FATEMI DIRE
Prima di entrare nelle pagine di questo libro, fatemi dire. Fatemi fare un atto di correttezza. Per non indurre in tentazione. E neppure per dovere poi, con parole in fuga, correre dietro a smarrimenti o a delusioni. Fra poco, nell’introduzione, spiegherò meglio titolo e sottotitolo. Vorrei proporre l’idea che una generazione (sono del ’48 e nel 2008 passo un traguardo di tappa, ma per “generazione” si intende i “nati dopo la guerra”, almeno entro i primi degli anni cinquanta) possa fare un bilancio di se stessa, proprio quando l’intero paese di bilanci ne fa parecchi. Innanzi tutto quello dei sessant’anni della Costituzione, quello dei quarant’anni del ’68 e quello dei vent’anni della perestroika che avviò l’anno dopo in Europa la fine del comunismo. Oltre ai settant’anni dalle “leggi razziali”, ai cinquant’anni dal pontificato di papa Giovanni; ai trent’anni da tante cose (il ritorno della Spagna alla democrazia, il “caso Moro”,l’avvio del pontificato di Giovanni Paolo II e della presidenza Pertini). E ad abundantiam, ai dieci anni dal primo governo di un postcomunista, Massimo D’Alema. Per i cultori dell’antipolitica ricordo che fu lo stesso anno in cui Marco Pantani vinse sia il Giro che il Tour.
Queste scadenze generano ripensamenti. Scomodano archivi e memorie personali. Che sconfinano in una trama di pensieri in cui l’evento diventa specchio di punti di vista. Le lettere ai giornali subiscono impennate. Anche chi stava in ombra sente l’esigenza di precisare. Sempre per non indurre in tentazione, dichiaro subito ciò che poi chiarisco meglio. Non sono un ex brigatista che dopo aver piantato pallottole nel cranio di un magistrato o di un giornalista democratico si è pentito e preso da impulsi mistico-cristiani scrive edificanti memorie. Non sono il figlio di un ex repubblichino che approfittando del maggioritario (che recupera ogni anima) e della nobiltà che c’è sempre quando si parla dei padri chiede la parità storica per la guerra civile. Non sono un ex picchiatore di borgata che, diventato ministro della Repubblica, scopre storie rigeneranti da raccontare. Non sono neppure (caso peraltro diverso) un ex comunista che da quando è caduto il muro aspetta la saturazione della nostalgia del bene perduto per confessare la perdita. Il grosso della memorialistica sul passato prossimo circolante è scritta da chi può dimostrare che è l’uomo che morde il cane, perché anche l’editoria segue la logica dei media. La notizia è di per sé un po’ patologica e vagamente controsenso. Ma essa nutre le cronache del nostro tempo in cui vincenti e sconfitti,rispetto al senso che dovevano avere le cose, hanno scambiato le maglie. Non sono, per altri versi, neppure un giornalista di costume che, misurando le mode, compendia Festival di Sanremo, i navajos di Tex Willer e i boatos della curva sud per farci rivivere quei formidabili anni sessanta.
Siccome si racconta qui in fondo una strana sconfitta, o per meglio dire come è stato possibile che chi stava dalla parte giusta sia finito a rischio del “fuori strada” (se non individuale certo di squadra) e si intuisce anche un po’ di sconcerto per ritrovare sugli altari – a destra e a sinistra – tutti coloro che predicavano ciò che è stato, in Italia e nel mondo, sonoramente sconfitto, confesso ancora in queste prime “avvertenze” la difficoltà di un trattamento di certi passaggi con quella “simpatica freschezza” o quella “finalmente disinibita immediatezza” con cui le recensioni ci propongono, di questi tempi, di fare lieti viaggetti nel “come eravamo” gruppettaro, rivoluzionario, golpista, alternativo, piciemmelle e quant’altro (ciò detto e chiarito, cara Silvana Mazzocchi, leggerò con il miglior spirito “l’esilarante racconto” di Fulvio Abbate sugli anni di Servire il popolo, “che restituisce un alito di leggerezza alle celebrazioni del ’68, minacciate da una letale overdose di retorica”).In un periodo in cui ha prevalso – per usare il bel titolo di un importante saggio di Barbara Spinelli – “il sonno della memoria”, che riprenderò, io raccolgo, non per retorica ma per chiarezza, i miei frammenti di proposta nel corso di una dignitosa vita, scritti per migliorare la società, per servire (e se possibile per modernizzare) le istituzioni, per auspicare la giustizia e soprattutto per non perdere un millimetro delle libertà prima di noi penosamente conquistate. Argomenti poco di moda e forse anche espressione di una moneta fuori corso,quella delle coerenze. Leggemmo a suo tempo la storia di Giuseppe Bottai, potente ministro fascista prima delle corporazioni poi dell’educazione nazionale, che comprendendo che la storia aveva identificato le sue scelte come sconfitte, non dovendo rendere conto ai tribunali italiani.
