Pubblica amministrazione: poca domanda, poca riforma (Roma, Università Lumsa – 23 aprile 2015)
A proposito di “150 anni di tentativi di cambiare la PA”
Stefano Rolando [1]
La parola “riforma” ha perso nel tempo quel riferimento all’idea di cambiamento organico, strutturale e strategico che accompagnava una volta la volontà di modificare il retaggio dello stato prefascista e di quello fascista. Ed è impiegata ormai per dare importanza a qualunque intervento legislativo su qualunque materia, anche nell’incertezza dell’esito parlamentare.
Da questo punto di vista il titolo che Stefano Sepe e Ersilia Crobe propongono va letto piuttosto come sottotitolo[2]. E quello che è attualmente il sottotitolo esprime piuttosto la mesta opinione degli autori: 150 anni di tentativi di cambiare la P.A. Dopo di che mettere il titolo al futuro è al tempo stesso una chiosa ironica e – diciamo così – uno sguardo all’infinito. Il professore Francesco Bonini, del resto, accenna a questo aspetto nella sua prefazione.
Questo testo si compone di tre parti. Le prime cento pagine serrano il senso di questa lunga criticità. E le parole impiegate per fare i titoli di questa analisi sono eloquenti: riforme inattuate / tra mito e realtà / i tentativi / un incontro mancato / anni che avrebbero potuto cambiare / tempo perduto.
C’è quasi più ottimismo nella seconda parte del volume, quella che raccoglie una poderosa – pur se non esaustiva, come dicono gli autori – documentazione: il modello Cavour / il riformismo pragmatico (riferito a Giolitti) / la razionalizzazione / la riorganizzazione / dibattiti e proposte / eccetera.
C’è quasi più ottimismo nella seconda parte del volume, quella che raccoglie una poderosa – pur se non esaustiva, come dicono gli autori – documentazione: il modello Cavour / il riformismo pragmatico (riferito a Giolitti) / la razionalizzazione / la riorganizzazione / dibattiti e proposte / eccetera.
La terza parte raccoglie opinioni: il taglio scientifico-politico porta ad unità di tempo e luogo il dibattito più che secolare. Un’idea brillante per dare corpo allo stereotipo. Come quando leggiamo un secolo di pareri sulla crisi del cinema o sulla rinviabilità delle cure dimagranti.
Naturalmente il punto di vista che si vuole assumere sulla questione diventa rilevante. Abitualmente il punto di vista prevalente è quello dei giuristi. E quando di questo tema discutono i giuristi essi trovano nelle lettera delle norme i vizi e le virtù dei processi attuati o inattuati. Quando ne discutono i politici il paradigma è piuttosto quello della volontà. Quando ne discutono gli economisti al centro dell’analisi sono gli interessi. Quando ne parlano i giornalisti o essi trovano il sospettato, il mandante e il fattaccio nascosto oppure non riscontrano quella che chiamano “la notizia” decretando così la legittimità del disinteresse. Se ne parlano i funzionari deve trattarsi di un processo circolare e simmetrico in cui è provato che c’è riscontro nelle carte di ciò di cui si parla: come si sa lo stereotipo vuole che essi non siano sedotti dalla realtà ma dal fatto che ad una carta corrisponda un’altra carta.
Mi si consenta di dire che il punto di vista con cui ho apprezzato il lavoro di questi due miei amici – che, come ha ricordato il prefetto Mosca, hanno solcato a lungo anche le mie acque, come e stato per il loro recente ottimo testo “La comunicazione partecipata” a cui ho collaborato[3] – è quello di chi è tornato al nord dopo mezza vita trascorsa a Roma, soprattutto nelle istituzioni; e di chi – per reagire alla minaccia propagandistica contenuta nella comunicazione delle istituzioni – si è soprattutto dedicato al carattere partecipativo della relazione tra cittadini e Stato e quindi al carattere relazionale della democrazia.
