Nomine dentro e fuori il Comune di Milano: fatti e misfatti. Intervento di Stefano Rolando

Nomine dentro e fuori il Comune di Milano: fatti e misfatti
Martedì 3 maggio 2011
Società Svizzera, Via Palestro 2 – Milano h. 18.30
Proposta di Città Costituzione
Introduce
Beniamino Andrea Piccone, Nextam Partners SGR Investimenti Indipendenti
Intervengono
Paolo Bertaccini, delegato di Transparency International
Daniela Bollino, amministratore delegato di Key2people
Stefano Rolando professore alla Università Iulm di Milano
Conclude
Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale
 
 
Intervento di Stefano Rolando
 
  1. Fuori dal comune” qui immagino voglia dire fuori norma, a dispetto della norma, contro la norma. Insomma siamo qui per dire la nostra preoccupazione, fondata ormai su una vasta e prolungata documentazione,  sui criteri di nomina nel sistema pubblico guardando alle responsabilità che tra poco toccheranno ai nuovi amministratori di Milano.
  2. Parlo non tanto come professore, appartengo al raggruppamento di Economia e gestione dell’impresa, mi occupo da anni di “modelli organizzativi” e potrei cavarmela con un contributo diciamo così metodologico. Ma in realtà mi sono impegnato con Beniamino Piccone a fare una sorta di testimonianza personale. Raccontando brevemente cose che non dico spesso. Rispetto ai temi fin qui toccati, soprattutto in ordine ai consigli di amministrazione del sistema delle aziende di servizio e delle partecipate, io affronterò piuttosto il nodo che mi sembra centrale e cioè quello della qualità manageriale delle line operative dell’Amministrazione, cioè la dirigenza apicale della PA.
  3. Ho fatto, per l’appunto, per più di venti anni il direttore generale nelle pubbliche amministrazioni (insieme anche ad esperienze di azienda).  Ho vissuto quelle vicende con senso forte di appartenenza, la bandiera dietro il tavolo era un simbolo altamente responsabilizzante.  Ma credo influissero anche alcune culture di una generazione che credeva nel fatto che fosse necessario “riformare lo Stato”. E che proprio attorno a questo tema (partecipare a progetti di cambiamento, elaborare il rinnovamento, eccetera) aveva qui un modo di costruire un percorso poi destinato anche alla cooptazione, ma attorno a sperimentati rapporti con maestri, con figure capaci di produrre pedagogia civile. Lezione viva – per chi credeva nelle riforme dello Stato e della politica – venivano da un Massimo Severo Giannini o da un Norberto Bobbio, per esempio. E non era dunque per caso se una figura come Giuliano Amato, assunta una responsabilità di governo a metà degli anni ’80, scegliesse tra i giovani partecipanti a quella stagione elaborativa qualcuno cui affidare per altro l’attuazione di un programma di trasformazione di competenze “dormienti” alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, un progetto che appunto ebbi l’incarico di realizzare da “tecnico” come partner di una personalità giuridica – che al prof. Onida dice certamente molto – come Enzo Cheli. E poi chiamato come direttore generale per metterlo in esecuzione.
  4. Non si veniva nominati direttori generali per concorso, la verità va detta,  ma vi erano processi di selezione della classe dirigente pubblica che rispondevano almeno in parte a parametri che oggi possiamo rubricare come virtuosi. Certo, quel “riformismo” fu in parte attuabile, in altra parte si arenò per causa di una burocrazia ancora “monumento del no” e per causa di una politica luci e ombre, che avanzava verso la fine del secolo come un gambero. Abbiamo fatto in tempo a vedere la differenza tra teoria e pratica, a vedere la compresenza di patologie e fisiologie negli apparati pubblici. Ma una regola ancora guidava il rapporto tra alta amministrazione e politica: quella dell’”io propongo tu decidi”. Netta separazione, ma anche obbligo di negoziato per far convergere dossier e decisione. Ho lasciato quella carriera all’inizio del nuovo secolo, per fare un concorso a cattedra che mi confermasse un principio di libertà e di indipendenza personale, perché il nuovo ceto politico con cui – dopo una prima felice legislatura – mi ero misurato (qui nel sistema regionale, come coordinatore dei direttori generali del Consiglio regionale della Lombardia ) mi aveva spiegato che la regola era cambiata: “io propongo quello che tu mi dici di proporre e poi tu decidi”. Fine della “conflittualità temperata dentro le procedure” e costruzione del vertice amministrativo non come fattore di equilibrio ma come cane da guardia silente.
