impossibile per un uomo solo. Naturalmente l’800 è complesso, dato che il pensiero liberale aveva aperto le porte a molti significati sul valore della libertà, ma con Marx ed Engels arriva il tema che nel concetto di democrazia ci deve essere anche il concetto di giustizia e il concetto di eguaglianza.
La complessità di questo dibattito dell’800 è riequilibrato ancora nella primo ‘900 da pensatori, in gran parte protestanti, ma legati alla cultura del capitalismo come Max Weber o Joseph Shumpeter che ritengono che la società moderna preveda la necessità della disuguaglianza. Ma proprio perché prevedono la necessità della disuguaglianza pensano che la democrazia sia l’unico metodo per decidere chi detiene legittimamente il potere e, quindi, il criterio che definisce il problema delle regole.
Il laboratorio del ‘900 mette tutta questa tematica in una grande discussione e come si è detto, spacca la visione della società sulle regole e sui poteri tra i paesi a governo democratico e paesi che preferiscono conferire all’uomo solo la sostanza del potere decisionale. Nitti non fa questione di forma di stato, era stato primo ministro del Re, forse allo stesso referendum del ’46 votò per la monarchia, come molti altri hanno immaginato di fare, non perché di destra o di sinistra, ma perché ritenevano che fosse la forma che garantiva di più l’autonomia dello Stato rispetto alla Chiesa (lo ha dichiarato Eugenio Scalfari pochi giorni fa, cioè di aver votato monarchia nel ’46 in questa chiave) e quindi la complessità della forma di Stato rispetto alla questione va lasciata in disparte rispetto, invece, alle regole delle forme di governo.
Francesco Saverio Nitti si pone in sostanza il problema della democrazia sostanziale, quella rispetto al potere di popolo e al governo di popolo rispetto alla tradizione del governo unitario del censo e, quindi, del potere dei ricchi. Sentiamo su questo – e oggi per la prima volta – Nitti.
 
La democrazia suppone la libertà e tre condizioni che i Greci chiamano isonomia, isotimia, isegoria. Non vi può essere un regime di democrazia senza libertà, ma vi può essere un regime di libertà senza democrazia. A Roma fin quando i patrizia e i plebei, che non erano solo due classi sociali, ma due gruppi politici di diversa origine e diversi anche i fronte alla religione, non ebbero uguaglianza di diritti, vi era la libertà, non la democrazia. La libertà era naturalmente nei limiti in cui gli antichi la concepivano. La libertà come noi l’intendiamo non è che una concezione moderna che gli antichi non ebbero mai nella loro essenza, come non concepirono mai l’idea di patria e l’idea di nazione nel senso che noi diamo oggi a queste parole , come non intesero mai le idee di autonomia e autodecisione dei popoli”[4]
 
E ancora:
Le scuole politiche reazionarie e soprattutto il nazionalismo insieme all’apologia delle gerarchie e della stabilità, cioè della fissità degli ordini sociali, inclinano alla difesa delle aristocrazie ereditarie, come quelle che ereditano virtù tradizionali e sono le più adatte a conservare gli ideali della nazione e ad assicurare la difesa della patria. Giungono fino a trovare con estrema leggerezza un fondamento scientifico a questa concezione arbitraria e a impiegare pretese leggi della biologia in sostegno di concezioni stravaganti. L’equivoco nasce soprattutto dalla confusione che si fa fra ceri e gruppi superiori, quelli che i Francesi chiamano élites, e aristocrazia, che non vuoi dire né classe dei migliori, né classe dei più forti, ma una sopravvivenza di famiglie, che non hanno più le funzioni politiche ereditarie che avevano in passato, ma che aspirano a riacquistarle, o almeno a conservare o a ottenere un certo numero di privilegi”.[5]
 
