Piero Bassetti: glocalismo, identità, linguaggi della italicità

Languages, Cultures, Identities of Italy in the World”
AISLLI and Center for Italian Studies
University of Pennsylvania
Philadelphia, 5 dicembre 2009
Glocalismo e identità: realtà e linguaggi dell’italicità
Conferenza di Piero Bassetti
Presidente di Globus et Locus 
Premessa
Sono molto lieto di trovarmi oggi qui fra di voi, in occasione di questo importante convegno “Language, Cultures, Identities of Italy in the World” organizzato dalla AISLLI in collaborazione con la University of Pennsylvania. Il tema che dibatteremo è di grande importanza e il mio auspicio è che le riflessioni su “glocalismo e identità”, che esporrò in questo mio intervento, possano essere comprese e discusse con profitto.

Nella storia decennale dell’Associazione Globus et Locus da me presieduta, il filo rosso che lega tutte le esperienze, le riflessioni e le progettualità, è, come evidenzia la stessa denominazione associativa, il glocalismo. Questo termine identifica il cambiamento epocale generato con la globalizzazione, che ha prodotto un intreccio indissolubile fra la dimensione globale e quella locale. In pratica non esistono luoghi che non siano in misura crescente attraversati da flussi globali di varia natura, e, per contro, non ci sono flussi globali che non siano in misura crescente declinati secondo le diverse e molteplici particolarità dei luoghi. Volendo usare il termine luogo in senso traslato anche la nostra identità è in qualche modo un luogo.
Questo doppio processo di localizzazione dei flussi e di globalizzazione dei luoghi è multidimensionale (riguarda non solo l’economia, ma l’informazione, la cultura, le istituzioni ecc.) ed è pervasivo (entra in ogni dove, riguarda in misura crescente la totalità dell’esistenza umana). Dunque si tratta veramente di una nuova fenomenologia e di una nuova cosmologia che abbiamo di fronte a noi, da ripensare in modo nuovo e adeguato.
Questo fenomeno produce necessariamente nuovi problemi nella definizione e percezione dell’identità, che non è più un dato definito, garantito dall’esistenza di confini, unico (per la pluriappartenenza) e tutelato (dalla cittadinanza), ma è piuttosto un processo.
Un processo complesso, fatto di tante relazioni, con nuove tematiche e perciò nuovi contesti e nuovi linguaggi comunicazionali.
  
Il rapporto fra lingua e identità
Se assumiamo come vera l’ipotesi che l’identità, nel mondo glocale, sia sempre meno un dato e sempre più un processo, costruito attraverso pratiche sociali che si realizzano in spazi più numerosi ed estesi (da quelli territoriali-locali dove convivono e si intrecciano le comunità delle diverse diaspore a quelli virtuali-globali delle reti), dobbiamo poi naturalmente confrontarci con i vettori e i veicoli su cui si basa il processo di acquisizione e mantenimento di un’identità. Questi vettori e veicoli sono in buona parte dei linguaggi.
Uno degli argomenti di dibattito cruciali del nostro tempo, caratterizzato dal fenomeno della globalizzazione e della glocalizzazione, è proprio quello dei rapporti fra lingua, identità e appartenenza. In un’epoca dominata da un lato dai reali o supposti clash of civilizations e dall’altro dalla necessità di approfondire la questione dell’interculturalità/multiculturalità, il tema della lingua assume una rilevanza tutta particolare, che evidentemente si intreccia con quello dell’identità e delle sue evoluzioni. Infatti, mentre in un mondo inter-nazionale, identità civile e politica e identità culturale concordavano e trovavano nelle lingue cosiddette “nazionali” il loro strumento di connessione e anche di affermazione sull’esterno (la lingua come strumento di imperio), in un mondo glocalista la coincidenza tra linguaggi e territori si appanna sempre più.
La nostra convinzione, o meglio la nostra ipotesi, è che le nuove lingue del XXI secolo non siano più le lingue del territorio, di “un territorio” (secondo il principio westfaliano “un territorio, uno Stato, una lingua”), ma che stiano nascendo nuove lingue trasversali, ibride, che attraversano più territori (territori fisici e insieme virtuali: si pensi alla rete e a Internet), che sfuggono in misura crescente alle politiche linguistiche degli Stati e delle istituzioni territoriali. In questo contesto, i dialetti non vanno visti come il superamento della lingua formale, ma come la scelta di un rapporto privilegiato con le radici della propria cultura e territorio. In sostanza, sempre più lingue si organizzano “per funzioni” (la scienza, i mercati, la finanza, il volontariato, la politica e il diritto transnazionali ecc.) piuttosto che “per territori”. Lingue per così dire “di reti”, figlie della mobilità delle cose, delle persone e dei segni; in altre parole dell’incontro, che segna il nostro secolo, tra globalizzazione funzionale e localismo identitario.
La funzione della lingua quindi si modifica e tende a spostarsi su due livelli: a livello glocal implicando l’esigenza di lingue globali, a livello local tramite la scoperta di nuovi linguaggi che chiameremo vernacolari perché simili ma non uguali ai dialetti, i quali pure vengono riscoperti.
Inoltre, funzioni, reti e appartenenze si intrecciano con modalità sempre più complesse: si pensi al Web e a quando sta avvenendo in materia di linguaggi e lingue funzionali proprie dei circuiti comunicativi animati dalle grandi reti funzionali: dagli SMS, alla musica, al cibo, al turismo, allo sport, alle diverse tecnologie.
All’interno dello stesso mondo in italiano, i linguaggi di comunicazione non sono solo l’italiano. Non solo la lingua, come risulta evidente nel caso del web o della terminologia scientifica, non è necessariamente l’italiano ma neanche la moneta o altri metalinguaggi (l’arte per esempio) sono esclusivamente o prevalentemente italiani. Una molteplicità di livelli espressivi, da quello nazionale a quelli regionali o locali italiani, da quelli nazionali o subnazionali locali a quelli di imitazione globalistica, vengono volutamente adottati insieme, quasi a testimoniare un desiderio di liberazione dalla monocultura e di ricerca di un nuovo sincretismo postnazionalistico.
 
