Da Quarantotto
di Stefano Rolando (Bompiani, 2008)
Il presidio identitario
“Chi non sta nascendo sta morendo.” (Bob Dylan)
Di inverno e da solo. Visita ad Auschwitz
Non sono ebreo. Ma sono ebreo come Kennedy era berlinese. Anche se poche pagine più in là si leggerà di una radice sefardita di mia nonna materna (dunque quella valida), non mi sono identificato nel mio periodo di più ricettiva formazione credo in nessuna condizione della “diversità” del nostro tempo. Un bel caso di presunzione di integrazione, che lascia alla vita il gusto più sottile e flessibile di distinguersi poco a poco, caso per caso. E tuttavia, è proprio la mia generazione quella che ha saputo tutto senza equivoci; che si è imbattuta già in stato di raziocinio nel processo Eichmann; che ha vissuto con i media assai protesi all’utilizzo in sede critica delle immagini del Novecento; che ha letto Primo Levi nell’obbligo della scuola.
Per questo essa deve fare uno sforzo, un adattamento, un salto contestuale per cogliere fino in fondo l’infernalità della “soluzione finale” intesa come annientamento prima ancora che come piano di morte. E come “annientamento” costruita intorno alle procedure, tassello per tassello, della spogliazione in altri uomini della loro condizione umana. Ho compreso l’opinione di Tullia Zevi di non togliere la sacralità del documentario storico per comunicare la shoah. Ma ho anche condiviso – un po’ in controtendenza – l’intuizione di Benigni di cominciare a comunicare la shoah in una prospettiva di tempo in cui i testimoni oculari e i sopravvissuti verranno meno. Nel dibattito contemporaneo sull’identità – che investe ogni paese e in ogni paese ogni territorio – il “cantiere aperto” e mai chiuso nella Germania e in Israele ha contorni per noi poco immaginabili. Ho avuto una fidanzata ebrea di origine polacca e ho sposato un’austriaca figlia di un berlinese. E in diversi momenti della mia vita ho cercato di misurarmi un poco con questo “tsunami della ragione” che è il rapporto con la violenza etnica e che è il rapporto della condizione ebraica con i caratteri dell’occidente. Niente di ciò è paragonabile alle due improvvise ore, alle otto della mattina di un gelido giorno di febbraio, trascorse da solo nel campo di sterminio di Auschwitz, a mezz’ora d’auto da Cracovia. Ciò che ho scritto nel viaggio di ritorno in Italia aveva solo posto per un diario personale, per un appunto riservato sulle stille delle emozioni. Tanti – e spesso con più alte ragioni di coinvolgimento personale – hanno compiuto quella visita. Nessuno può pensare di poter dire cose più adeguate delle pagine di Primo Levi. Faccio tuttavia rinvenire quell’appunto perché nella centralità dell’attenzione sulle questioni identitarie che credo abbiano avuto i miei (e non solo i miei) anni novanta, questo ricordo ha un posto di rilievo. E lo ha con maggiore evidenza nell’anno, il 2008, che ricorda i settanta anni dal varo delle “leggi razziali”. Mentre raccolgo le carte di questo frammento di vita leggo sui giornali la seguente notizia: “Tel Aviv. Visita di Bush al Memoriale della Shoah. A un certo punto Bush si è soffermato davanti a una cartina aerea di Auschwitz e, rivoltosi a Condoleezza Rice, le ha chiesto perché gli americani non bombardarono il campo di concentramento nazista. Gli americani – ha spiegato la Rice, che oltre alla carica di Segretario di Stato è anche docente universitaria di Scienza della Politica – non pensavano che ciò avrebbe fermato lo sterminio degli ebrei. Shalev, invece, ha fornito la sua spiegazione: ‘Non volevano distrarsi dall’obiettivo della guerra, né dare a vedere che stavano combattendo per gli Ebrei’. Bush si è fermato a pensare, poi ha detto: ‘Avremmo dovuto bombardarlo’”. Questione da discutere. E negli stessi giorni in Germania si pubblica il Dizionario per fare i conti con il passato, che contiene settecento pagine di parole “delicate” per le quali non basta il lemmario ufficiale della lingua tedesca. Libro da discutere.
Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Quella scritta che campeggia all’ingresso del campo di Auschwitz è stata opportunamente lasciata nella sua estetica originale. Forgiata in ferro e scritta con una leziosa ondulazione. Come fosse l’insegna di una colonia estiva gestita dai sindacati o da un’azienda paternalistica che premia i suoi operai. È il logo più sinistro di tutta la storia della comunicazione. Assomiglia all’INRI scritto (se davvero fu scritto) sopra il capo di Gesù Cristo. In Italia i luoghi protetti dall’Unesco sono una cinquantina. In Polonia una decina. Mi trovo – per assenza di politici nella delegazione italiana – ad essere capo delegazione ad una conferenza dell’OCSE a Cracovia in materia di informazione e cultura per la salvaguardia dei beni culturali, di cui è un diplomatico italiano amico ad essere responsabile, Vittorio Armellini; e scopro lì che la distanza di non molti chilometri da un centro minore che sulla carta geografica si chiama Os´wiÑcim nasconde in realtà il nome tedesco di quel luogo, ancora oggi impronunciabile se non con tutto il traino di violenza emotiva che comporta, cioè Auschwitz. Lo scopro perché una delegazione di associazioni ebraiche chiede di incontrare alcuni capi-delegazione nazionali per sottoporre le condizioni di difficoltà alla gestione e alla manutenzione di quel luogo. Per sollecitare la necessità di una intesa internazionale per consolidare gli impegni di salvaguardia. Non ho alibi per sgusciare via da una visita che ha una possibilità di essere effettuata nel primissimo mattino di un inizio di febbraio 1993. Da solo. La scritta esterna che accoglie oggi i visitatori e cinquanta anni fa le vittime è la stessa. In realtà il luogo rappresenta un’estensione globale di 40 chilometri quadrati in cui sono tre i centri all’origine concepiti per sostenere la “soluzione finale”. Lo Stammlager principale, che fu operativo dal 14 giugno 1940 e in cui furono uccise circa 70.000 persone, per lo più intellettuali polacchi e prigionieri di guerra sovietici. Il campo di sterminio di Birkenau nel quale persero la vita circa un milione di persone, a maggioranza ebrei e zingari, in cui stavano anche 100.000 internati utilizzati per il lavoro coatto. E infine il Werke o Arbeitslager (campo di lavoro) di Monowitz, sede del complesso industriale che gravitava attorno alla fabbrica per la produzione di derivati del carbone, proprietà della I.G. Farben (oggi casa farmaceutica Bayer). Il campo fu operativo dal 31 ottobre 1942 ed ospitò fino a 12.000 internati. Nel 1960, quando avevo 12 anni, si svolse in Israele il processo ad Adolf Eichmann. Riuscii a percepire l’importanza di quell’evento e lo seguii sui media. L’analisi dell’inevitabilità dell’esecuzione di ordini superiori mi è rimasta a lungo come una problematica per la quale non basta l’ordinamento formale di uno Stato ma contano assai di più la coscienza e soprattutto l’educazione delle persone. Processi come questi sono rivelatori di infinite cose. Eichmann si scusò una volta sola durante il processo che lo portò nel 1962 ad essere impiccato a Ramla in territorio israeliano. Quando il cancelliere del tribunale gli fece notare che non si era alzato prontamente in piedi all’ingresso della Corte. 14 anni prima, nel 1946 durante il processo di Norimberga venne messo alla sbarra, tra gli altri, Rudolf Höß, che – prendendo ordini da Himmler ed essendo superiore diretto di Eichmann – aveva anticipato
quasi tutte le argomentazioni. Lui era stato il maggiore progettista e organizzatore di Auschwitz. Lui il contabile di milioni di “soluzioni finali”. Einaudi pubblicò negli Struzzi la sua autobiografia. In cui scrive: “Una notte venne condotto un ufficiale delle SS che conoscevo bene e con il quale solo il giorno prima ero stato al circolo… aveva arrestato un ex funzionario comunista e, fidandosi della lealtà del prigioniero, gli concesse di passare da casa, ma egli fuggì… l’ufficiale delle SS fu arrestato e condannato a morte dalla corte marziale… dovetti fare uno sforzo per estrarre la mia pistola e dargli il colpo di grazia alla tempia”. Rudolf Höß si nascose sotto falso nome per alcuni mesi, poi fu catturato dagli inglesi e finì impiccato davanti al crematorio di Auschwitz.
Mentre il nazismo rantolava nelle sue ultime conseguenze ammonitrici volute dal processo di Norimberga, venivano al mondo nuovi bambini, nati come me nel segno della pace e della liberazione. Noi dobbiamo fare i conti con il tempo che ha appena preceduto la nostra nascita. Il tempo che ha contaminato la storia e le storie di milioni di persone. In cui un tuo amico, uno dei tuoi, tu stesso, si poteva essere oggetto di quel micidiale rapporto tra l’ordine e l’ingiustizia in cui nessuno può salvarsi, nessuno ha diritto alla parola, nessuno può chiamare in causa il diritto, i principi, i poteri, le dignità.
La violenza che si legge ad Aushwitz non sta tanto nelle macchine di morte, nei crematori, nei muri accanto a cui strusciavano relitti umani o finivano fucilati i trasgressori. Non sta nemmeno nelle celle, nelle sbarre, nei fili spinati,. E persino negli ossari, nei vestiari, nell’immensa vetrina che custodisce, ammucchiati in una sorta di riconduzione ad una persona unica che è la vittima, tutti i capelli tagliati ai prigionieri prima della “doccia”. La violenza estrema sta nell’immaterialità del percorso di Auschwitz, nel circuito di passi fisici e morali in cui lo scopo dell’annientamento di ciascuna delle personalità consegnate al campo non dura lo spazio di un’esecuzione ma un lungo trattamento, una lunga procedura che racconta un atto formale complesso di superiorità. Deutschland über alles mi è venuto da scrivere, anche se so che il lead dell’inno tedesco viene sempre frainteso soprattutto dagli italiani e che esso si riferisce all’unità della patria – tema risorgimentale che fu identico per l’Italia – che deve essere il primo e più importante pensiero di ciascuno. Quella “superiorità” era stata concepita da un pazzo, condivisa da un gruppo di potere, gestita con il consenso popolare. Il dramma identitario dei tedeschi e degli austriaci – molti, i migliori, gli intellettuali, tanti giovani, lo sanno bene – è che quella storia non è riconducibile ad un pazzo (con cui per giunta, a differenza del rapporto tra Mussolini e gli italiani, i tedeschi stessi non hanno potuto regolare i conti) ma al vasto consenso. E soprattutto alla oggettiva complicità attorno a luoghi e modi che non potevano essere nascosti. Questa è la mia lettura di questa lividissima mattina di inverno, in cui ho calpestato pavimenti e avvicinato lo sguardo e le mani a cose per cui né il corso della giornata né quello della stessa vita può essere più esattamente quello di prima. Con l’unico pur tremendo conforto della ragione nelle parole di Primo Levi (matricola. 174 517, in questo lager per undici mesi, fino alla liberazione da parte dell’armata rossa, tra i venti sopravvissuti dei 650 arrivati con lui) ricordate qui in una particolare stanza.
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per un pezzo di pane
che muore per un sì o per un no.