A questo punto si apre il coperchio di questa grande pentola in cui bollono concetti complessi.
Dobbiamo vedere cosa c’è dentro e quali sono le componenti fondamentali del concetto di democrazia.
Innanzitutto c’è la questione del voto e cioè del potere che il cittadino ha di esercitare la sovranità.
Nella storia d’Italia, lo abbiamo sentito tante volte in questo anno dedicato ai centocinquant’anni dell’unità d’Italia,  non sono stati 150 anni di voto popolare a suffragio universale. Nel 1861 votò l’1,89% degli italiani. Si dovette aspettare l’allargamento introdotto della legge Zanardelli del 1882 per vedere dato il voto sempre e solo ai maschi, maggiorenni di 21 anni, ma sempre alfabeti e a coloro che avevano versato imposte dirette per una cifra almeno di 19 lire. Alla fine era il 2%. Divenne il 6% (non il 60% !) ai primi del secolo. Finché nel 1912 la legge Giolitti allargò ancora per una piccola quota e si passò all’8%. Arrivò nel 1919, proprio con Nitti presidente del Consiglio,  l’abolizione della distinzione tra alfabetizzati e analfabeti e il voto passò a 11 milioni di italiani, una prima rappresentanza che potrebbe dirsi “popolare”.
La verità è che il suffragio universale noi l’abbiamo avuto solo nel 1945, quando le donne hanno votato e si è creata la dimensione appunto del voto per tutti. Questa storia è importante perché è stata una conquista storica che va ricordata soprattutto adesso quando gli astensionisti formano il più grande partito italiano. Oggi sono nell’ordine del 35-40% e, quindi, sono diventati il più grande partito del Paese. Per carità tutto va rispettato e va rispettato anche l’astensionismo critico, la difficoltà di riconoscersi, la sottesa protesta al voto deliberatamente non espresso. Ma l’astensionismo inconsapevole di dover esercitare un diritto andrebbe discusso.
Norberto Bobbio ci ha dato delle pagine molto importanti su questo aspetto avevo prevista una citazione, ma il tempo vola e non è il caso di sintetizzarla. E’, invece, tempo di parlare del pluralismo effettivo della rappresentanza. Un tema su cui Nitti ha scritto. Ho citato Bobbio per dire che fino ad oggi si sta discutendo di come la democrazia non è solo luogo in cui si esercita il suffragio universale e il cittadino offre una delega, ma è anche il luogo e il modo con cui gli interessi si rappresentano. Gli interessi si rappresentano in modo organizzato, in un modo che preme sul sistema decisionale e torna ad essere la questione della formazione delle decisioni il problema vero della democrazia.
Sentiamo ora brevemente Norberto Bobbio sulla rivincita degli interessi.  
 
Da questa prima trasformazione (prima nel senso che riguarda la distribuzione dei potere) è derivata la seconda, relativa alla rappresentanza. La democrazia moderna, nata come democrazia rappresentativa, in contrapposizione alla democrazia degli antichi, avrebbe dovuto essere caratterizzata dalla rappresentanza politica, cioè da una forma di rappresentanza, in cui il rappresentante essendo chiamato a perseguire gl’interessi della nazione non può essere soggetto a un mandato vincolato. Il principio su cui si fonda la rappresentanza politica è l’esatta antitesi di quello su cui si fonda la rappresentanza degli interessi, in cui il rappresentante, dovendo perseguire gl’interessi particolari del rappresentato, è soggetto a un mandato vincolato”.[6]
 
E ora cosa diceva Nitti sulla democrazia e gli interessi.
 
“Ogni democrazia ha per effetto di assodare un grande numero di interessi e negli ultimi sessant’anni l’azione del socialismo è stata sempre, soprattutto quando ha creduto di essere rivoluzionaria, didascalica ed educatrice. La creazione di sindacati e di cooperative, non solo forma una classe politica nuova e assai numerosa, ma associa una quantità innumerevole di piccoli interessi. È assai difficile che il popolo sia veramente rivoluzionario: viceversa sono i grandi interessi che agiscono come causa di turbamento assai più considerevole e profonda. La faziosità dei ricchi e dei nobili tutte le volte che lo Stato non è favorevole ai loro interessi non ha riscontro in alcuna forma democratica”. [7]
             
