Nuovi diritti di cittadinanza (testo intervento Palazzo Marino 17 aprile 2013)
Premio Talea-Ethnoland
I nuovi italiani. Dal patto civico al patto di civiltà
Palazzo Marino, Milano 17 aprile 2013
Intervento di Stefano Rolando
Professore all’Università Iulm di Milano.
Già coordinatore della campagna elettorale di Umberto Ambrosoli in Lombardia
Nuovi diritti di cittadinanza nell’Italia che verrà
- Mi si chiede di fare osservazioni su un tema delicato e ulcerato dell’esperienza italiana che va sotto il nome di “seconda Repubblica” – nata su alcune forzature degli adempimenti connessi ai diritti costituzionali, tra cui la spinta ad arginare il fenomeno migratorio che prende consistenza a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 – appunto il tema della nuova cittadinanza. E di farlo tenendo conto di qualcosa che oggi – mentre parliamo qui – è conteso tra gli indovini (che opzionano di solito gli stereotipi) e i matematici (che opzionano di solito il probabilismo minoritario), cioè l’Italia che verrà.
- Io non sono un indovino e per tutto il tempo del mio liceo classico mi sono rifiutato di studiare la matematica (pagando poi un prezzo nell’unico 18 della mia carriera universitaria – che mi ha rovinato la media finale – che ho preso in Statistica). Dunque pongo la questione dell’Italia che verrà dentro la logica della lotta politica che – così è stato in Lombardia nella vicenda elettorale che ci ha impegnato, così è in Italia a fronte delle decisioni non scontate che riguardano l’immediato futuro – mette a fronte due visioni e due culture:
- l’Italia guidata dal populismo, dove contano l’apparenza e la propaganda, dove l’inerzia politica produce laissez-faire, dove nel laissez faire contano più i sentimenti di paura e di difesa che quelli di progettazione del cambiamento delle regole e dei comportamenti dentro un progetto educativo civile della nazione;
- l’Italia guidata dalla rinascita di un principio di classe dirigente competente che ricolloca responsabilmente il Paese in Europa e nel suo spazio glocale, che concentra le energie sulle opportunità competitive mettendo i ceti produttivi sotto sforzo e che utilizza a fondo le sue fonti di conoscenza e un nesso moderno tra saperi e poteri.
- La questione dei diritti di cittadinanza deve fare poi i conti, a fondo, con la questione settentrionale. Cioè dove il fenomeno della radicalizzazione è stato più forte, dove la domanda di argini anziché di ponti è stata politicamente più sostenuta, dove si sono formate le istanze prevalenti poi accolte nella legge Bossi-Fini. Anche qui dobbiamo chiederci quale è il nord che verrà?. Solo rispondendo alla precedente e a questa questione potremmo cercare di capire se la domanda che ha creato le condizioni della legge Bossi Fini è ancora in grado di dettare l’agenda; oppure se si va configurando un’altra domanda sociale sull’immigrazione che può cambiare la filosofia stessa dell’agenda.
- Anche la destra conosce un po’ la demografia. C’è qualcuno che bene o male sa leggere una mappa della densità fisiologica del mondo e sa capire se le spinte inevitabili stanno producendo un saldo emigratorio o immigratorio. L’Italia – cerniera geografica per definizione – non poteva essere immune. Studi a ripetizione indicavano i flussi in entrata nell’ordine dei milioni di unità. Siamo arrivati per i dati ufficiali agli attuali 4 milioni e mezzo di immigrati, pari al 7,5% della popolazione che – nella fascia più interessante, quella dai 18 ai 35 anni – esprime i due terzi dell’intero volume. Ma, come pure si sa, gli esperti (cito il collega prof. Gian Carlo Blangiardo) stimano il fenomeno reale in tutti i suoi aspetti attorno a 5 milioni e 400 mila. Come si sa 1.237 mila sono in Lombardia dove la percentuale sale al 12% (e di essi quasi 250 mila a Milano dove la percentuale rispetto ai residenti sale al 14%), Più del 90% è in condizioni di piena regolarità.
