Notorietà e visibilità. Due forche caudine per riforma elettorale e dei partiti (Linkiesta,27.3.13)

 
Chi è stato coinvolto in una campagna elettorale e, più in generale, nella attività politica si è imbattuto, con seri grattacapi, in queste due parolacce: notorietà e visibilità.
“Parolacce” perché per conseguirle vi è chi è disposto a piegare alcune delle componenti nobili dell’agire politico: emettere fiato anziché comunicare, cambiare tatticamente posizione per uscire dal cono d’ombra, forzare la verità per compiacere la cultura del “far notizia”, eccetera.
E tuttavia esse sono come la benzina per i motori, come l’acqua per le piante, come l’ossigeno per gli essere viventi.
Non sono poi la stessa cosa. La notorietà, infatti, è un pre-requisito elettorale. La visibilità una condizione in sé dell’agire politico. 
Un percorso di costruzione di una soglia di notorietà competitiva comporta investimenti, costi, strategie, lavoro. La notorietà si misura. E per colmare il delta competitivo si può stimare, ragionevolmente, quanto tempo, quali iniziative, quanti soldi.
Senza aver raggiunto la soglia, mettersi in partita è tempo perduto, qualunque sia il livello di qualità e di originalità della proposta. Ben inteso quella qualità e quella originalità sono benzina importante per alimentare il rapido viaggio da un punto A ad un punto B del livello di notorietà, cercando di far sovrapporre nell’opinione pubblica la soglia di notorietà con qualifiche positive di reputazione.
Quanto alla visibilità essa diventa – una volta ottenuto consenso e comunque a valle di qualunque posizionamento (al governo, all’opposizione, nelle istituzioni, nel movimento, eccetera) – la condizione di mantenimento e di accrescimento del rapporto tra notorietà e consenso.
Se il primo fattore è – come si è detto – un pre-requisito, il secondo accompagna qualunque sviluppo di iniziativa e, si passi un’altra brutta parola, di “carriera”.
Anche chi sceglie una forma più riservata che spettacolare del far politica, anche chi adotta uno stile sobrio e lo sforzo di far prevalere contenuti rispetto alla ritualità propagandistica deve misurarsi con queste forche caudine dell’agire politico. In alcuni casi oggetto di una plateale gestione economica (pianificazione degli investimenti e dei comportamenti);  in altri casi oggetto di una ricerca apparentemente più casuale e “oggettiva” per coincidenza con il ruolo e meglio ancora con il mandato. Tanto più si è lontani da posizioni di potere tanto più la visibilità comporta sforzi e costi per essere praticata. Tanto più si esercita un mandato che ha anche natura comunicativa tanto più la conquista della soglia superiore di visibilità è coperta dal mandato stesso ed è risolta all’interno dei meccanismi che premiano finanziariamente gli incombent della politica e non i new entry.
Con la riforma della legge elettorale si dice che si cercherà di dare risposte al vulnus della perdita del diritto di scelta da parte dei cittadini. Con la riforma dello status dei partiti si dice che si metterà mano seriamente alla insensata contraddizione per la quali i partiti hanno deciso di assimilarsi alle istituzioni (l’art. 49 ne definisce la costituzionalità – ovvero il diritto di libera associazione per determinare la politica nazionale – ma non la natura pubblica) accogliendo il finanziamento come le istituzioni ma gestendolo privatamente come nemmeno i singoli cittadini possono fare con il denaro guadagnato (che è sottoposto a regole e imposte).
Nel primo caso si potrebbero riportare elettori ed eletti a condizione di “mercato” – togliendo la selezione e la garanzia alle segreteria di partiti e movimenti – riportando così in auge il principio della soglia di notorietà e di visibilità, ma facendo anche – per esempio – saltare la modalità con cui in questa fase un soggetto come il Movimento 5 Stelle ha portato nelle assemblee legislative centinaia di cittadine e cittadini senza volto e senza preferenze. Caso mai aprendo una riflessione seria su come non sacralizzare la questione comunicativa fino a renderla una forma di nuovo potere preliminare assoluto.
Nel secondo caso si potrebbe soddisfare una domanda diffusa di contenimento dei costi della politica e anche di cancellazione delle fonti di illegittime spese (rispetto a certi parametri di etica pubblica) ma portando in drammatica evidenza il tema del controllo dei mezzi di comunicazione (editoria a stampa e radiotelevisiva) ancora largamente dominanti rispetto alla rete che influenza a malapena il 20% dell’esito elettorale e arriva al 30% nell’intervenire in modo correttivo sulla formazione dell’agenda setting del paese.
Questa nota è scritta per auspicare che il tema della comunicazione politica sia fatto emergere seriamente nel dibattito che – per poter transitare il nostro sistema davvero nella terza Repubblica – deve essere fatto sui due snodi della riforma elettorale e della riforma dei partiti fin qui trattate con demagogia e riduttività, come questione (che esiste) dei “costi della politica” e non anche come questione della qualità (compresa la libertà) della nostra democrazia.