Partendo da questa premessa vorrei dire che il tema che ha guidato la mia attenzione nel percorso storico che il libro attraversa è forse quello di cercare di cogliere – o di intuire – quale domanda di riforma sia venuta o perlomeno sia rintracciabile nella società italiana. Premessa per capire (magari in altra sede) chi è stato più sconfitto nei diversi tentativi mancati e a chi non si è voluto dare soddisfazione facendo venire meno attesi provvedimenti di trasformazione.
Come ha già detto il professore De Nardis, la relazione P.A.-società italiana va letta come una “mutua influenza” e in essa va ricercata la domanda o l’assenza di domanda di riforme.
Farò solo pochi esempi e cercherò di riferirli in prevalenza al tema nodale dell’unità d’Italia, cioè al più importante e al tempo stesso fragile cuore del patrimonio istituzionale del paese: il tema del rapporto nord e sud (giacché come spiega spesso Piero Bassetti l’alta velocità ha tolto di mezzo il tema del “centro” essendo, per evidenze funzionali, o connesso al nord o connesso al sud).
Prendiamo la domanda storica, formatasi nel corso di almeno duemila anni, di rispetto vincolante delle autonomie territoriali in rapporto alla forma di Stato, attorno a cui la maggioranza parlamentare cavouriana della prima fase della Nazione ricomposta avrebbe potuto e forse anche voluto accogliere la proposta federalista avanzata dai repubblicani settentrionali e a cui avrebbero potuto aderire anche alcune classi dirigenti meridionali per lenire la perdita di una storia simbolicamente forte, sconfitta dai piemontesi e dai garibaldini. Il progetto di fare come la Svizzera – ovvero a fare come l’America – fu vanificato perché l’esistenza al sud del brigantaggio e in larga parte del paese del presidio micro-territoriale delle parrocchie fece preferire il modello francese accentrato e prefettizio.
Da questa contraddizione nacque un progetto di pubblica amministrazione da cui non si è mai più usciti. Prolungandone la natura inadatta ai caratteri socio-culturali di un paese poco verticale, poco gerarchico. Che necessitava – come ricorda lo scritto di Giorgio Pastori, contenuto nel libro, a commento del Rapporto Giannini – di ” modelli differenziati“[4]. Pur se il fare “una Nazione e una Amministrazione” dice molto alla mia sensibilità di ex funzionario dello Stato, dico anche che non avere favorito un rapporto flessibile tra cittadini e “loro amministrazioni” ha reso la PA, per una parte prevalente dei cittadini stessi, “cosa estranea”. Gli studi sul civismo e i territori di Robert Putnam ci hanno argomentato molte cose al riguardo partendo dal rapporto tra capitale sociale e amministrazioni[5].
Circa il modello economico pubblico-privato connesso al rapporto tra Stato e mercato, i territori industriali e comunque caratterizzati da orientamenti produttivi competitivi hanno immaginato lo Stato estraneo alla cultura di prodotto, mentre i territori legati alla rendita e ad un’economia più arretrata e protetta hanno sostenuto per un secolo il ruolo delle tecnostrutture pubbliche nella produzione industriale, mantenendo la spaccatura di un modello che doveva essere integrato e generando culture amministrative a loro volta contrapposte. Il principio di “economia mista” teso a tutelare tanto la libertà di iniziativa e dei mezzi di produzione quanto la vocazione sociale dello Stato ha prodotto alla fine distorsioni tanto riguardanti l’assistenzialismo quanto la discutibilità di alcune dismissioni[6]. Da qui la formazione di remore permanenti nell’esprimere, negli ambiti produttivi, una domanda univoca di culture amministrative da sostenere con univoci provvedimenti di riforma.