- La crisi economica però comincia a provocare contro-esodo (come dice il recentissimo Rapporto regionale per l’integrazione e la multietnicità (Orim) che ci segnala ripartenze per il 10%, secondo quella legge economica secondo cui per ogni 100 posti di lavoro bruciati in un paese di destinazione 10 immigrati se ne vanno. L’articolazione delle provenienze in Italia oggi è dall’intero globo: dal milione di romeni, al mezzo milione di marocchini, ai 200 mila cinesi, ai 140 mila filippini, ai 100 mila peruviani, ai 2000 australiani e a due donne emigrate dalle Isole Salomone. La legge Bossi-Fini ha cercato di rispondere all’idea di consentire l’immigrazione disposta a convivere con le difficoltà dell’accoglienza e dunque quella non di qualità, socialmente dominabile, collocata nelle mansioni subalterne e dismesse con una relativa noncuranza delle tematiche identitarie, culturali e formative. Fatta questa scelta le conseguenze sono state coerenti con quella normativa. Tanto è vero che – è sempre Blangiardo a ricordacelo nell’ottimo sito di Neodemos – il 43% dei lavoratori stranieri occupati in Italia (in Lombardia la percentuale supera il 50%) svolge mansioni inadeguate rispetto ai titoli acquisiti (il doppio esatto della condizione degli italiani). Solo cambiando – per una diversa, condivisa, maggioritaria, scelta strategica del paese – la domanda migratoria che tutti i paesi “ricchi” fanno in una logica articolata (mescolando fattori di convenienza e fattori solidali, fattori di riqualificazione demografica e fattori di cultura globale, fattori produttivi e fattori di ridisegno della cultura commerciale internazionale) potremo avere fiducia in una normativa che faccia saltare ciò che l’immigrazione qualificata (quella colta, con competenze, con sentimenti civili, che conosciamo e che ci aiuta a decifrare) ci segnala da anni perché pagata sulla sua pelle e sulla sua dignità.
- Dunque che nord verrà?
- il ciclo storico di un gruppo dirigente che non ha saputo essere né una destra liberale né un riformismo cristiano moderato, ma è stato a metà peronismo e a metà autarchia in cui abbiamo perso reputazione e crescita, non è tecnicamente finito (è al comando nelle regioni del nord) ma è venato da una crisi verticale dei suoi partiti portanti;
- si esprime a chiazze – in alcune città, come Milano, non nella “macroregione” – una nuova cultura politica che lavora sulle identità territoriali per sviluppare una integrale politica dell’attrattività: di capitali, di idee, di turismo, di lavoro soprattutto qualificato, di studenti.
- Avevamo il progetto di non lasciare solo su Milano il peso di questa liberazione di energie. E in quel patto tra Pisapia, Bersani e Ambrosoli che riguardava Expo si erano spese parole che hanno tra gli addendi inclusi la riforma integrale della Bossi-Fini. Il progetto è in cantiere per riparazioni. Vero è che la Lombardia è stata resa “contendibile” ma il tema di governare una revisione di tendenze deve essere molto negoziato. Non è però rimandato il principio attivo del Patto Civico. Cioè quel dialogo tra politica gestita dai partiti, politica gestita dai sindaci e politica gestita dall’associazionismo valoriale ed economico in cui – come abbiamo dimostrato in tutta la campagna elettorale – la questione dei diritti della nuova cittadinanza è parte integrante delle strategie.
- Cioè non si esercita questo tema sul piano della tolleranza, ma sul piano della sua promozione nei temi che contano nell’agenda. Ho ascoltato in questi giorni il parere di chi segue con attenzione e competenza la materia migratoria e che ha contribuito anche a tenere in tensione questo tema con quello in generale dei diritti nel corso della recente campagna elettorale. Insieme a Otto Bitchoka, che ha il merito di avere promosso costante dibattito tra cui l’iniziativa di oggi, anche Maryan Ismail e Daniele Nahum. Articolo qui alcuni spunti che saranno in vera evidenza solo se – in Italia e al nord – la prospettiva di scenario sarà quella del cambiamento.
- Un tema è quello della Discriminazione Istituzionale. L’immigrato è soggetto ad una legge restrittiva (la citata Bossi-Fini), superata dai mutamenti sociali ed economici. In essa, tra l’altro, la questione dei permessi di soggiorno legati al reddito, non considera la congiuntura economica sfavorevole e produce per molte famiglie forme di evidenti discriminazioni. Vi è poi il tema del reato di Clandestinità. Già di per sé assurda come fattispecie di reato, questa parte della normativa rende clandestine di fatto migliaia di famiglie che vivono un licenziamento o la cassa integrazione. Pur essendo stati regolari con il lavoro, pur avendo i figli iscritti nelle scuole, l’affitto (o il mutuo), gli obblighi di contribuzione in regola, a costoro non vengono rinnovati i permessi di soggiorno.