Realtà e linguaggi dell’italicità
E’ in questo contesto che si inserisce la riflessione sui “popoli glocali”, non più intesi come popoli nazionali, nati e consolidatisi sull’assunto “cuius regio, eius religio”, e tenuti separati da confini territoriali, ma come il risultato di appartenenze plurime.
Questa premessa si ricollega al pensiero dai grandi teorici della post-modernità glocal (Bauman, Beck, Castells) e approda alle elaborazioni sull’identità del premio nobel Amartya Sen che nel suo libro Identità e violenza, propone di riconoscere che le identità nel mondo globalizzato sono plurime e che oggi chiunque può essere arricchito da una serie di pluriappartenenze, a condizione che le accetti come proprie.
È da questo tipo di orizzonte sociale, politico e storico che Globus et Locus analizza il fenomeno dei “nuovi popoli glocali” e fra di essi l’affermazione a livello globale degli italici. Rinunciando a individuare le comunità del terzo millennio sulla base di pure e semplici appartenenze di tipo nazionale – ossia: rinunciando a porre la cittadinanza al centro del discorso culturale e socio-politico attuale – Globus et Locus ha proposto una diversa lettura delle nuove identità collettive, fra cui quella italica. Quella connessa all’italicità è in sostanza la proposta di una nuova idea di demos.
Con il termine “italici” e “italicità” noi indichiamo un’identità e un’appartenenza non di tipo nazionale, etnico-linguistica (le persone di origine italiana che parlano la lingua italiana) e giuridico-istituzionale (le persone che hanno la cittadinanza italiana), ma essenzialmente culturale. Gli italici per noi non sono soltanto i cittadini italiani in Italia e fuori d’Italia, ma anche i discendenti degli italiani, gli italofoni e gli italofili: una comunità globale stimata attorno ai 250 milioni di persone nel mondo, alle quali la globalizzazione conferisce significati e potenzialità nuove. Popoli in qualche misura postnazionali, segnati da identità, appartenenze e cittadinanze declinate al plurale, le cui reti transnazionali interconnettono i continenti e i Paesi, attraverso i territori e i loro confini sempre più porosi.
Se l’italicità è riconoscibile in un comune modo di sentire, una condivisione di atteggiamenti e comportamenti, un modo di fare business, e insomma una modalità del tutto particolare e riconoscibile di essere comunità nei diversi ambienti in cui si è integrata, allora se ne può dedurre che l’italicità è collegata, nella sua essenza, al mondo glocal piuttosto che a quello inter-nazionale.
 
