Milano, la politica decide di agire dietro le quinte (Mondoperaio,n.2/2016)
Le scelte del CS e del CD a favore di due ex dg del Comune, Giuseppe Sala e Stefano Parisi
Giuliano Pisapia è stato sindaco scelto fuori dai partiti ma appartenente alla politica.
Ora i partiti si riappropriano del diritto di scegliere, ma non figure implicate direttamente nella politica.
Stefano Rolando
Dunque, anche a Milano, città che ha incarnato le grandi culture politiche dell’età industriale e che ha provato anche a sperimentare più “leggere” politiche post-industriali, si va dando definitiva sepoltura alle categorie politiche del ‘900. Quelle che a lungo hanno fatto fanno da cornice a discussioni, posizionamento, partecipazione e che oggi – dominante il marketing elettorale – subiscono una doppia frattura.
Si parla qui soprattutto delle categorie di “destra” e “sinistra” su cui Giorgio Gaber, più di venti anni fa, cominciava a ironizzare. Ma si parla anche della natura di ciò che si è considerato a lungo “ceto politico”.
La prima frattura riguarda il punto di coerenza nel rapporto con gli elettorati. Attorno a cui la trasformazione della mobilità (sociale, territoriale, professionale, famigliare, eccetera) va producendo una flessibilità prima impensabile. La seconda frattura riguarda il punto di coerenza con i percorsi dei candidati. Attorno a cui vale sempre più il principio che le alleanze che formano l’opzione contano più delle storie personali nel definire qualcuno di destra o di sinistra.
Addio cursus honorum
Mentre la prima frattura la si capisce piuttosto bene tanto da considerare quella flessibilità un valore per la democrazia, perché spinge gli elettorati a un rapporto più critico con il presente, con le valutazioni, con l’identificazione delle speranze; la seconda è meno convincente e merita di essere meglio analizzata. Essa contiene almeno tre elementi che hanno in comune fattori di “finzione” del ruolo che, secondo i vecchi manuali, dovrebbero appartenere al catalogo dei funghi velenosi:
· i partiti tradizionali (nazionali, territorializzati, posizionati con qualche radice ideologica, gestiti da una mediazione tra democrazia congressuale e democrazia dello spettacolo) conservano, è vero, un certo ruolo di formazione delle decisioni, ma a condizione di agire (contro le tradizioni) dietro le quinte e muovendo opzioni che non pescano nel loro gruppo dirigente;
· i media vedono un loro crescente ruolo nel processo di consacrazione non tanto nel favorire chiarimenti sui programmi, ma attraverso soprattutto la formazione delle liste dei supporters (ciò che traduce l’invalso format della democrazia americana regolata dal sostegno delle “celebrities”);
· i candidati non sono più tenuti a raccontare la loro biografia allo stesso modo con cui essa si raccontava quando valeva, come principio di scelta, la razionalità del “cursus honorum” (non facevi il sindaco se prima non avevi fatto l’esperienza di assessore e non facevi l’assessore se prima non avevi smazzato il lavoro delle commissioni consiliari e non facevi il consigliere se prima non avevi fatto il tirocinio nelle periferie); ma consegnano brandelli della loro storia funzionali al modo con cui confezionare le liste dei supporters e quindi risalire così (nel gioco delle apparenze) al punto di equilibrio condiviso dall’invisibile corte giudicante fatta da un impasto tra partiti, lobbies e guru.
La scelta tecnocratica
Insomma la selezione della leadership è in evidente trasformazione e segue tuttavia modelli internazionali simili. Pare non scandalizzare più molti se, nell’immenso cambiamento glocale, le regole della “prima Repubblica” siano definitivamente al tramonto. Si dovrebbe tuttavia almeno prendere atto di qualche anomalia, che potrebbe essere una delle componenti che alimenta il crescente astensionismo generato dal disinteresse e dal qualunquismo, ma anche generato dalla caduta di regole sulla politica intesa come qualità della democrazia.
Prendiamo appunto la sfida a Milano che si profila tra due ex-direttori generali dell’amministrazione comunale, Beppe Sala (candidato del centrosinistra, scelto dalle urne) e Stefano Parisi (candidato del centro destra, scelto a tavolino). Stefano Folli li ha definiti “simili e speculari”. Carlo Tognoli, a caldo, ha dichiarato: “Parisi e Sala sono due persone brillanti disponibili al momento giusto. I partiti ormai sono finiti, contano i loro surrogati: i leader».