              C’è della modernità in questo. Non è vero?
Noi dobbiamo affrontare, a questo punto, un paio di temi spinosi. Un tema che oggi non riguarda solo l’Italia, ma la democrazia occidentale in senso lato, è quello del profilo del cambiamento della democrazia connesso al  problema del controllo sociale dei cittadini rispetto alla trasformazione in corso.
Il  sistema della democrazia rappresentativa si esprime in forma di delega mediante il  voto. Ti voto, mi rappresenti, ne parliamo tra cinque anni, ti verifico, ti confermo, non ti confermo. Ma questa funzione così diretta cittadino-eletto in realtà la costituzione la vede costruita con un’architettura più complessa che vede, all’articolo 47, la mediazione dei partiti, cioè sistemi organizzati, ancorché privati,  che, consentendo la partecipazione attorno a dimensioni valoriali e al pluralismo, costruiscano la classe dirigente che si colloca nella dinamica della delega. Quindi il partito politico diventa il luogo in cui la costituzione presuppone la selezione della classe dirigente per creare le condizioni di delega. Da questo punto i partiti sono sì soggetti privati, ma di natura costituzionale, che ne esprime al massimo – non al minimo come spesso fanno credere – la natura pubblica.  
E allora cosa ci viene in mente alla luce delle cose che abbiamo detto? Di andare a vedere se c’è democrazia nei partiti. Perché come è pensabile che se un partito al proprio interno non seleziona democraticamente,  poi esso generi classe dirigente capace di avere quella cultura del diritto che diventa cultura diffusa? E gli ultimi periodi della storia,  non solo italiana attenzione, hanno dimostrato che la democrazia nei partiti è manipolata. E’  una storia complessa, in realtà, per come si va configurando di recente.  Nitti era figlio del suo tempo, pur giornalista ottimo, per carità, sapeva cosa erano i media, ma sapeva cosa erano i media del suo tempo che arrivarono anche ad essere potenti perché il fascismo fece di alcuni media strumenti davvero di massa, pensate alla radio;  ma che cosa sono stati i media nella seconda metà del novecento e cosa sono oggi i media era difficile immaginarlo in quell’epoca. La trasformazione della democrazia avviene oggi non solo per evoluzione sociologica dei partiti ma anche per la rivoluzione del sistema delle comunicazioni e delle interazioni personali. Un sistema che ha fatto oggi preferire nel sistema politico la selezione della classe dirigente attraverso il principio della leadership piuttosto che attraverso le regole dei partiti così come li abbiamo vissuti per molta parte dell’età repubblicana. La complessità dei congressi, la rappresentanza interna, le correnti, il “cursus honorum”, insomma quella modalità legata ad un profilo della democrazia interna dei partiti, che ha riguardato tutti partiti, ad un certo punto, noi diciamo più sbrigativamente all’americana, è stata un po’ sostituita da una forma totalizzante dalla leadership. Questo funziona perché piace, questo funziona perché parla bene, questo funziona perché ci sa fare. Tutte cose legittime rispetto al potere crescente dei media. Diciamo la verità, forse niente di nuovo. Questa modalità magari ha rispettato regole vecchie come il mondo. C’è da pensare che pure Pericle ci sapesse fare, sapesse parlare, non fosse proprio un imbranato nel rapporto con la comunità greca, pur con la democrazia ristretta a diecimila persone,  ricordiamocelo sempre. Non era una democrazia così universale. Ma l’impressione che la dinamica della leadership abbia sostanzialmente emarginato il principio forte di una democrazia dei partiti noi l’abbiamo forte. E guardate tutti pensano a Berlusconi, ma non ci dimentichiamo che alcuni competitor di Berlusconi sono stati nominati in trattoria da autoreferenti leader. Cinque persone si trovavano in trattoria e decidevano chi era il leader rappresentativo!  Non era propriamente un sistema corretto dalle primarie – che per fortuna hanno ripreso cittadinanza (per ora solo nel centrosinistra) – e da modalità di delega in una forma in cui la partecipazione alla definizione della classe dirigente avvenga in una forma più partecipata possibile. E’ un tema spinoso, attuale, riguarda centralmente le forze oggi al governo, ma è  importante sapere come comunità di cittadini dove ci interessa che vada finire questo sistema già minato dall’esproprio di diritto di scelta dei candidati sulla scheda elettorale. Se va verso un sistema in cui è chiaramente azzerata la capacità dei cittadini di definire la selezione della classe dirigente in favore della sola qualità dell’immagine, della mediaticità, ebbene viene inquinata  la politica come “fonte” delle regole che tengono viva la democrazia. Questa roba Nitti – pur politico di un’era elitaria, ma in cui il rapporto con il collegio era almeno reale – non l’aveva prevista. Limitiamoci a questo.
Pongo ora un secondo un problema di riflessione  importante. Qui in sala ci sono amici che hanno avuto un ruolo parlamentare, penso a Nicola Pagliuca, o oggi in assemblee regionali come Ernesto Navazio, lo stesso Pagliuca e altri che sono qua. Amici abituati a stare nei consigli comunali, provinciali, regionali, nazionali. Guardate qui c’è questo problema fondamentale. Se noi fossimo qui a parlare in una qualunque città dell’Inghilterra, in una comunità di cittadini inglesi, noi potremmo tranquillamente ancora oggi dire che, a fronte di un risultato elettorale, se si dice tu hai vinto le elezioni e, quindi, governi, si dice anche tu hai perso le elezioni e, quindi, controlli. Noi ci rivolgeremmo a dei cittadini che sono consapevoli che chi vince e chi perde hanno lo stesso potere in democrazia. Perché il governo e il controllo pesano paritariamente. Almeno tendenzialmente. Il che vuol dire che chi governa sta al governo ben sapendo che chi controlla controlla davvero. Cioè esercita, fino in fondo, la capacità tecnica, professionale, culturale e politica di dimostrare al cittadino che c’è un’alternativa rispetto alle opzioni e ai metodi del governo. Non lanciando solo rissose ipotesi di alternativa per succedere. Ma determinando una capacità di gestire (e spiegare) il controllo per migliorare il governo. E così da noi? Funziona così? Io ho l’impressione che chi perde si mette nella condizione di, come dire, chiamata fuori rispetto al problema di migliorare la qualità del governo e un po’ rissosamente, un po’ in maniera facilona,  pensa solo a quando arriva il momento di riprendere in mano le redini. E che cioè o si governa o non si conta. Ma nelle democrazie tradizionali e classiche non è così. Io l’ho sentito dire, forse un po’ sinteticamente, da Giuliano Amato che potere e contropotere in democrazia hanno lo stesso potere e un po’ l’abbiamo studiata così sui libri. Quel che oggi si vede nelle assemblee elettive  è che si va a cercare forme di controllo (di solito casuali, reattive, mirate a fare danno a persone, non a correggere l’andamento istituzionale) non tanto nell’opposizione, ma nella parte di maggioranza che non è al governo. E’ curiosa la cosa. Cioè quella parte di maggioranza che non è stata scelta per il ruolo di governo e che esercita il ruolo di tallonamento per sostituire l’assessore o il ministro.
Questo tema del controllo – perdonatemi il “pallino” acquisito negli anni in cui ho fatto il direttore generale di un’assemblea legislativa più che in quelli in cui ho fatto il direttore generale in seno all’esecutivo – è un tema rilevante perché la qualità delle nostre istituzioni  legislative dipende non tanto dal fatto che esse votino le leggi, perché è evidente che votano le leggi alla fine (che  in gran parte sono generate dagli organi di governo), ma dalla capacità di esercitare, in maniera costruttiva, il controllo e la valutazione. E’ un tema fondamentale della cultura della democrazia,  insieme all’altro tema che è quello della rendicontazione della democrazia. E cioè la capacità di spiegare i risultati con parametri predefiniti così che il cittadino possa capire se hai speso bene o male i suoi soldi.
Le pagini di Nitti al riguardo sono quelle di un uomo consapevole di questo problema. E adesso troppo lungo sarebbe entrare in questo ragionamento comparativamente con quei tempi. Ma la cultura della democrazia basata sulla capacità di critica del governo, in chi ha cultura di governo, è sempre gestita in maniera costruttiva. E’ sempre gestita da un grande amore per il proprio Paese e dall’idea di potere, comunque, contribuire al miglioramento dell’esito della politica nazionale.
Terzo tema – così completiamo un po’ questa attualizzazione della materia – è quello che anche la società ha il diritto di controllare. E lo fa. Le associazioni, i sistemi d’interesse, le imprese, “l’età dei diritti” ha scritto Norberto Bobbio.  E vi sono pagine di Nitti dedicate al “ruolo della società organizzata” , noi la chiamiamo in gergo la società civile (come se ci fosse una società incivile…), ma forse per società civile intendiamo la società consapevole di dover esercitare questo ruolo di negoziato, di vigilanza e anche di mediazione nella democrazia. Oggi abbiamo di fronte a noi un’evoluzione del concetto di democrazia che già nella prima parte del ‘900 si comincia a cogliere, ma certamente negli ultimi trent’anni si è molto sviluppata. Dicevo stamattina ai ragazzi che non hanno vissuto l’Europa come il pubblico adulto l’ha vissuta, cioè il farsi dell’Europa, che l’Europa come è noto a tutti non è uno Stato e, quindi, non ha una costituzione. E’ un bene, un male? Certo l’Europa non è gli Stati Uniti d’America con una  costituzione, una bandiera, una moneta, una lingua, una cultura. Noi abbiamo l’ Europa che ci ha difeso, ci ha protetto, ci offre regole e standard. Ma è fatta di 27 Stati che hanno difeso quello che è rimasto dalla pace di Westfalia, collocata alla fine del ‘600, quando l’Europa disse ma perché dobbiamo farci la guerra gli uni con gli altri in nome del nostro re o in nome della nostra religione. Siccome tutti volevano farsi la guerra, perché piaceva a tutti farla, almeno facciamocela in nome di uno Stato, non in nome di un signore. E la pace di Westfalia segnò la costruzione degli Stati moderni per farsi lo stesso la guerra ma almeno come Stati-nazione . E lì cominciò appunto la vicenda degli Stati-nazione, che non è ancora conclusa.  Ce la siamo portati dietro nel ‘700, poi nell’800 dopo il congresso di Vienna abbiamo avuto un po’ di moti che l’hanno consolidata. In fondo anche i moti rivoluzionari dell’800 sono stati il tentativo delle comunità nazionali di riprendersi il proprio Stato-nazione non occupato dagli altri. Ci abbiamo fatto una prima guerra mondiale sugli Stati-nazione tanto che per rettificare i confini abbiamo fatto cinquanta  milioni di morti:  ma è mai possibile che l’umanità del ‘900 non abbia saputo trovare metodi diplomatici per rettificare i confini ancora?  Eppure l’abbiamo fatta. E l’abbiamo rifatta la guerra, venti anni dopo e altri  milioni di morti sempre in nome degli Stati-nazione. Ad un certo punto gli stati nazione hanno fatto il miracolo di dire mai più la guerra e hanno costruito un intreccio ineliminabile. Ma, come si sa,  ma non hanno fatto la costituzione e non hanno concepito – come avrebbe voluto il nostro Altiero Spinelli – uno Stato con profilo federale. Hanno accettato di stare insieme in un patto. Quando, pochi anni fa, come voi sapete, l’Europa ha deciso di costruire un allargamento a 27 Stati ha avuto un sobbalzo di fronte all’idea di andare a 27 senza un trattato costituzionale comune,  perché  sarebbe stata un’avventura rischiosa. Si è così tentata la via del trattato costituzionale. La commissione presieduta da Valery Giscard D’Estaing, vice presieduta proprio da Giuliano Amato, ha portato ad un trattato che doveva tenere la qualità dei diritti normati a livello medio per tutti, per diventare regola per tutti. Certo che chi aveva nella propria costituzione i livelli dei diritti garantiti in forma elementare li rialzava, ma chi come i francesi o gli inglesi aveva diritti costituzionali a livello altissimo lì si abbassavano. Questa è la ragione per cui i francesi e gli inglesi hanno detto questo trattato non ci piace. Perché abbassava loro dei diritti altamente e storicamente definiti appunto alti. Vabbè, non abbiamo avuto il trattato, pazienza. Vedremo. Saranno i giovani a dire quale Europa vorranno, saranno loro a fare o non fare questa rivoluzione che hanno fatto sempre i giovani, non la facciamo più noi, di dire se l’Europa che vogliamo è uno Stato ed è una costituzione.
Sta di fatto che in quel trattato, questo che mi premeva di dire, c’è un passaggio straordinario nel quale c’era scritto che la democrazia è un punto base, non si entra in Europa se non c’è democrazia, proprio quella classica, suffragio universale, diritti separati, eccetera, eccetera. Però la democrazia rappresentativa non basta più per l’Europa. Io ti delego, tu mi rappresenti, ne riparliamo tra cinque anni. No, pari diritti ha anche la democrazia partecipativa. E cioè nel frattempo tu hai il diritto di rompermi le scatole, tu hai il diritto di negoziare la formazione delle decisioni. Sulla democrazia partecipativa si gioca una grande partita moderna di qualità della democrazia. Vuol dire che ti ascolto? Molto di più. Vuol dire che ci sono forme di ascolto proceduralizzate. In questo l’Europa funziona, perché il Parlamento europeo funziona così. Non funzionano tanto le democrazie locali. L’Italia non è la Svizzera, dove se devi cambiare il semaforo all’angolo fai il referendum e allora la democrazia non diventa solo partecipativa, diventa democrazia diretta che è la forma più avanzata di democrazia partecipativa. L’Italia su questo ancora arranca fino ad essere tallonata da forme oggi di democrazia possibile perché oggi stare in rete, quella che oggi si chiama e-democracy, cioè potere costruire modalità partecipative nella formazioni delle decisioni,  è molto più facile che una volta. In America sono state fatte esperienze avanzate in tal senso, insomma il tema è posto di fronte al cambiamento strutturale della parola democrazia. Diciamo la verità Nitti non poteva saperlo che un giorno o l’altro ci sarebbe stato internet, però poteva sapere – e infatti lo sapeva – che l’Europa avrebbe avuto questa chance. La chance di costruire il suo governo democratico.
Su questo il suo pensiero è largamente anticipatore. Vorrei arrivare allora finalmente ad un lettura di Nitti che ci preme. Abbandonando per ragioni di tempo il tema sulla ricchezza del rapporto tra democrazia, economia e giustizia (a cui avrei anche dedicato qualche passaggio di attualità al premio Nobel Amartya Sen), vorrei richiamare – solo per farcene memoria –  il tema di fondo di questi ultimi dieci anni. Noi, che bene o male questa democrazia ce la siamo conservata, bene o male questa democrazia l’abbiamo salvaguardata, bene o male abbiamo pensato di stare dentro una vasta comunità occidentale che su questo valore ha tenuto, abbiamo ad un certo punto immaginato che questo valore fosse esportabile. E si è aperto il tema di esportare la democrazia. Le guerre del Golfo, poi è arrivato l’Iraq, l’Afghanistan, poi è arrivata la Libia, insomma abbiamo pensato che dove c’era sottrazione di democrazia noi potevamo arrivare e creare le condizioni, anche d’urto, per esportare la democrazia. Tutti i Paesi, Italia compresa, hanno vissuto più o meno criticamente il fatto di mandare i loro ragazzi, armi in mano, ad esportare la democrazia. Paesi hanno detto di si, paesi hanno detto di no. Tra l’Italia e la Spagna, tra l’Italia e la Germania ci sono stati, ad esempio,  atteggiamenti diversi. Non abbiamo esportato la stessa democrazia. Credevamo che il problema fosse lì, mandare forze armate con compiti che, a dire la verità, alcune parti delle nostre forze armate sanno fare molto bene cioè, sono figli di popolo, sanno pure parlare alla gente, soprattutto i nostri carabinieri li ho visti in giro per il mondo fare cose straordinarie di acculturazione nelle difficoltà d’insediamento. Magari un po’ d’esportazione della democrazia l’hanno fatta. Però noi non abbiamo pensato che alcuni di questi Paesi che vivono nella modernità la democrazia non hanno aspettato di vedersela importata e  se li sono risolti da sé i loro i problemi. Le vicende della Tunisia e dell’Egitto ci aprono ora una diversa valutazione del problema delle classi dirigenti e dei giovani, che oggi informati diversamente con un’altra modalità di racconto di se stessi non hanno bisogno di sentirsela dire dagli ayatollah ma neanche da certe forme di propaganda occidentale se sono in condizioni di vivere il loro problema democratico nella loro modalità. La mia impressione è che da questo punto di vista le nostre  generazioni sono state molto sensibili al tema della guerra, del rapporto tra democrazia e guerra e della guerra come sottrazione di democrazia. Le pagine di Nitti sono illuminanti.
 
