Patria di Enrico Deaglio. Recensione sul n. 8/2009 di Mondoperaio
Mondoperaio n. 8/2009
biblioteca / schede di lettura
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Buoni, cattivi e italiani
Stefano Rolando
Stefano Rolando
Mi
è mancato un libro come “Patria” di Enrico Deaglio, mentre repertoriavo scritti e fatti per compilare il mio “Quarantotto”! Una cornice selettiva, costruita con gli occhi di un cronista civile e romantico, laureato in medicina e alla ricerca di rivoluzioni possibili, interessato alla battaglia, interprete di diritti, che comprende se stesso dentro l’accoglienza della parola “patria”.
Deaglio ha avuto relazione con i socialisti. Ha sperimentato con alcuni di loro le possibilità di fare sinistra moderna, accettando l’uscita dal massimalismo ma non dalla trincea storica (anzi, saragattiana) della giustizia non scindibile dalla libertà. Ora dedica quasi mille pagine a riproporre frammenti vivi e rappresentativi dal 1978 al 2008, il trentennio per così dire post-terrorista, accompagnato nel lavoro da un giovane che è nato quando quel trentennio era ampiamente cominciato. Non ha lo sguardo fisso sulle sue storie, dunque non deve giustificare autogiustificare alcunché. E neppure deriva la sua lettura da appartenenze vincolate, così che prova a dare protagonismo a ciò che appare come il quadro sentimentale di una generazione. Se non fosse per la centralità di una sorta di match tra la ragione e i sentimenti non curerebbe certi spunti. Come quello di ritrovare lo spezzone inedito di una lettera alla fine non scritta da Elsa Morante alle Brigate Rosse, per chiedere la liberazione di Aldo Moro, che la stessa Morante giudicò brutta, così da far risaltare in tutta la sua bellezza la lettera (famosa, ma di cui forse si sono persi i dettagli) di Papa Paolo VI, scritta, firmata e annunciata agli “uomini delle Brigate Rosse”. Se lo sguardo fosse stato troppo vincolato ad un partito o ad una istituzione, Deaglio non sarebbe riuscito a dare abbastanza corpo – come invece fa – alle storie di confine, tra trasgressione e bisogno di cambiamento, tra errori e sperimentazioni, tra derive e diritti. Quelle storie che contengono anche irrisolti interrogativi, buchi neri della storia patria. Ma su cui il cronista non getta la vernice della notizia cestinabile, come fanno appunto i cronisti a fine giornata, quando liberano la scrivania dalla quotidianità che non ha avuto la forza di andare in pagina. O che se la ha avuta, non ne conserva altra per fare notizia per un secondo giorno. Mi è mancato, dunque, questo corredo di notizie (avevo solo Il libro dei fatti dell’Adn-Kronos!) accompagnato da pagine che segnalano autori, brani di musica condivisa, pensieri civili. Pazienza. L’editoria crea virtualmente nello scaffale della libreria la sua complementarietà. Lì aggiunge e toglie capitoli e interpretazioni, come se alla fine fosse uno solo il libro scritto, uno solo il libro offerto in lettura. 1983, appunto riservato della Guardia di Finanza per segnalare il “noto Silvio Berlusconi” oggetto di indagini in ordine a presunti traffici illeciti. Vedere lo stile del documento. Le storie di cui ci occupiamo hanno quasi sempre radici più lunghe della nostra memoria corta. Stessa storia per la prefazione all’Utopia di Tommaso Moro che il prof. Firpo scopre in un testo di Berlusconi copiato dal suo. Notizia uscita di scena. Ma il racconto del lungo e respinto corteggiamento per minimizzare l’evento è parte di un’arte manipolatoria destinata a fabbricare edifici più corposi. Bettino Craxi sale al Quirinale per l’incarico di governo a 49 anni. La rete dei nuovi dirigenti che rende possibile lo strappo – rispetto alla centralità governativa della DC – ha da trenta a quaranta anni. Memento. L’abbraccio sul palcoscenico di Benigni e Berlinguer è trattato così: “I due sembrano venire da un altro mondo, di costole sporgenti e scapole alate ormai rare”. Deaglio si preoccupa sempre delle storie della mafia. Storie ricondotte alla mafia come azienda, come centro di denaro. Così come Tobagi avrebbe voluto indagare sul terrorismo come luogo di finanziamenti da decifrare. L’86 fa risuonare l’aria di “dove il mare luccica e tira forte il vento” del Caruso di Dalla. L’87 è “Napul’è mille culure” di Pino Daniele. L’88 è “il mondo di ladri” di Venditti. L’89 il “ti ricordi quei giorni” di Guccini. E qui ci fermiamo con gli scampoli della memoria musicale collettiva. Lo strumento funziona molto, come rigeneratore dei contesti emotivi della nostra vita. Achille Occhetto nel ‘91 propone di tornare alle fonti, alla