La selezione ci dice che la misteriosa convergenza di fattori e soggetti decidenti ha orientato la scelta sul fatto che i candidati non dovessero essere “politici” ma tecnici “politicamente relazionati”. Per la verità la mission di Milano parrebbe ora di grande natura politica e relazionale (verso la sua complessità interna, verso la nazione, verso il mondo). Cioè con la ricerca di qualcuno capace di dare veste alla coerenza di questi racconti, come lo è stato per Barcellona e per Berlino quando sono state investite da una simile opportunità. E’ lecito chiedersi perché, per questa missione così squisitamente politica, la politica abdichi a favore di chi ha il compito di fare piuttosto alte istruttorie. Tenendo conto che nel caso di Napoli e Roma, malgrado condizioni ambientali peggiori e per Roma addirittura drammatiche, in cui bisogna tentare di difendere i caratteri identitari locali, la politica ha cercato di “tenere”, cioè sta tentando di non abdicare; pena, in quei casi, un lungo eclisse. La risposta più frequente è disarmante: perché nei ranghi della politica, si dice, non ci sarebbe più nessuno con quella fisionomia. Chi legge provi a fare nomi e verifichi così se la cosa è vera. La seconda risposta è sociologica: a Milano adesso prevarrebbe l’opinione di chi vuole amministratori che “facciano funzionare” città e servizi, punto e basta. Mentre i politici sono generalmente sospettati di essere poltronisti autoreferenziali e chiacchieroni. Se aggiungiamo la candidata di M5s, la signora Bedori, che si presenta come casalinga, si capisce che Milano aiuta gli sceneggiatori di Maurizio Crozza.
Nella storia dei sindaci di Milano, molti sono quelli che venivano dalle professioni “liberali”, ovvero che avevano una propria caratura professionale. Ma anche in questi casi – compresi gli ultimi due, Moratti e Pisapia – la loro caratura politica era almeno di pari rilievo. Proprio ora la regola viene interrotta. Quale sarà la prossima tappa se non l’ingresso ufficiale in una incognita “terza Repubblica” se a fronte del dare veste politica a una città che potrebbe tirar fuori l’intera Italia dalla crisi tutti pescano rigorosamente fuori dalla politica?
Dopo di che a guardare i veri percorsi di formazione personale dei candidati, colpisce un certo ribaltamento. Per Sala – non c’è bisogno della dichiarazione fatta da Berlusconi (“uno dei nostri”) ormai segnata dalla polemica elettorale, basta riconoscere in chiaro i passaggi reali – il percorso è stato di sponda con i soggetti del sistema degli interessi che hanno fatto da scenario nella vicenda dominante del centrodestra a Milano nel corso della “seconda Repubblica”, quindi anni ‘90 (Tronchetti, Ermolli, Moratti, Formigoni). Per Parisi il percorso nasce con l’esigenza dei socialisti riformisti (Gianni De Michelis e poi anche Giuliano Amato) di avere nella seconda metà degli anni ’80 tecnici strategici per una possibile riforma dello Stato cercando equilibrio tra economia e gestione della relazione tra istituzioni e sistema degli interessi. Un profilo che poi matura nella scelta di appartenere più al sistema degli interessi che alla politica (Confindustria e poi la stessa direzione generale del Comune di Milano con sindaco un esponente di Confindustria). Insomma, secondo le vecchie formule Parisi è formato più a sinistra di Sala, ma entrambi hanno cavalcato il “relazionamento” con la politica e con i decisori con il convergente realismo di non preferire il rischio di stare dalla parte degli sconfitti. Come Sala comprende che l’elettorato non è un compagnia finanziaria che investe e parla di “cuore che batte a sinistra”, così Parisi dimostra che vuole tutti i rubinetti elettorali aperti (compreso Ncd) dichiarando come prima cosa: “intorno al mio nome si è coagulato il consenso di tutte le componenti dell’area che è oggi al governo della Regione Lombardia».