La guerra è stata per molti secoli e fin quasi ai nostri giorni un’industria, anzi la più grande industria di alcuni popoli: mezzo di rapine e di arricchimento, mezzo di dominio e di potenza. Ma gli scrittori della democrazia e i filosofi più illuminati dei nostri tempi amavano attribuire tutta la responsabilità al dispotismo, alle monarchie assolute, al militarismo dei ceti aristocratici. Per molto tempo è diventato un luogo comune la libertà e le democrazie avrebbero soppresso la guerra, come l’istruzione avrebbe soppresso il delitto. Nelle riunioni popolari abbiamo udito noi stessi i demagoghi dire che ogni scuola che si apriva faceva chiudere un carcere e ogni tirannia che cadeva eliminava la guerra. Si sono invece aperte molte scuole, ma anche molte carceri. Sono cadute molte tirannie, ma le democrazie, soprattutto rivoluzionarie, hanno sviluppato la loro bellicosità. Guerra e rivoluzione sono quasi diventati sinonimi”. [8]
Vorrei ancora fare qualche connessione. Per esempio tra democrazia e unità nazionale. Viviamo in questo anno dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia in cui il tema fondamentale di discussione non sono tanto i 150 anni, che è storia breve rispetto alla più lunga storia d’Italia, ma sono il senso oggi della unità d’Italia e attorno a questa Italia rivendichiamo una storia di gioie e dolori, di successi e di drammi di quelle generazioni (risorgimento, resistenza) che sentivano  la  missione forte del consolidamento dell’unità. Anche per Nitti ciò è  parte della costruzione di una cultura democratica, quindi la sente come costruzione di cultura diffusa, sente da meridionale il valore dell’unità, ed è capace di polemiche molto originali (per esempio attorno al dare e avere tra nord e sud).  Potrei leggervi delle pagine molto più importanti, ma vi propongo una lettura curiosa. Molti di noi  sono stati sempre molto istruiti sul fatto che il padre dell’unità d’Italia fosse Dante. Perché Dante ha insegnato la lingua, immaginando anche un sentimento nazionale.  Sentite cosa pensa Nitti di Dante come facitore dell’unità d’Italia.
 