Alla fine si potrebbe dire che il blocco sociale meridionale ha prodotto culture giuridico-amministrative che assecondando di più il modello centralistico hanno ribaltato la preliminare dominazione piemontese – che non ha superato il trentennio – dell’apparato dello Stato. Il professor Acoccella ha giustamente ricordato la lettura positiva della “meridionalizzazione dello Stato” partendo dalle qualità culturali e giuridiche di quella amministrazione largamente prodotta dal sud. Ma letta nella chiave a cui faccio cenno si comprende che, anche da questo punto di vista, si sono alienati rapporti che sono quelli che, lo dico ancora una volta, generano sane domande di riorganizzazione e di riforma.
Devo però a questo punto dire anche una plateale verità. Che la meridionalizzazione dello Stato italiano non è un colpo di mano del Sud. Complice se non artefice è stata soprattutto la borghesia del nord che per più di un secolo – qualche inversione settoriale di tendenza è del tutto recente[7] – non ha considerato problema proprio assicurare risorse umane dirigenti a quell’apparato, trovando preferenzialmente sbocchi nei mercati del lavoro privati, industriali e professionali.
A differenza di altri paesi europei che hanno fatto crescere in parallelo la cultura giuridico-amministrativa rispetto a quella economico-gestionale (a cui hanno aggiunto poi, con pari rilievo, quella sociale-relazionale, a cui per esempio appartengo), in Italia la cultura giuridico-amministrativa si è collocata (con alle spalle le sue università e i suoli centri di formazione) al vertice delle filiere amministrative dello Stato, consentendo solo negli ultimi venti/trenta anni di ammettere ai vertici di certi ambiti quadri dirigenti formati alle scuole economico-tecnologiche per la gestione dei servizi, ma non cedendo quasi mai l’ambito egemonico del fare regole, procedure e controlli, ambito rimasto in saldo controllo di segmenti sociali, culturali e territoriali di una parte sola del Paese.
Quanto alle culture relazionali e sociali esse sono rimaste al terzo e ultimo posto, spesso in condizioni precarie e ammesse solo quando hanno rinunciato a sviluppare progettualità a favore di prestazioni burocratiche e di controllo al di sotto del bisogno con cui esse sono impiegate nei paesi più progrediti [8]. Ripeto che la colpa di questa meridionalizzazione è più del nord che del sud. Ma le conseguenze di questo processo sul conflitto tra domanda di cambiamento e resistenza al cambiamento è stata drammatica e a mio avviso letale.
Sia consentito a questo punto un breve cenno personale. Articolato in tre frammenti che riguardano l’inizio e la fine dell’esperienza svolta nell’amministrazione centrale.
· Lasciai la Rai, in cui ero dirigente, per svolgere a cominciare dai miei 37 anni – come direttore generale alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – un incarico a cui ero stato chiamato da Giuliano Amato di palpitante interesse: aderire dall’interno al progetto di riforma dello Stato (diciamo configurato nella famosa relazione di Massimo Severo Giannini di pochi anni prima) attorno al tema della chiusura del lungo ciclo culturale del “segreto&silenzio” della PA per praticare – con gli esempi (cioè buon esempio e prodotti) e poi caso mai alla fine con nuove normative – il paradigma della trasparenza e dell’accesso. Solo per far cenno e comprovazione al tema della cultura della borghesia settentrionale circa l’Amministrazione dello Stato ricordo che mia madre – livornese, ma milanesizzata – che era figlia di un prefetto del regno e sorella di un generale di corpo d’ Armata (dunque di certo non estranea alle culture dello Stato) alla notizia della mia nomina a direttore generale a Palazzo Chigi mi telefonò per dirmi con toni dolenti: “ma dove sei finito?“.