La questione, per certi versi affascinante, che viene posta in questa sede, è quella della rinuncia al nesso lingua-nazione e della conseguente messa in discussione di due concetti come identità e appartenenza. L’identità e l’appartenenza oggi non possono essere espresse semplicemente attraverso la lingua come tradizionalmente noi la definiamo, ma anche da un insieme di altri fattori complessi che potremmo denominare genericamente “le emozioni” e i “valori”.
Ciò che aggrega e accomuna dunque il mondo italico, questa sorta di “meticciato antropologico”, valoriale e culturale sono: valori intrinseci o acquisiti, interessi presenti, richiami che l’Italia di oggi e altri territori italici come il Ticino, divenuti grandi realtà economiche ma in misura crescente anche culturali, hanno ripreso a sentire come propri e voler rafforzare. Si tratta di fattori aggreganti di tipo vario e complesso, tutti prevalentemente funzionali, senza ambiti rigidi e permanenti: né di tipo fisico (luogo, etnia), né di tipo formale (adesione, continuità, vincoli), né di tipo morale (impegno, lealtà) e che sul piano temporale non aspirano a requisiti di permanenza.
L’idea di popolo che il concetto di italicità evoca non è infatti quella di italianità; è un’idea diversa che svincola l’appartenenza a un territorio politicamente definito, e che, in quanto tale, presuppone l’assunzione di riferimenti identitari nuovi, diversi da quelli proposti dal paradigma statual-nazionale.
Da sempre il discorso identitario è cambiato al variare delle diverse esperienze dei popoli, generando conseguenti mutamenti anche sui loro linguaggi. Ci sono stati, e ci sono, popoli nei quali la mobilità si è manifestata all’interno di contesti geografici cui vicende di potere politico- militare garantivano un’unità cosmopolita, per esempio gli anglosassoni o gli ispanici. Ve ne sono altri per i quali la mobilità è un elemento intrinseco alla loro cultura e alla loro storia, quali gli ebrei. Sono, questi ultimi, i popoli che di solito hanno fatto la scelta di agganciare la loro lingua a valori forti come quelli legati alla tradizione religiosa, scegliendo invece come lingua veicolare quella dei paesi in cui di volta in volta si insediavano. Altri ancora hanno scelto il multilinguismo, come gli svizzeri. Infine, ve ne sono alcuni, come gli italiani, che nel corso della loro lunga vicenda storica hanno attraversato fasi diverse, sviluppatesi lungo la storia romana, quella cristiana, quella rinascimentale moderna e postmoderna, da ultimo quella dell’unificazione e l’italiano.
 
Dal punto di vista linguistico – quello che ci interessa specificamente in questa sede – definiamo italici anche coloro che non parlano più l’italiano (molti emigrati di seconda e terza generazione), o che in realtà non l’hanno mai veramente parlato (gli emigrati, come è noto, praticavano molto spesso solo il loro dialetto). Gli italici, se e quando lo parlano, parlano spesso un italiano ibridato, scarsamente conforme ai canoni tradizionali, e praticano comunque il plurilinguismo, che è la vera “cifra” interpretativa del nuovo nomadismo transnazionale del XXI secolo.
Sembrerebbe – ed è la nostra tesi – che col mondo globale e l’affermarsi di identità aggiuntive a quella nazionale, quali quella europea e quella italica, gli italici siano chiamati a scegliere un rapporto nuovo non più esclusivo con l’italiano ma piuttosto a combinare la novità della loro condizione di abitanti di un mondo glocale che da tempo hanno contribuito a popolare e la parallela novità dei linguaggi globali che il mondo sviluppa. Per fare ciò ricorrono a un plurilinguismo nel quale la dimensione cosmopolita viene espressa attraverso l’uso di lingue globali come l’inglese o lo spagnolo, mentre quella preposta alle nuove aggregazioni politiche metanazionali (Europa), nazionali (italo-ticinese), sub nazionali (regioni) sarà coperta tramite il ricorso, variamente articolato, all’italiano e ai suoi dialetti.
Sono – queste e molte altre possibili – tutte problematiche sulle quali vorremmo invitare a riflettere gli studiosi della lingua e dei fenomeni linguistici, i semiologi, gli studiosi dei processi comunicativi, gli esperti di dialogo interculturale, i diversi soggetti che progettano e realizzano le politiche linguistiche a tutti i diversi livelli. C’è, insomma, un urgente e vero bisogno di una riflessione che sfida tutta la cultura a interrogarsi sui nuovi scenari proposti dal glocalismo.
Da parte nostra, siamo consapevoli di non avere risposte articolate a queste diverse e difficili problematiche, ma siamo però convinti che si tratti di questioni fondamentali per il nostro presente e soprattutto per il nostro futuro. Globus et Locus si impegna a proseguire e sviluppare il confronto che si apre oggi proponendosi, come possibile sede e punto di riferimento per la ricerca e il dibattito.
Alla luce di queste considerazioni, vorrei lasciare la parola a Maddalena Tirabassi, direttrice di Altreitalie, importante centro impegnato da anni sul tema delle migrazioni italiane nel mondo, che la Fondazione Agnelli ha recentemente deciso di trasferire a Globus et Locus.
Questa nuova partnership ci vede uniti nel comune intento di impegnarci per approfondire la conoscenza degli italici e dei fenomeni migratori e di mobilità delle persone di cultura italiana nel mondo, per favorire l’aggregazione di una community glocale unita da valori consolidati in secoli di civiltà italica.
Sono certo che questa nuova collaborazione si strutturerà all’insegna della capacità delle due associazioni di offrire due approcci fra loro sinergici e complementari – da una parte, l’accurato apporto scientifico del centro Altreitalie, dall’altra l’analisi politica e la visione pragmatica di Globus et Locus – per contribuire a ripensare la questione dei nuovi popoli glocali, alla luce della loro acquisita mobilità e del nuovo rapporto fra territorio e funzioni.