Dante non pensò mai all’unità d’Italia e non ebbe nemmeno le nozioni di ciò che noi chiamiamo la patria. Egli non avea che la passione della sua città e l’idea dell’impero. Tutta la Divina Commedia è piena di invettive contro le città italiane: l’augurio più frequente è di vederle distrutte. Pisa, vituperio delle genti, dovrebbe essere distrutta dai flutti dell’Arno: Muovansi la Capraia e la Gorgona / E faccian siepe ad Arno in su la foce / Sì ch’egli annieghí in te ogni persona. Pistoia dovrebbe essere incenerita dal fuoco del cielo. Genova dovrebbe sparire dalla faccia della terra: Ahi Genovesi, uomini diversi / D’ogni costume, e pien d’ogní magagna / Perché non siete voi del mondo spersi? Lucca non è che la patria della venalità e della concussione; Arezzo non è abitata che da brutti porci e botoli ringhiosi. Siena accoglie nelle sue mura gente così leggera da superare in leggerezza anche i Francesi. Ed io dissi al poeta: Or fu giammai / Gente sì vana come la Senese? / Certo non la Fancese sì d’assai!Dante, vero uomo del passato, non aveva solo l’amore della sua città, ma l’odio per le altre città italiane. Unire Firenze a Genova gli dovea parere cosa non naturale: anche meno naturale unirla a Venezia o a Napoli”.[9]
 