  5. Pongo dunque la questione delle regole e delle prassi attorno a cui oggi si svolge – nella PA centrale e territoriale – l’ingaggio e la condizione di lavoro del management che ha la stragrande responsabilità di assicurare i profili costituzionali di “imparzialità e buon andamento” delle amministrazioni, profili che hanno ispirato questo convegno riferito al caso Milano. Regole e prassi che sono state alcuni anni fa modificate da una legge che ha assicurato alla politica il diritto di poter rimuovere dall’incarico una “burocrazia” eventualmente giudicata incapace o frenante. Una assicurazione chiamata “spoil system” che – lo dico pensando alle motivazioni a suo tempo addotte dal ministro Franco Bassanini  (il presidente Onida sa che si tratta di persona che viene dalla sua stessa formazione e quindi sa la buona fede delle motivazioni all’origine) – partito come provvedimento “positivo” si è trasformato in un passaporto per la politica (di destra, di sinistra o di centro) di togliere di mezzo buoni e cattivi, per piazzare i propri “nominati”. In una stagione in cui la politica ha pensato di trasferire sull’onere pubblico il costo di personale (attivisti, amici, collaboratori, eccetera) a suo tempo pagato dai partiti.
  6. Ciò ha significato introdurre una marea di incompetenti, spesso privi di qualunque omogeneità con le culture giuridiche ed economiche proprie dell’amministrazione (naturalmente non dico che la PA sia oggi fatta solo di incompetenti, dico che quelli bravi vivono con disagio e spesso frustrazione il loro ruolo).   A questo punto – negli alti ranghi – queste nuove figure di dirigenti risultano strapagate rispetto ai modesti compensi che erano usuali in precedenza anche per gli alti gradi della PA. Io ho avuto per esempio dieci anni di servizio alla Presidenza del Consiglio, confermato da dieci governi e poi uscito volontariamente (anche a causa delle basse retribuzioni)  per altra scelta,  e sono uscito con 40 milioni di lire di liquidazione, pari a 20 mila euro, dunque pari a una retribuzione, fino alla metà degli anni ’90, di 4 milioni di lire al mese pari a 2 mila euro di oggi; i pari livello di oggi hanno aumentato fino a dieci volte le retribuzioni, non sta a me dire se è aumentato di dieci volte il loro grado di competenza, responsabilità, affidabilità e indipendenza.
  7. Ora, spostandoci sul profilo generale della questione, io mi rendo conto che la cultura del NO non è una buona leva. Può essere talvolta una “legittima difesa”. Ma saldare il No puramente antagonista di certa politica al No burocratico provoca quasi sempre paralisi. D’altra parte c’è il SI solo per gli amici e il Si a condizione di contropartite. Regolato da alti funzionari che hanno un atteggiamento reverenziale nei confronti del vertice politico che li ha messi a quel posto. Se posso dire in una battuta, io ho il ricordo nitido di avere quasi sempre “litigato” con i miei presidenti del Consiglio. Ho scritto anche qualche episodio. Naturalmente la parola “litigato” è ricondotta alle forme di una procedura possibile di rapporto di conflitto temperato tra un funzionario e un vertice politico: lealtà, correttezza nel rapporto riservato, argomentazione all’interno della legge, sforzo di individuare soluzioni alternative. E’ evidente che – sia a Roma che a Milano – sono necessarie soluzioni regolate della responsabilità e dalla cultura della valutazione a cui si intende preparare una classe dirigente. E qui – in ordine soprattutto alla formazione critica – si aprirebbe un capitolo ampio e importante sul ruolo dell’università, che al riguardo offre soluzioni disomogenee e troppo dipendenti dalle qualità individuali dei docenti e non “di sistema”.
  1. Su questo punto della valutazione si apre comunque un altro capitolo doloroso. La valutazione in Italia non si riesce a svolgere sui processi. E per cedimenti nei confronti delle resistenze individuali a farsi seriamente valutare – resistenze difese sciaguratamente dai sindacati – la valutazione è diventato un piccolo atto burocratico che serve quasi sempre a legittimare la scomposizione dello stipendio. Ne ho fatte a bizzeffe e malgrado sforzi di innovazione, malgrado qualche risultato metodologico, mi sono quasi sempre vergognato di questa condizione, anche subendola. Così viene a mancare la gamba dell’accountability a cui Paolo Bertaccini si è prima riferito invocando una delle soluzioni per i guai che stiamo qui denunciando.
  2. Vorrei anche fare una chiosa “ambrosiana” al tema del rapporto di una società con il lavoro nella pubblica amministrazione. La presenza qui di Piero Bassetti  – che sta animando una Iniziativa per il 51 che è un fattore di innovazione nella campagna elettorale a Milano – stimola anche a lanciare un tema che è quello della “preoccupazione” della società civile, diciamo pure della borghesia, di una città propriamente borghese, verso il lavoro pubblico. Un po’ ha contato per i milanesi il lavoro nella propria amministrazione locale, ma quando essa ha perso il suo bel carattere “asburgico”, la sua nota competenza ed efficienza, quella borghesia non ne ha proprio fatto una questione di vita o di morte. Non ha tolto il voto a chi ha contribuito a mortificare la qualità e l’efficienza dell’amministrazione. Insomma ha lasciato fare. Con lo stesso spirito con cui si è da sempre disinteressata circa la priorità – sarebbe certamente una priorità per la borghesia francese o inglese o tedesca – di dare i propri figli ai lavori nelle carriere dello Stato. Per dirla in un solo aneddoto mia madre – figlia di un perfetto del Regno (a Milano) e sorella di un generale di Corpo d’armata(il 3° Corpo d’armata a Milano), che dunque doveva pur sapere che cosa fosse lo Stato –  il giorno del mio trasferimento per chiamata da un’azienda pubblica (la Rai) alla Presidenza del Consiglio dei Ministri mi ha telefonato per dirmi: “ragazzo mio ma dove sei finito?”. 