· Il secondo cenno desidero farlo alla prima assemblea dei direttori generali dello Stato, a cui partecipai in quel 1985, in una fumosa sala del CRAL del Ministero della Marina, dove io stesso mi posi il quesito: “ma dove sono finito?“. Cinquecento alti dirigenti parlavano uno dopo l’altro con riferimenti a numeri, commi, articoli, testi unici, combinati disposti, eccetera, in cui riconoscevo loro di parlare con grande precisione dei destini della nazione e di non essere quindi io adeguato alla partita. Solo a un certo punto di quell’assemblea capii che in realtà stavano parlando solo e soltanto del loro stipendio. E lì mi feci forza per spiegare la missione del mio incarico, che era quello di contribuire a cancellare le astrusità dei linguaggi pubblici misti ai loro segreti e ai loro silenzi. Dimostrando che l’informazione non è un potere da trattenere ma che il suo potere consiste soprattutto nel distribuirla e che – in quanto bene immateriale – essa non si perde. Non credo di essermi fatto molti amici, ma il percorso che doveva portare presto a un nuovo quadro normativo (la 241 del ’90, il d. Lgs 29 del ’93 e anni dopo la legge 150[9]) era stato annunciato anche in quell’ambito sindacale un po’ restio.
· Da ultimo – l’ho scritto in un libricino poco noto redatto dopo la mia volontaria uscita dalla Presidenza del Consiglio dieci anni dopo [10] – il terzo cenno è a un colloquio per me denso di serietà che ebbi nel 1995 con il capo del Governo che – da ex-direttore generale della Banca d’ Italia aveva tutte le qualità per comprendere esigenze di modernizzazione di ambiti delicati dell’ Amministrazione – per dirgli che era impensabile mantenere ancora l’inadeguata struttura di competenze nel settore, in più priva di importanti strumenti di valutazione e trasparenza, ricevendo la risposta che, data la fragilissima situazione politica del momento, lo stesso presidente “non poteva fare nulla“. Proprio perché eravamo predisposti a lavorare con la principale missione del cambiamento avvertii con chiarezza il senso di un ciclo concluso e infatti me ne andai.
Tornando alla nostra breve rassegna di temi vorrei aggiungere ancora che pare evidente che un fattore di grandi discontinuità rispetto alla domanda di riforma della PA sarebbe potuto venire negli anni ’70 dall’attuazione dell’ordinamento regionale. La cultura di quella generazione di “fondatori” dell’ordinamento (penso a gente come Fanti, Lagorio, Bassetti, per prendere le maggiori famiglie politiche del tempo) prevedeva che le regioni potessero generare un’amministrazione di serie A: tra il ruolo dello Stato che fa le regole e il ruolo dei Comuni che fanno i servizi, le Regioni avrebbero dovuto fare la cosa più difficile e complessa: l’integratore. Quindi costruire una amministrazione di eccellenza.
Sappiamo come è andata a finire, sappiamo cosa ha prevalso, sappiamo come Stato e Comuni abbiano mantenuto il loro primato nel ruolo della politica lasciando alle Regioni (pur in presenza di casi ancora oggi virtuosi) di svolgere ciò che nella Costituente i vecchi liberali avevano ipotizzato che succedesse: ipertrofia delle spese, caduta libera della cultura programmatoria, organizzazione delle clientele, composizione composita e politicizzata delle amministrazioni, crisi della competenza legislativa. Eccetera. Temo che la crisi di reputazione di questo ambito dell’ordinamento sia irreversibile.
Ecco, siamo a conclusione di una esposizione che si riconosce qui nelle molte cose dette più autorevolmente da chi mi ha preceduto. Con la passione civile del prefetto Mosca. Con la scintillante memoria della complessità del dibattito scientifico del professor Lanchester. Con il richiamo alle interazioni con la società e l’economia del professor De Nardis. Con la corale preoccupazione – espressa anche dal rettore Bonini e dal professor Acocella – per la qualità degli ambiti della formazione.
Questi insufficienti e limitati spunti ci portano al tema che, a mio avviso, scorre come un protagonista invisibile dei 150 anni di tentativi frustrati di riformare la PA: la crisi della domanda sociale nella riforma delle pubbliche amministrazioni per un complesso di ragioni che, in estrema sintesi, risiedono in questi conclusivi cinque punti:
· Nella marginalità di reali pratiche di valutazione in ordine al rendimento delle amministrazioni, poco stimolate dalla domanda dei media, delle imprese e delle categorie professionali.
