Nel dibattito sul pezzo di Maltese: il “Carducci” a Milano negli anni ’60
Il liceo Carducci a Milano negli anni ‘60
Nella rete degli ex-allievi del Liceo Carducci è esplosa una polemica a proposito di un breve testo sul Venerdì di Repubblica a su via Padova, ricordata (da un ex-carducciano come Curzio Maltese) ai tempi in cui quel quartiere era bonario perché “socialista”. Pro e contro la rete impazza. Ritrovo la penna (di chi era stato comunque nel 1965 direttore del giornale del liceo e nel 1966 presidente dell’associazione degli studenti) per dire la mia.
Milano 9 marzo 2010
Il mio Carducci è quello degli anni ’60. Il tema di questa discussione – sollevato dalla nota di Curzio Maltese – non è affatto banale. E non investe un aggregato casuale che vuole soltanto ritrovare i vecchi amici delle gite al Tonale o a Camogli (che pure ci sta). Cinque anni di iperfrequentazione (classe, scuola, dinamiche associative, adolescenza, amori, politica, sport, quartiere) non sono gli stessi a Londra o a Partinico. E nemmeno tra i licei classici “borghesi” della città (tutti e quattro al centro, Beccaria, Berchet, Parini e Manzoni, a parlare con la erre e le ragazze in blusa bianca e filo di perle) e quel liceo-cerniera che obbligava almeno sei classi sociali (borghesi di tradizione, neo-borghesi, piccolo borghesi, inurbati, periferici radicati, periferici immigrati) a elaborare una loro piuttosto comune “milanesità”.
Ricordiamoci che tutti loro avevano a che fare con un sistema di insegnamento di qualità. Con la storia greca e la filosofia tedesca, con le meravigliose e flemmatiche battute di un prof. Onorato (“ogni sconfitta della nazionale di calcio è un passo avanti verso la civiltà”) e il rispetto scientifico che i ragazzi avevano per quei professori a cui riconoscevano “scientificità”. Ne nacque un’idea della storia, un’idea della città, un’idea dell’educazione, un’idea della partecipazione. Pur divisi (io tra riformisti, ma amicissimo di chi doveva divagare poi nei sentieri dell’eversione; i cattolici tra gli integralisti e i post-conciliari; laici e monarchici – eleggemmo presidente dell’ASC Guido Aghina – persino qualche appassionato fascistello) ma dentro l’idea del confronto aperto, del rapporto tra intelligenza e non-intelligenza, in un certo senso capaci di cogliere – in quegli anni ’60 – non solo la crescita dei consumi ma anche la centralità dei diritti civili (caso Zanzara), la modernità delle culture della città (editoria e design), i temi della giustizia nel mondo (perché leggevamo il Giorno, non il Corriere). Maltese ha semplificato questa atmosfera – possibile solo per il melting che il Carducci rappresentava – con l’espressione “Milano socialista”, che anche se impropria è un comun denominatore che legava quell’epoca a quella del primo dopoguerra e, ancora più in là, a quella dei primi del secolo. E dunque un’espressione accettabile, anche per chi socialista non era, anche per chi non vuol dire di esserlo stato (in adesione magari astratta), anche per chi contavano altre specifiche identità. I socialisti eletti a Milano erano Lombardi, Caleffi (testimone di lager nazisti), il giovane Craxi figlio del prefetto della liberazione di Como. Buoni riferimenti un po’ per tutti. E lo erano da sempre i sindaci (poco importa se di questa o quella corrente del socialismo) perché a Milano tra i comunisti e i democristiani la città era governabile largamente solo a mediazione di una robusta posizione di equilibrio. Capace di tollerare le tradizioni non in forma settaria. E quel liceo era appunto scuola anti-settaria.
Ciao a tutti
Stefano Rolando