  3. Sulla “cura” delle società civili europee per il lavoro nello Stato – inteso come “il proprio Stato” – c’è una sterminata letteratura e una aneddotica anche divertente (in Gran Bretagna era famoso un “fumetto” venduto in edicola Yes minister sulla figura di un alto funzionario, un capo di gabinetto, che dicendo sempre yes minister in realtà imponeva l’interesse generale al politico, abilmente subendolo ma in realtà creando argomentazioni di equilibrio) che in Italia ha seguito una storia a se stante su cui hanno molto pesato le vicende conflittuali nord-sud.
  4. Quello che interessa al nostro dibattito è tuttavia cogliere meglio – proprio nel senso del titolo che è stato dato all’incontro – cosa sia “la norma”. Le nomine di “classe dirigente” hanno criteri di sistema da sempre:
          cooptazione (ampiezza del novero di chi copta relazionata a importanza dell’incarico, possibilmente con decisione non monocratica);
          rapporto tra oggettiva condizione relazionale e rapporto fiduciario (metà precedente, metà generata nel potere di nomina);
          “paletti formali” rispettati: precedenti omogenei e finalizzati alla competenza nel ruolo, titoli veri e non fasulli (i cv pieni di docenze universitarie finte, fatte di qualche ora di lezione, senza pubblicazioni scientifiche, sono all’ordine del giorno); argomenti a cui si è riferita Daniela Bollino nel delineare condizioni razionali di base per la selezione;
          a cui aggiungerei anche regole di ingaggio con la capacità di fissare obiettivi raggiungibili ( e quindi valutabili).
  1. Insisto sul trattamento di questo tema all’interno della nomina dei dirigenti, come una priorità assoluta circa il buon andamento. Mi rendo conto che i media e quindi l’opinione pubblica sono più mobilitati attorno al tema delle nomine di amministratori di enti vigilati e partecipati (il cosiddetto “sottogoverno”), ma rispetto a cui – salvo il ruolo di presidente, ad e dg – quasi sempre i CdA sono un po’ “panna montata”, cioè non hanno grande influenza gestionale e hanno un carattere meramente compensatorio per mancato ruolo politico o per insufficiente retribuzione nel ruolo politico. Così da rendere molto apprezzabile il decreto limitativo che a suo tempo è stato promosso al riguardo dall’allora ministro degli Affari regionali Linda Lanzillotta.
  2. Le nomine apicali della gestione amministrativa hanno seguito dunque negli anni tre diversi filoni metodologici:
·         il concorso, con esiti misti tra qualità e non qualità ed esiti misti tra raccomandati e non raccomandati;
·         il piazzamento puramente politico a scopo fiduciaristico;
·         la selezione di merito all’interno di aree interessanti per la formazione di percorsi dinamici in grado di creare innovazione negli ambiti di operatività pubblica.
Questi filoni hanno creato equilibri e squilibri, in cui – è stata una mia vecchia tesi – un bravo dirigente, per far funzionare davvero la macchina, ha sempre saputo di portarsi in spalle, 24 ore su 24,  un collega, come Enea con il padre Anchise. Ma malgrado questo appesantimento, il sistema, non sempre e non dappertutto, ha prodotto anche qualche risultato. Ora credo che l’equilibrio sia fatalmente arretrato e che la rarità dei concorsi ha anche alimentato l’idea che l’ingresso nella PA avvenga solo per oscure raccomandazioni senza altra possibilità. Cosa all’origine gravissima e foriera di trasferimenti “dentro” di culture sociali sbagliate sul lavoro pubblico. Letta con ottiche meridionali (che stanno arrivando anche al nord) ciò assume caratteri sinistri.
  1. E’ diventato non impossibile ma assai meno frequente vedere un alto dirigente rispondente – essendo l’interesse del sistema un equilibrio vero tra grado di relazionalità e grado di indipendenza critica – a questi tre requisiti:
         essere un punto di vera mediazione tra politica e amministrazione, capace di connessioni con una certa indipendenza;
          essere, secondo la costituzione, fattore di buon andamento e di imparzialità, dunque un punto di mediazione tra interesse delle istituzioni e interesse della società;
          essere proattivo nel promuovere la trasparenza (che nella mia esperienza ha significato la rivoluzione della legge 241 cioè la fuoriuscita dalla cultura “del segreto e del silenzio”) : procedura e cultura del controllo e dell’accesso.
  1. E’ dunque uno sguardo generale alla ricomposizione di regole di qualità nella delineazione del management pubblico a cui deve tendere il momento partecipativo che c’è attorno alla campagne elettorale in questo momento a Milano con una tensione locale ma anche nazionale. E’ importante tornare a dare speranza e fiducia ad operatori pubblici depressi e smarriti. E’ importante assicurare i cittadini che le amministrazioni – che loro pagano per avere servizi – non sono una patologia dominata dalla politica.