E questo è anche Nitti. Nitti pungente, anticonformista capace non so di parlar male di Garibaldi, ma certo di parlar male di Dante. Metodo che Nitti aveva nei confronti della politica. Credo che a casa Nitti si dicesse, lo dice sempre la nostra Presidente onoraria Maria Luigia Nitti Baldini, nuora di Nitti che ha compiuto da poco i 100 anni, che Nitti non resisteva a dire battute feroci nei confronti dei suoi amici o nemici politici e che questo era il suo vanto, il suo orgoglio e il suo danno naturalmente. Ora l’opera di Nitti è ricca di giudizi tranchant ma anche argomentati. La sua passione vera è quella, lui che era un economista legato molto alla cultura tecnocratica del governo, la sua passione era la storia. Amava riprendere il problema di ritrovare nella storia d’Italia i modelli con cui si erano costruite le culture che avevano pesato, nel bene e nel male, nella storia del paese. Quando noi parliamo di democrazia e d’Europa, di principi costitutivi, di storia dell’Europa, in Nitti la capacità è quella di riprendere i libri di storia e di andare a vedere non la storia dei successi, ma la storia dei conflitti, delle lotte. Lui ha una capacità di racconto della storia, come storia di lotte, che è quella di chi va a vedere dove la storia va corretta.
 