Si tratta, insomma, di figure omologabili da una relazione ininterrotta con i poteri che i due schieramenti oggi scelgono nell’idea che l’elettorato che fa la differenza a Milano non darebbe la maggioranza – né a destra né a sinistra – a un candidato “valoriale” espressione di scelte che corrispondano alle vocazioni ideali della destra e della sinistra. Dichiarando così finito il ciclo “romantico” di Pisapia ma ritenendo pure improponibili tanto un nuovo ciclo lepenista (Salvini alla fine ha accettato di non avere una rappresentanza esplicita della sua proposta elettorale) quanto un nuovo ciclo solidarista (pur lasciando vivo per Majorino, in minoranza, questo cantiere). Tanto che la fine del ciclo unitario già mette in tensione movimenti post-primarie della sinistra-sinistra che Il Manifesto, per esempio, dando conto di liste, gruppi, cespugli, insorgenze e quant’altro, chiama “I turbamenti della sinistra milanese”. Si vedrà se anche sulla destra qualcuno isserà bandiere anti-tecnocratiche.
Il terzo candidato
Il terzo candidato che si prepara da un certo tempo a stare in partita a Milano merita una riflessione a sé stante. Corrado Passera è un cattolico-liberale, già elettore dell’Ulivo, che ha equilibrato contesti politico-imprenditoriali piuttosto orientati a sinistra (dagli ambienti editoriali come l’Espresso alla lunga esperienza in Olivetti con De Benedetti, dal risanamento delle Poste maturato nel centrosinistra al comando della più forte banca italiana, Intesa-San Paolo, equilibrandosi con i poteri effettivi esercitati da Bazoli). Arriva alla politica con Monti, rinuncia al centrismo ormai povero di voti e opta per il centrodestra milanese indipendente che prende a bersaglio Renzi ancor più che i populisti. Al di là delle sfumature con cui lo stesso Passera avrà interpretato i suoi legittimi step, è un fatto che si ritrova ora nello stesso segmento di cultura politica di Sala e Parisi. Vedremo se resterà in partita o se accetterà di giocarne un’altra, magari altrove oppure in ticket con Parisi, visto l’evidente rischio di far perdere voti decisivi al CD a cui avrebbe scelto di appartenere e rispetto al cui elettorato avrebbe forse convenienza di fare un gesto generoso.
Elementi emblematici a Milano
Ecco perché nelle cose che stanno accadendo a Milano ci sono elementi da considerare emblematici
Dalla fine degli anni ‘50 si dice che le soluzioni per il Comune di Milano (e si diceva anche per il CdA della Rai) hanno spesso senso di anticipazione di soluzioni politiche nazionali. Non è detto che l’attuale caso si collochi in questa scia. Ma resta il fatto che:
Dalla fine degli anni ‘50 si dice che le soluzioni per il Comune di Milano (e si diceva anche per il CdA della Rai) hanno spesso senso di anticipazione di soluzioni politiche nazionali. Non è detto che l’attuale caso si collochi in questa scia. Ma resta il fatto che:
· i tre schieramenti (centrosinistra, centrodestra ufficiale e centrodestra indipendente) scelgono una rappresentanza relazionata con la politica ma di natura evidentemente tecnocratica;
· rispetto agli orientamenti fondamentali delle scelte sul rapporto tra risorse e priorità i tre candidati pensano probabilmente cose assai simili;
· rispetto agli interessi del governo Renzi due di loro (Sala e Parisi) potrebbero anche dichiarare di votarlo e il solo Passera sceglie la netta differenziazione interpretando una parte degli umori dell’elettorato del CD e per mantenere in vita la repulsione montiana contro il giovanilismo annuncista e un po’ pressapochista del premier;
· rispetto ai partiti di riferimento (PD per Sala; FI, Lega, Ncd e FdI per Parisi) i candidati sono funzionali a dare loro ancora tempo per una evoluzione locale non ancora pronta ad assumere in proprio la governance; mentre Passera, che avrebbe forse potuto prefigurare una sorta di rifondazione della politica forse immaginando un futuro “partito della ragione”, diciamo di tipo liberale, capace di mettere in minoranza le opzioni populiste e demagogiche, poi ha confuso questa ipotesi ficcandosi non si sa più dove con la sua campagna violenta sulla sicurezza in cui a Milano, città che non ha avuto un graffio nei sei mesi di Expo, viene proposta (c’è chi dice solo per guadagnare il sostegno a lungo negato di Salvini) una condizione apocalittica di rischio.
