Olimpiadi. Prova di brand, tra nazionale e globale (Finanza&Mercati,31lug12)
Finanza&Mercati, martedì 31 luglio 2012
Olimpiadi.
Prova di brand, tra nazionale e globale
Stefano Rolando
“Tutto quel che c’è di buono a essere britannici”. Questo lo slogan che ha sorretto e guidato la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici che il suo regista, Danny Boyle, ha considerato un evento spettacolare di tipo “inclusivo”. Il giorno dopo, commenti molto sfaccettati nelle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Le sfilate delle squadre nazionali variano un po’: atleti, colori, serietà, spigliatezza. La miglior gioventù del mondo. Ma gli onori della cronaca l’hanno solo i casi anomali, quelli che in un momento storico cruciale fanno come facevano i greci antichi: interruzione delle ostilità e priorità al “ludus”, con una speranza pacificante. Quindi attenzione a siriani, iraniani, afgani. Distrattamente a libici e iracheni. Per il resto potenza contro polverizzazione. Le grandi squadre da un lato, quelle minuscole dei paesi piccoli o poveri dall’altro. In mezzo la spensieratezza dei latini (italiani e spagnoli soprattutto), la compassatezza dei maomettani e la rigidità dei paesi retti da dittature.
Apparentemente le Olimpiadi celebrano ancora la mitologia delle nazioni. Quella generata dalla pace di Westfalia (1648) e al tramonto nel quadro della globalizzazione dell’ultimo trentennio. La stessa Europa (aggregazione economicamente forte ma politicamente fragile) non esiste nello scenario della rappresentazione. Sta nei cinque cerchi delle Olimpiadi, a pari diritto simbolico dell’America, dell’Asia, dell’Africa e dell’Oceania. Ma non ha diritto a bandiere. E per come hanno spinto lo schema mediatico gli inglesi, non ha diritto a racconto. Dunque gli inglesi hanno ricapitolato tutte le loro storie, dal ruralismo pre-industriale al post-moderno, da Shakespeare ai Rolling Stones, da William Blake a Henry Potter, passando attraverso a non meno di duecento pagine tutte britanniche che in realtà appartengono ormai all’immaginario collettivo planetario. Una prova di forza “nazionale”? O una ricomposizione delle radici nazionali di una sorta di brand planetario che mescola e sintetizza l’intero story-telling dell’evoluzione umana? I commenti si dividono. E in realtà bisognerebbe propendere per tutti e due i racconti, per entrambe le storie. Quella di un’apertura di cerimonia che forza la logica del racconto nazionale (e che racconto!) a far da legittimo contrappeso (tocca a tutti gli ospitanti, in fin dei conti, a turno) a quella di una rappresentazione universale. Come a lenire un po’ le paure della globalizzazione. Ma la cosa riesce bene agli inglesi (forse anche meglio di quanto sia riuscita ai cinesi) per la storia imperiale di quel paese. Che tuttora è cultura popolare, è vissuto. Tanto che il pubblico applaude la squadra di casa, ma allo stesso modo applaude ancora tutto il Commonwealth (letteralmente “benessere comune”, concetto che risale a 500 anni fa e che da molti anni significa comunità politica generata dalla storia britannica).
Aldo Cazzullo (Corriere della Sera) scrive che “Olimpia torna in Europa e ritorna umana, Pechino l’aveva lanciata nell’empireo dell’universo prima della crisi”. Vera anche questa terza storia. Perché – con sfasature di qualche decennio – non c’è paese d’Europa che non si rilegga nel doloroso percorso di formazione della ricchezza, dall’agricoltura all’industria, dal paternalismo alla lotta di classe, dalle guerre (mondiali sì, ma di immensa crudeltà tra i confini d’Europa), alla nuova reticolarità di internet. Vittorio Zucconi (Repubblica) coglie invece la chiave “orgogliosa e malinconica” di un passato nazionale e di “grandezze lontane”.
I brevi cenni qui contenibili in un commento di carattere generale ci servono per fare tre considerazioni. Una sul rapporto fortissimo tra grandi eventi e racconto a dimensione planetaria di patrimoni simbolici che riguardano storia, culture, percezione e racconto di sé (di ogni soggetto nazionale e locale nel mondo). Una seconda sul rapporto tra libertà e propaganda nella scrittura di queste regie. In cui non c’è la mano del dittatore a selezionare con violenza la propria storia e il setting della rappresentazione (come fece Hitler modificando in modo importante il senso delle Olimpiadi nell’età moderna). Nella grande messinscena di Londra 2012 la regia è consapevole del “ruolo istituzionale”. Dosa abilmente, cita con equilibrio, mantiene credibilità rispetto ad una bandiera che ha difeso e protetto – pur facendo rudezze, violenze ed errori non trascurabili – la libertà propria e del mondo. Una terza considerazione è sul testimone affidato al Brasile per proporre nel 2016 il possibile racconto dell’ascesa mondiale di una ex-colonia divenuta potenza di prima grandezza. Con una grandissima scommessa circa l’equilibrio di racconto che – dopo anni di crisi di autostima – i brasiliani sapranno (o non sapranno) fare. Con l’appendice della considerazione che riguarda noi, milanesi ed italiani insieme, chiamati nel 2015 ad inaugurare l’EXPO, una esposizione universale che dovrebbe connettere la città di duemila anni di storia dello spirito (Ambrogio), dei diritti (Beccaria) e delle libertà (Cattaneo) – parte di un brand nazionale che ha molto altro – con il più alto compito di giustizia del mondo contemporaneo: riuscire a nutrire il pianeta. Auguri a noi stessi.
stefano.rolando@iulm.it