Il “bilancio generazionale” comunque non dovrebbe essere chiuso sulla questione“vincenti o sconfitti”. Ma sul patrimonio che questa generazione ha ricevuto e cosa va restituendo ai più giovani. Non tiro due righe qui sbrigativamente. In Francia per esempio è in libreria Papy-Krach di Bernard Spitz che dice che abbiamo inguaiato la società e i giovani. Io dico che il bilancio non è fallimentare, ma certo è controverso. Positivo in ordine a diritti acquisiti e a rapporti più liberi con il principio di autorità. In particolare una crescita di diritti delle donne, conquistati dalle donne. Critico riguardo alla capacità dei più di fronteggiare paure e generare speranze, partecipando a un sentimento civile più generoso.
Ciò detto preciso anche che questo non è un saggio scritto per raccontare con il senno dipoi il rapporto tra valori, eventi e comportamenti. Dunque non è una” storia”, di quelle scritte in forma compatta attorno a una tesi. Non è neppure la letterarizzazione di un vissuto. Non è quindi un racconto. Non è nemmeno un’inchiesta. Potrebbe essere una variante del giornalismo di ricerca. Perché a suo modo è un prodotto giornalistico, dato che la parte prevalente dei materiali raccolti risponde alla voglia – caso per caso – di capire,interpretare, spiegare. Con l’avvertenza che i materiali sono scritti miei, centoventotto brani,che risalgono fino all’inizio degli anni sessanta. Dunque all’adolescenza. Lasciati com’erano(caso mai ridotti o selezionati) e introdotti ciascuno con l’inchiostro di oggi, con la percezione dell’evoluzione, soprattutto nella mia vita e se possibile nella dinamica di una generazione, del portato dei fatti raccontati. Se da essi si volesse rintracciare una “storia”,certamente sarebbe piena di buchi e di vuoti. Dato che ho dovuto scrivere spesso cose noiose, dico anche che non si tratta tanto degli scritti nati – abbondantemente – nelle modalità di lavoro di chi ha servito imprese, istituzioni,università con due arnesi prevalenti: la bussola dell’organizzatore e la penna del progettista. I “pezzi di carta” di un manager per quanto atipico. Nato nella sociologia e approdato all’economia, con “passioni pure” per la storia e la politica, per anni nella trincea della“comunicazione costruttiva”, oggi in cattedra. Il tecnicismo e a volte la tetraggine di quel genere di carte (che pur ci sono qui dentro, diciamo tra le meno protocollari) non avrebbero attirato molti lettori. Mentre qui ci sono piuttosto carte che considero più furtive, anche se curate con coinvolgimento. Scritti – sintetizzo – per seguire sentimenti e infiniti stimoli di conoscenza (con non pochi inediti e con descrizioni di qualche originalità) e di partecipazione.
Quelli della “partecipazione” – che è un carattere generazionale saliente – legati in parte rilevante alla storia di una famiglia politica democratica, quella dei socialisti, raccontata – con i ritratti dei protagonisti più frequentati – anche per rivendicare la qualità di quella storia. Con la coscienza e l’avvertenza che oggi un po’ di chiarezza sul passato servirebbe di più allo sforzo di ricomposizione di una proposta generale di novità e ad una regola di “normalità” per un paese che ha bisogno di guardare avanti non rintanato negli scontri ideologici di ieri e dell’altro ieri. La vita di uno dei tanti che – nato fortunato, per famiglia e per generazione – ha cercato di non tradire le tacite aspettative di quel frammento straordinario di storia (la pace, la ricostruzione, la libertà, la ricomposizione dei genitori,l’amore, lo studio, il lavoro, le polemiche, le proteste, i diritti) capitata tra la nascita e la prima formazione.
Tra quelle carte e il loro breve (qualche volta meno breve) adattamento c’è la possibilità di far emergere aspetti di un contesto in cui altri miei coetanei hanno seguito piste diverse. Non lo dico per giudicare o per distribuire pagelle. Ma per non dimettere una lunga e lontana discussione. Soprattutto per contribuire a chiarire i margini di ambiguità del nostro tempo. Ambiguità che, al fondo, è un dato di sintesi che vedo emergere su tutti gli altri. E facendolo anche con un rivolo di polemica. Con gli assenti, con gli incoerenti, con i violenti. Questa “diaspora generazionale” – spero lo si possa comprendere – rende il racconto meno trattabile sui registri frivoli. Ammettendo tuttavia una gran voglia di tornare a dare legittimità a certe frivolezze. Prima o poi – lo annuncio – mi piacerebbe tornare a descrivere il presente con gli occhi di Flaiano.