rivoluzione francese del 1789 violata dalla rivoluzione russa del 1917. Da non credere. A metà del librone edito dal Saggiatore lo spartiacque: “così finisce la prima Repubblica, appunti per i futuri storici”. Deaglio fa ricorso ai numeri a cui fa recitare la parte delle “correnti profonde” della trasformazione: giovani, vecchi, violenti, drogati, consumatori, investitori. Il passaggio appare fragile, però, debole rispetto alla cornice del cambiamento stesso. C’è ormai letteratura sulla nuova antropologia dell’Italia dell’ultimo ventennio e le pagine di “Patria” ne risentono poco. “I buoni, i cattivi, la musica, le bandiere, kiss-kiss e bangbang” sintetizza la quarta di copertina del libro. Ipotizzando che questa storia sia raccontabile come un film. Un film n cui è difficile parteggiare, difficilissimo invocare la buona fine, impossibile scegliere l’eroe preferito. L’amarezza del cronista civile prevale. E dargli torto sarebbe cretino. Però nei frammenti d’autore che chiudono ogni anno c’è pure un’Italia intelligente e creativa. E’ la via d’uscita dell’autore e anche della memoria critica del paese. Il ’92 è l’anno del Pasolini postumo (Petrolio) e di Giorgio Gaber (“Qualcuno era comunista”). Perché no? Nel ’93 giustamente spunta il nome di Gianfranco Miglio. Lo scontro in Parlamento nel ’94 tra Berlusconi e Bossi non va dimenticato (entrambi di pancia, dunque scontro vero). E così Silvio conquista anche il primato musicale del ’94 con l’inno di Forza Italia. Nel ’95 c’è il pullman di Prodi ma i segnali culturali portano alla demenzialità. Il pullman di Prodi arriva nel ’96 e l’Italia perde Marcello Mastroianni. Il nuovismo ha bisogno di ancorarsi un po’, è il turno di Baricco. Cade Prodi, il grottesco italiano si chiama dottor Di Bella ma anche il fallimento della Bicamerale. Nel ’98 ci lascia Lucio Battisti. Nel ’99 il Vaticano scioglie le riserve su Padre Pio, santo. E ancora un grande se ne va, Fabrizio De Andrè. Nuovo millennio, l’anno del Giubileo e della morte di Bettino Craxi. Cade D’Alema (e qui si soffre un po’ per il format del libro che spiega i fatti fino a un certo punto). Ciampi a Cefalonia nel 2001 : la storia rivela sorprese (e il revisionismo andrà avanti ancora negli anni). Ma nel 2001 si impenna il tracciato dei conflitti: il G8 a Genova e le Torri gemelle a Manhattan. Berlusconi risorge. Muore Marco Biagi. Chi guida a sinistra? E’ il turno della CGIL. Addio nel 2003 a Gianni Agnelli (bellissimo il brano di Oddone Camerana), mentre Berlusconi decide di colpire l’opinione pubblica europea con una performance al Parlamento di Strasburgo che resterà in vetta ai blog. E ancora il crack di Parmalat. Deraglio segue le sue piste, quella di Dell’Utri fa segnare nel 2004 una condanna. Nel 2005 la morte del papa e il profilo del massimo potere esercitato in Italia dal cardinale Ruini. Dai e dai, il caso Cogne diventa macro-notizia del paese. Condiscendenze di Deaglio (l’autore del 2005 è Piperno, mah…), ma si staglia anche Il viaggiatore notturno di Maggiani. Rivince Prodi nel 2006 e la mafia accusa botta (Provenzano in manette). Calciopoli e Gomorra, ecco il buco della serratura dell’Italia conflittuale di oggi. Si archivia anche il 2007: Walter Veltroni al Lingotto (fu vera gloria?), Berlusconi sul predellino (fu vera gloria?). Ed eccoci al 2008, con Castelvolturno in rilievo. Seguono chiose, curatissime. Si chiudono gli occhi arrivando alla fine, al lungo elenco delle persone citate. E si pensa alla chiave di lettura. Siccome abbiamo detto che Deaglio è romantico lo schema letterario va dedotto: il male è l’assediante, nei suoi multiformi italicissimi volti. Lo sceriffo è quasi sempre via, al saloon a farsi un bicchiere, con gli amici a sperare in due dollari spuntati al poker. Dunque l’equilibrio non si trova praticamente mai e la pista dei misfatti è soverchiante rispetto a quella della costruzione dell’Italia civile e competitiva. Il limite della storia – comunque intrigante – di Deaglio forse è quella di volersi (comprensibile costume) distinguersi dal fratello Mario, economista. Quel che manca nella seconda pista è la robusta presenza delle imprese che hanno fatto innovazione e occupazione. Esse (qui vi sono molti spunti) sono state inquinate dalle storie di speculatori, faccendieri, rapinatori in doppiopetto. E’ vero. Ma se non avessero avuto anche una loro storia maiuscola l’Italia oggi sarebbe ancora quella del neorealismo, con le pezze al sedere.
Enrico Deaglio (con la collaborazionedi Andrea Gentile) – Patria (1978-2008) – pagg. 939, 22 €, Il Saggiatore,Milano 2009