Chi vince, chi perde
Milano confeziona le premesse di un nuovo ciclo caratterizzato da un certo pragmatismo politicamente più che flessibile rappresentato da figure professionali e non di apparato. Che potrebbe essere accresciuto da risultati di successo di liste municipalistiche, possibili – anzi necessarie – sia nel CS che nel CD.
Pisapia intanto perde, pur con un esito onorevole della candidata sconfitta che aveva l’obiettivo di difendere il suo centrosinistra valoriale con l’aggiunta di una interpretazione femminile della guida futura della città. Ma anche una candidata che concedeva al trattamento tecnocratico delle candidature avversarie il fatto che anch’essa proviene da una formazione competente in materia di interessi e valori finanziari. Cioè tentando un adattamento al modello “realistico” che PD e centrodestra hanno opzionato, ma verniciandolo ancora da arancione.Pisapia torna a fare i conti con il problema maggiore che aveva già nel 2011, quello dei numeri, quel fatidico 51% che era stato la stella polare della sua campagna elettorale. Ed è forse il presentimento di questa condizione minoritaria (non rispetto a lui stesso, ma rispetto al suo schieramento in età renziana), che ha ispirato il convincimento di ritirarsi e di dare un tempo lungo per cercare di trovare soluzioni, forse non fidandosi delle potenzialità maggioritarie nemmeno di Sala. Con Pisapia comunque si era introdotto il principio che sindaco di una città del rilievo politico nazionale come Milano può essere una personalità non scelta dai partiti, ma pur sempre appartenente alla politica. Ora, il passo successivo corregge quella discontinuità: una figura scelta dai partiti, ma fuori dalla politica, ovvero per meglio dire non implicata nella politica.
Per adesso allora vince Renzi, che è riuscito anche a mantenere una indispensabile posizione di prudenza (non è il suo tratto più evidente) e, sempre per ora, vince anche Berlusconi ormai costretto dai numeri a giocare un po’ d’astuzia e un po’ di sponda (a sua volta facendo qualche violenza alla sua natura). Mandano a Milano “ambasciatori” senza aprire conflitti personali interni ai loro apparati.
Gli azionisti maggiori della politica della “seconda Repubblica”, insomma, vincono, pur pagando il prezzo di tenere i loro partiti in ombra. La chance maggiore di Parisi è di poter avviare quel cantiere di rinnovamento programmatico del CD che a Milano ha anni di ritardo, ma non sarà semplice per la componente populista e xenofoba accettare l’inevitabilità di una Milano europeista e globale. La sua difficoltà maggiore è ora rappresentata dal restare in campo di Passera. La difficoltà di Sala è sui due fronti: Parisi trattiene un elettorato centrista che avrebbe potuto spostarsi su di lui e quindi sul CD l’attrattività di Sala è minore; ma deve fare scelte e annunci oculati e coinvolgenti per mantenere attivo l’elettorato più tradizionalmente di sinistra che finirà per non essere tutto solidale. Dunque la partita è aperta per tutti.
Milano cerca così una soluzione tenendo a bada chi in questi tempi ha – anche televisivamente – gridato di più: grillini, neorazzisti, antieuro. E quindi ricostituendo – appunto come ai tempi della centralità democristiana – una sinistra perdente e una destra inservibile. Questo schema favorisce, anche se non di molto, Sala (tra i più noti indecisi potenziali tra Sala e Parisi, Sergio Scalpelli proprio su queste note taglia corto con le indecisioni e sceglie Sala). Così Milano pensa di salvare, nelle condizioni possibili, il mandato assegnatole da Mattarella: “speranza Milano, capitale europea e motore dell’Italia“.
Appunto, nelle “condizioni possibili”. In cui i partiti da un lato e il civismo pragmatico della borghesia urbana (questa volta restia a sbracciarsi) hanno scelto – accettando l’idea che la politica è sempre meno simpatica alla gente – di fare un laboratorio “performante” (è l’espressione usata dall’inizio da Piero Bassetti, che con il suo realismo non ha remore, se serve alla causa municipalistica, a qualificare come post-democristiano lo spazio politico di governo) per mantenere le energie milanesi sul “fare” e per spostare, caso mai, l’appuntamento con la politica al 2018.