· Nella frammentaria capacità dei media di dar voce ai bisogni seri e diffusi di qualità nei servizi e nelle prestazioni (o c’è spettacolarizzazione del bisogno o non c’è racconto).
· Nell’ineducazione della classe politica di intervenire in forma premiante o sanzionante circa il paradigma del rendimento amministrativo, per avere mani più libere circa il modello di fiduciarismo o circa pratiche clientelari[11].
· Nella storpiatura della maggior parte delle autorità di controllo e garanzia da intendersi come virtuosa concentrazione di competenze efficaci nelle materie attribuite, per farne invece aree super-retribuite e politicizzate.
· Nella troppo frequente crisi di etica pubblica connessa agli ambiti di relazione tra pubbliche amministrazioni e sistema di impresa, così da ridurre il potenziale di mutualità cognitiva tra due schieramenti professionali, che sarebbe fonte quindi di domanda costante di riforma e innovazione, ma che viene vanificata dalla corruzione.
[1] Professore di Politiche pubbliche per le Comunicazioni e di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica alla Università IULM di Milano. Già direttore generale alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, direttore generale del Consiglio regionale della Lombardia e segretario generale della Conferenza dei Presidenti delle assemblee legislative regionali.
[2] Stefano Sepe ed Ersilia Crobe (a cura di) – La riforma che verrà – 150 di tentativi di cambiare la pubblica amministrazione – prefazione di Francesco Bonini – Editrice Apes, 2015. La presentazione del volume a cui si riferisce questo contributo si è svolta nell’Aula Magna dell’Università Lumsa di Roma il 23 aprile 2015 con gli interventi di Francesco Bonini, Giuseppe Acocella, Paolo De Nardis, Fulvio Lanchester, Carlo Mosca e Stefano Rolando.
[3] Stefano Sepe, Ersilia Crobe – La comunicazione partecipata – Narrare l’0Azione pubblica coinvolgendo i cittadini – Prefazione di Stefano Rolando, Postfazione di Michele Sorice -. Luiss University Press, 2014.
[4] Impressioni sul Rapporto del ministro Giannini sui problemi dell’’amministrazione dello Stato – Il giudizio di Giorgio Pastori – in “Le Regioni”, maggio-giugno 1980; alla pagina 522 di La riforma che verrà, op.cit.
[5] Robert Putnam – La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, 1993. Ne scrive, tra gli altri, sullo specifico punto e introducendo vari contributi, Fabrizio Battistelli – La cultura delle amministrazioni tra retorica e innovazioni, Franco Angeli 1998.
[6] Spunti di riferimento: Giuliano Amato – Economia politica e istituzioni in Italia, Il Mulino, Bologna, 1976; Giuliano Amato – Il mercato nella Costituzione, in Quaderni Costituzionali, 1992. Conti Fulvio e Gianni Silei – Breve Storia dello Stato Sociale. Carocci, 2005. Sabino Cassese – La nuova costituzione economica, Laterza 2012.
[7] Per un recente concorso della Agenzia delle Entrate che prevede 892 posizioni occupazionali nel 2015 tutte al nord (a t.i. con netto di 1500 €) le regioni del nord hanno espresso 140 mila domande di cui 58.395 dalla Lombardia (Corriere della Sera, 25.4.2015).
[8] Un trattamento più approfondito in Stefano Rolando – Comunicazione, poteri e cittadini – Tra propaganda e partecipazione, Egea, 2014.
[9] L’inventario di queste normative in Teoria e tecniche della comunicazione pubblica, a cura di S. Rolando, alle pagine 201-265, Rizzoli-Etas, terza edizione, 2011.
[10] Stefano Rolando – Un’altra idea di questo Stato – Costa& Nolan, 1996.
[11] Sono stato anticipato da altri relatori nel ricordare che il tema non è limitato ai recenti anni di vita repubblicana, come si desume dal noto testo di Marco Minghetti, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, edito da Zanichelli nel 1881.