Quattro secoli sono stati a Roma una lotta continua e spesso sanguinosa, fra patrizi e plebei, fino a che la vittoria rimase da parte dei plebei. Quando all’aristocrazia della nascita si sostituì l’aristocrazia della ricchezza, le lotte presero un’altra forma, ma non scomparvero mai. L’antica nobiltà ereditaria avea dalla sua parte la religione e potette conservate il dominio a lungo: dopo il IV secolo la classe ricca presentò ai movimenti popolari una resistenza sempre minore. Fu sempre la guerra, che obbligando ad avere un maggior numero di soldati, cioè di cittadini, agì come la causa profonda di tutte le concessioni. Tutta la storia di Roma non è che una storia di lotte. Forse mai Roma ebbe a lungo quella che noi consideriamo la concordia civile: da principio la lotta fra due popoli diversi, fra patrizi e plebei, poi fra cittadini ricchi e cittadini poveri, poi le lotte di supremazia politica, le grandi avventure culminate in Cesare e nell’impero e mai interrotte. I grandi beni di cui si gloria la civiltà moderna, la libertà, la democrazia, la ricchezza ecc. non hanno valore e non sono durevoli se non in quanto sono il risultato di uno sforzo, cioè di una lotta. Tutto ciò che non viene dalla lotta non ha valore. Se è più difficile conservare la ricchezza che -conquistarla, è perché coloro che l’hanno ereditata ne ignorano il valore. Un tiranno che dia la libertà a un popolo sottomesso e che non la richiede, rischia di veder sorgere una nuova tirannia. Questa è la causa per cui spesso tutte le istituzioni degenerano: in governi liberi e democratici i costumi di coloro che non hanno lottato per avere la democrazia e la libertà, spesso si ammorbidiscono e non resistono alle richieste e all’azione di elementi nazionalisti o rivoluzionari”.[10]
 
Siamo, praticamente alla conclusione. Giovanni Sartori un nostro contemporaneo che scrive tutt’ora di democrazia sulle pagine dei giornali per averla insegnata in Italia e in America si pone e ci pone sempre le domande se siamo consapevoli di qual sia oggi il dibattito sulla democrazia.[11] Cosa significa vivere in una democrazia? Esistono più democrazie? Esiste una democrazia? Cosa significa esportare la democrazia? Come si fa a definirla? Insomma i suoi editoriali, i suoi libri,  sono sempre tesi a porre al cittadino quesiti per sollecitare il presidio sociale, per misurare la temperatura attorno ad fatto: se il cittadino ha chiaro cosa significa la complessità di difesa culturale della parola democrazia come cultura diffusa. Esattamente quello che faceva Nitti. L’ultima pagina che vi propongo è una pagina in cui Nitti risponde alla domanda “Ma la democrazia allontana gli intelligenti”.
 
