Notizie Radicali (4gen10) Stefano Rolando in replica a Federico Orlando
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lunedì 4 gennaio 2010
Una domanda posta da Federico Orlando
Ma cosa sono i “ghetti” di cui parla Marco Pannella ?
Stefano Rolando
Nel raffinato commento che Federico Orlando dedica (Europa, 31 dicembre 2009) al libro scritto a colloquio con Pannella, vi è un garbato rimprovero per non avere spiegato meglio il senso del titolo del libro “Le nostre storie sono i nostri orti, ma anche i nostri ghetti”. Soprattutto il senso della parola ghetti che ha nella storia significati diversi, vieppiù peggiorativi, conferendo dunque qualche mistero o almeno qualche ambiguità, diciamo qualche restrizione, al valore pieno dell’altra inusuale parola (orti) che esprime luogo di libera coltivazione. Orlando, rapidamente, offre la sua lettura: “… ghetti, dove un po’ ci chiudiamo per narcisismo e un po’ ci chiudono gli altri per individuarci con la stella gialla, come s’addice a chi non bela”.
E’ una buona sintesi. E già con queste due righe facciamo un passo avanti. Ma lo spunto consente di ampliare un po’ il chiarimento.
Innanzi tutto – perché sia chiaro – l’espressione è integralmente di Marco Pannella. Dunque né mia, né dell’editore. Mia è stata l’intuizione, ascoltandola nel corso del colloquio, di proporre e sostenere quel titolo di fronte a comprensibili preoccupazioni dell’editore che avrebbe preferito – che so – “Pannella, redde rationem” o magari (ma scherzo, perché non è il caso di intellettuali robusti come sono gli editor di Bompiani) “Pannella si confessa”, così da provocare almeno un nuovo sciopero della fame al nostro. Ne avvertivo qualche ambiguità e ho pensato che tale ambiguità avrebbe fatto bene ad aleggiare nel corso della lettura dei volonterosi. Almeno attorno ai due corni che propone lo stesso Orlando: l’auto-emarginazione o la discriminazione. Nel corso del primo dibattito che il libro solleva si coglie una diffusa attenzione alla lettura della storia repubblicana di uno che, per non pochi, è politico che “non bela”. Nei più direi si coglie anche rispetto. Obiettivo ricercato nel tentativo di ribaltare le caricature che la concezione che Pannella ha della politica come rappresentazione di teatro (dunque rappresentazione di una tragedia in forma spettacolare) hanno costruito nel tempo e tra i detrattori. La questione del “ghetto” torna qui e là. E consente non solo due ma forse anche almeno quattro letture.
Partiamo dalle definizioni comuni (che Wikipedia riassume). Ghetto identifica un’area nella quale persone considerate (o che si considerano) di un determinato retroterra etnico, unite da vincoli culturali e religiosi, vivono in gruppo, volontariamente o involontariamente, in regime di reclusione più o meno stretta. In realtà il termine nasce per indicare il quartiere in cui gli ebrei erano anticamente confinati ad abitare, e completamente rinchiusi durante la notte. Il termine ghetto deriva dal Ghetto di Venezia risalente al XIV secolo. Prima che venisse designato come parte della città riservata agli ebrei, era una fonderia di ferro (dal veneziano geto, pronunziato ghèto dai locali ebrei aschenaziti di origine germanica, inteso come getto, cioè la gettata di metallo fuso), da cui il nome. Alcuni affermano che la parola derivi da borghetto, altri dall’ebraico get, letteralmente “carta di divorzio”.
Una prima lettura è dunque quella dell’analisi della cultura politica che l’attualità va imponendo e in cui quell’altra cultura politica – con le citazioni e i ricordi che Pannella (come altri ancora) esprime – non riesce a riconoscersi, così da ritrovarsi in un ghetto provocato dalla alienità dell’idea stessa della politica per come sembra maturare per i più.
Una seconda lettura è invece quella della forzatura discriminatoria degli altri: la metafora del regime, che i radicali avanzano da tempo, materializza un nuovo “male” (Arendt) che tollera gli oppositori di convenienza ma non quelli di sistema. Dunque confina questi ultimi (oscurandone per esempio la visibilità). Così come i nazisti fecero creando condizioni molto più punitive rispetto alla storica concezione del ghetto.
Una terza lettura è quella del bisogno di proteggere la propria “differenza”, per conservare linea e posizionamento, sia pure in condizione di estrema minoranza. Da cui nasce – per esempio in Pannella, per come ne parla con libertà Massimo Bordin – la torsione tra il continuo bisogno di confronto e di dialogo e la critica che gli giunge di non essere mai coalizzabile.
Una quarta lettura è quella del vissuto psicologico del tema, che parte da condizioni che le cose fin qui dette – magari tutte assieme – vanno negli anni ponendo, fino a far maturare una percezione che quella parola (ghetto) riassume allusivamente per assumere quindi il valore di un simbolo e di un’estrema immateriale spada.
Insomma un ghetto un po’ pirandelliano, quindi anche molto sciasciano. E perciò molto pertinente all’argomento.