- Un secondo tema è quello della Cittadinanza negata alle seconde generazioni. Il tema è quello notissimo per cui in Italia si diventa cittadini per jus sanguinis e non per jus soli. Così si obbligano bambini e ragazzi ad avere una identità razzializzata, vittime perenni di un razzismo identitario: “non m’importa se sei nato qui, se parli la mia lingua, se vivi come me…sei sempre un’extra-comunitario e lo rimarrai sempre“. L’approccio oggi potrebbe essere impostato con criteri temperati (almeno un genitore con permesso di soggiorno regolare da cinque anni, oppure un ciclo scolastico interamente compiuto, o altro).
- Un terzo tema è quello della Democrazia partecipata. I diritti di cittadinanza e di prossimità possono e devono essere estesi quando viene riconosciuto in pieno il diritto alla partecipazione attiva per il progresso del territorio/stato in cui si vive. Per far ciò bisogna passare dal puro intervento delle politiche di assistenza per gli immigrati alla gestione delle risorse da parte degli stessi. In altri termini dare la possibilità di co-gestire direttamente (con le amministrazioni preposte) i fondi per l’immigrazione, oggi distribuiti spesso su base clientelare ed amicale. In altri termini devono essere gli stessi immigrati che individuano, insieme alle istituzioni locali, priorità ed emergenze si cui intervenire. Percorso quanto mai necessario per uscire dallo stereotipo discriminante dell’immigrato=delinquente. Il fondo per l’immigrazione è autonomo ed è generato dalle tasse che essi stessi versano, quindi non vi è aggravio per le Casse dello Stato.
- Aggiungo ancora due argomenti che investono il nostro sistema educativo.
- Uno è inquadrato nel dibattito – più lento delle esigenze competitive del Paese – di incrementare in modo generale il processo di internazionalizzazione del nostro sistema universitario, smettendo di far credere che ciò si racchiuda nell’estensione dei corsi in lingua inglese, quando intendiamo per “processo” una serie di fattori didattici, di facilitazione ambientale, di attrazione di risorse scientifiche, di riorganizzazione della ricerca in cui la componente migratoria interna – giunta ormai ad avere un rilievo anagrafico rispetto ai processi di immatricolazione – può ricevere una serie di attenzioni strutturali per essere un punto di valorizzazione di questo piano. Ed è questo un territorio in cui si comprende bene che la visione, illustrata da Piero Bassetti, della trasformazione dei migranti in cittadini global non è per nulla futuribile.
- L’ altro – che riprende una discussione che si prolunga da tempo senza esiti – riguarda la tendenziale trasformazione nella scuola di ogni ordine e grado della cosiddetta “ora di religione” in un progetto che riguardi l’insegnamento della storia delle religioni. Un progetto collocato nella visione di una battaglia di fondo per sconfiggere nuovo razzismo, antisemitismo, islamofobia, violenza contro i Rom, eccetera, portando il tema della cultura religiosa come argomento anche inquadrato nella soluzione di grandi questioni di coesione sociale.
- Ho ripreso qui solo alcuni spunti che credo oggi potranno integrarsi in altre ipotesi, altre istanze, altre sollecitazioni. Il carattere di tendenzialità che gli organizzatori di questa tavola rotonda hanno suggerito fa capire che politica e media ereditano oggi una stagione della paura e della eccitazione di sentimenti difensivi e aggressivi dell’opinione pubblica a fronte della ineludibile crescita dei flussi migratori.
- Anche questi caratteri appartengono ai profili che ormai con connotazioni negative identificano la “seconda Repubblica”. Noi oggi sappiamo che la “terza Repubblica” non né aperta né annunciata. Perché riforme istituzionali rilevanti, modifiche strutturali del far politica, rinnovamento profondo della pubblica amministrazione, cambiamento della cultura sociale a fronte della diversità, etica pubblica concentrata sulla ripresa dell’economia e dell’occupazione, sono cinque aspetti interconnessi che devono essere non solo predicati ma soprattutto attuati e anche validati perché la parola futuro corrisponda a una profonda discontinuità.
- Il momento è grave e non sono solo vecchi studiosi sospettosi a temere – con l’attuale deficit di condizione democratica – una più forte accentuazione delle condizioni autoritarie e di controllo nel nostro sistema. Ma questo, caso mai, è argomento per un’altra conferenza.