La democrazia allontana dalla politica gli uomini più intelligenti? È l’accusa che è stata fatta sempre al suffragio universale. Nulla di più disgustevole per un filosofo, per un erudito, per un artista che scendere in un comizio popolare e discutere in contraddittorio con piccoli borghesi, con operai e soprattutto con avversari decisi, qualche volta violenti. Il filosofo, lo scienziato, l’artista tendono ad ammirarsi più che ad ammirare. L’idea della loro superiorità li fa molto inclini a considerare con diffidenza la folla: ma li esaspera se la folla non riconosce i loro meriti. Anche gli uomini che hanno fine educazione e gentilezza di modi o severità di costume hanno spesso in orrore la folla. Quando Platone rideva dei comizi popolari, attribuiva a Socrate l’idea che non vi è rimedio ai mali dello Stato fin quando lo Stato non sarà governato da quegli stessi filosofi che sono considerati come persone inutili alla società. Ma chi può designare i filosofi? Essi non possono essere che scelti dal tiranno, o scelti dal popolo. In tutti i tempi i sovrani e i tiranni non han fatto che uno scarsissimo ricorso ai savi: hanno preferito i loro compagni d’arme se non i complici dei loro delitti, i sacerdoti delle loro chiese e anche i loro cortigiani o i mariti e i fratelli delle loro cortigiane. Il popolo ha avuto invece una molto più viva ammirazione per gli uomini di studio, ma ha anche qualche volta una giustificata diffidenza per essi. Uno scienziato, un artista, uno scrittore scendono in un comizio popolare quasi con avversione: ma la loro scarsa partecipazione alla politica è sempre un danno? In Italia quasi tutti o la maggior parte degli scienziati, dei filosofi, degli artisti più notevoli sono stati prima del fascismo membri del Senato o della Camera dei deputati: vi fu un tempo in cui soprattutto le popolazioni dell’Italia meridionale, ove le lotte economiche erano poco vive e in cui esisteva un fondo ellenico, che spingeva all’ammirazione per le forme più alte dell’intellettualità, preferivano eleggere uomini di pensiero”. [12]
 
Tanti argomenti sono rimasti nella penna, moltissime cose importanti sono rimaste nell’ombra di queste 1100 pagine. Ma il tempo è volato e abbiamo pure dovuto fare delle omissioni rispetto a pagine già scelte.
Concludo allora con la lettura di queste poche righe con cui un uomo del nord, uno studioso serio, rigoroso come Luigi Firpo, una delle più belle biblioteche che io abbia mai visto nella mia vita, piemontese che cerca di capire il senso profondo dell’anima meridionale di Nitti, che è il prefatore negli anni settanta dei due volumi su La democrazia dice, conclusivamente, su questo libro:
 
Questo immane libro – ingens opus per lunga elaborazione, fisica mole, tessuto gremito di pensieri appassionati e di tanto varie esperienze – sorge da una cultura composita e in qualche misura dissociata. Vi confluiscono le letture vaste e varie dello studioso, la lezione della vita politica e di governo, trent’anni di cattedra e venticinque di Parlamento. Ma la sua filosofia è hegeliana e crociana, le radici del sentire si intrecciano allo cultura del Sud e della vecchia Italia, ai ricordi del nonno vittima della reazione borbonica, del padre mazziniano e garibaldino, all’attesa messianica dei contadini lucani affamati. È la cultura di un uomo vissuto due secoli, tra il tramonto dell’ancien régime nel borgo e il crollo dei grandi imperi della Mitteleuropa. Perciò nel libro parlano di volta in volta il professore, l’uomo di Stato, il giornalista”. [13]
 
 
 


 

[1] I brani delle citazioni sono stati letti dall’attore Gennaro Tritto.
[2] Giorgio Napolitano, nella visita di Stato a Tel Aviv, nel corso della consegna del Premio Dan David, 15 maggio 2011.
[3] Giorgio Gaber, La democrazia, tratta dall’album Gaber 96-97.
[4] F.S. Nitti, da “Noi e gli antichi” in La democrazia, vol. 1.
[5] F.S. Nitti , da “Democrazia, aristocrazia, popolo e nobiltà” in La democrazia,  vol. 1
[6] Norberto Bobbio, “Democrazia e interessi” in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984.
[7] F.S. Nitti, “Il processo alle istituzioni democratiche” in La democrazia, vol. 2,
[8] F.S. Nitti, “Le democrazie e la guerra”, in La democrazia, vol. 2
[9] F.S. Nitti, in La democrazia, vol. 1
[10] F. S. Nitti in”L’illusione del progresso”, in La democrazia, vol. 1
[11] Giovanni Sartori, Cos’è la democrazia, Rizzoli, 2006.
[12] F:S: Nitti, “Il processo alle istituzioni democratiche”, in La democrazia, vol. 2
[13] Luigi Firpo, Prefazione all’edizione di La democrazia, di Francesco Saverio Nitti, Laterza 1976.