Qui ci sono parole, versi ritrovati, appunti a margine, ritratti di occasione, dialoghi,scritti compiuti. Il libro è una sorta di piano-sequenza su un percorso di vita. Caos calmo si direbbe in questi giorni di uscita del nuovo film con Nanni Moretti, che riprende la scrittura di Sandro Veronesi. Fermarsi – dicono – per eccesso di successo o per criticità di un trauma. Ma anche per nulla di tutto ciò. Più semplicemente per mettere fine a una lunga ruminazione. Un caos calmo, che ci appare come condizione di cornice (per inciso, se si decidesse che l’accento va posto sul profilo soggettivo, il mio film preferirei chiamarlo ordine vulcanico e se dovessi scegliere un personaggio che abbandona la mischia per una sua “realtà”preferirei il barone rampante di Calvino) e che magari vorremmo concepito in modo meno frigido di Moretti. Comunque, un punto sulla nostra vita. Vita di chi tendenzialmente non ha mai sentito il suo privato estraneo alla memoria condivisa di un paese e di una generazione. E il rapporto con la memoria è un sottile e forte combustibile. Esso vorrebbe co-munque essere sempre rivolto al futuro. Come scrive Elie Wiesel: “La vita della mia memoria è la mia vita; se una muore, l’altra si spegne”.
Il fatto che questo percorso non sia né quello di un capo né quello di un gregario, né quello di un ribelle né quello di un reazionario, impoverisce – secondo la moda editoriale – la proposta, ma rende possibile accettare l’ipotesi che l’epoca sia stata davvero di grandi opportunità. Me la piglio con alcuni, è vero. Ma il sentimento di fondo – anche per questa ragione – è dominato dalla gratitudine. Sentimento,come si sa,editorialmente considerato minore.
Appunto perché lo sguardo resta attento al dibattito sul cambiamento possibile, aggiungo in premessa il rilievo che do a questa parola che fa da cornice in fondo un po’ a tutto l’inventario. Ci servono pensieri sul cambiamento. Sul bisogno di vedere più intelligenza e più .fervore attorno a noi. Di Alessandro Baricco, per esempio, molti parlano con un po’ di puzza al naso. A me piace il suo entusiasmo nel raccontare. E mi piace come declina – di solito per sostenere un pensiero e non solo la sua saccenteria – l’aneddotica letteraria e musicale. Morale, nel leggere la raccolta degli articoli su I barbari, accanto a una riflessione su WalterBenjamin che si uccise a un millimetro dal cambiamento che gli avrebbe garantito la vita, Baricco ricorda che il critico londinese del The Quarterly Musical Magazine and Review accolse la Nona di Beethoven – caposaldo della nostra identità culturale moderna e contemporanea – come “uno stile frivolo e affettato che questi tempi, dal talento superficiale, hanno adottato”. Lo sforzo di riconoscere attorno ciò che sta generando un mondo migliore dovremmo metterlo nell’agenda immateriale dei nostri buoni propositi. Serve anche a riconoscere meglio ciò che sta generando un mondo peggiore.
Milano, febbraio 2008
P.S. Terminata la scrittura ho mandato ad alcuni amici il preannuncio dell’uscita di questo libro. Il mio compagno di liceo Paolo Giacomoni, con me in una delle prime esperienze politiche della vita verso la fine degli anni sessanta, fisico, già sorbonnista, oggi in America,mi ha scritto una lunga lettera che comincia così: “Carissimo, ti ringrazio per il ‘preannuncio’ del tuo libro, che mi scrivi, qui in America dove vivo e lavoro cercando di stare in rete con il mio paese e con i miei amici. È forse giunto il tempo (ma è mai stato lontano?) in cui le persone libere e di buoni costumi dicano quello che pensano, quello che sanno, senza farsi intimorire dalla moda o dal politically correct. A volte la prudenza può essere necessaria, per far carriera, o per non farsi dei nemici inutili. Io non sono un buon esempio perchè non ho mai avuto prudenza. Direi che un bell’esempio da seguire è quello proposto dal film Il Generale della Rovere (te lo ricordi?). Preso in una retata dei nazisti dopo un attentato partigiano, un cittadino si lamenta dicendo ‘perchè io? io non ho fatto niente!’ e il generale, preso anche lui nella retata, gli sussurra in un orecchio ‘forse è proprio perchè lei non ha fatto niente, che si ritrova qui oggi’”.