L’esperienza dei master universitari
Nel 2001 – entrato di ruolo all’Università IULM – Stefano Rolando ha trasferito un lungo know-how nel campo della comunicazione pubblica alla progettazione di un prolungamento dell’attività didattica, dal 1986 sperimentata in vari atenei in Italia e in Europa sulla materia in corsi di base, nell’ambito della specializzazione post-laurea.
>> nel 2002 la prima edizione del MASPI (Master universitario di I° livello in Management della comunicazione sociale, politica e istituzionale);
>> nel 2003 la prima edizione del MAREC (Master universitario di II° livello in Management delle relazioni esterne e della comunicazione nelle P.A. e nei servizi di pubblica utilità).
>> il certificato di comunicatore pubblico ai sensi della legge 150/2000 e succ. reg
>> il diploma universitario di primo livello ai sensi del DM N. 70/2004,
>> 60 crediti formativi universitrari per l’accesso alle lauree specialsitiche
– COM.PA-Salone della comunicazione e dei servizi al cittadino e alle imprese
– FORUM PA
– AICOP (Associazione italiana consulenti politici e public affairs)
– CITTADINANZATTIVA
– ASSOCIAZIONE ITALIANA COMUNICAZIONE PUBBLICA E ISTIUZIONALE
– RIVISTA ITALIANA DI COMUNICAZIONE PUBBLICA (FrancoAngeli editore)
– OSSERVATORIOSULLA COMUNICAZIONE DI PUBBLICA UTILITA DI FONDAZIONE UNIVERSITA’ IULM
– CIVICOM-RETE PROFESSIONALE PER LA COMUNICA PUBBLICA
E’ allo studio una collaborazione con la George Washington University per consentire ampoliamento di esperienze didattiche, nel campo della comunicazione politica, nella capitale degli USA.
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Scomposizione del discorso di insediamento di Barack Obama secondo la retorica della comunicazione pubblica.
Storia, valori costitutivi e identità nazionale.
Le fonti della politica di rinnovamento interno e di rinegoziato della pax americana.
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per ricostruire una grande America
Oggi mi trovo di fronte a voi,
umile per il compito che ci aspetta,
grato per la fiducia che mi avete accordato,
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cosciente dei sacrifici compiuti dai nostri avi.
Ringrazio il presidente Bush per il servizio reso alla nostra nazione, e per la generosità e la cooperazione che ha mostrato durante questa transizione.
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Barack Hussein Obama ha rievocato, in una sola frase, i valori e le scelte compiute dai padri fondatori degli Stati Uniti d’America, consapevole di avere sulle spalle non solo il peso della rinascita di una nazione (nation), ma anche la responsabilità di chiudere, con la sua elezione alla casa bianca, un percorso iniziato nei primi anni 60 con Martin Luther King, Kennedy e Malcom X.
Obama si prende consapevolmente carico, anche, di un nuovo periodo storico che dovrà necessariamente cambiare alcune prospettive rispetto al passato, rimanendo però sempre consapevoli di essere “ come nani sulle spalle dei giganti[Bernardo di Chartres]” quindi grazie ai “sacrifici compiuti dai nostri avi[Barack Obama]” è possibile “vedere” più lontano, perché ”ogni gesto di innovazione si è servito di un gigante precedente[UmbertoEco]”
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Quarantaquattro americani hanno pronunciato il giuramento presidenziale.
Queste parole sono risuonate in tempi di alte maree di prosperità e di calme acque di pace. Ma spesso il giuramento è stato pronunciato nel mezzo di nubi tempestose e di uragani violenti. In quei momenti, l’America è andata avanti non solo grazie alla bravura o alla capacità visionaria di coloro che ricoprivano gli incarichi più alti, ma grazie al fatto che Noi, il Popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e alle nostre carte fondamentali.
Così è stato finora. Così deve essere per questa generazione di americani.
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Nel suo discorso di insediamento alla casa Bianca, il 44° Presidente degli Stati Uniti d’America volge lo sguardo al passato. Dal 1789 l’ ”America” ha vissuto momenti vaghi, incerti e contraddittori; ed è proprio nei momenti più difficili che, afferma Obama, “l’America è andata avanti”. Come Franklin Delano Roosevelt tre quarti di secolo fa, l’entrata in carica di Barack Hussein Obama avviene all’interno di uno scenario disastroso. Il modo in cui l’ “America” riuscirà a gestire una crisi di tale livello dipenderà non solo dalla «bravura» dello stesso Obama, ma molto anche dalla capacità dei suoi stessi cittadini di recuperare e rimanere “fedeli agli ideali” e alle “carte fondamentali”, presupposti essenziali per tenere insieme il complesso patchwork socio-culturale americano. Con questa scelta Obama colloca il suo discorso dentro una grande tradizione americana: quella del riscatto collettivo insieme a quello individuale, in poche parole, il vero e proprio sogno americano.
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E’ ormai ben chiaro che ci troviamo nel mezzo di una crisi.
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La nostra nazione è in guerra contro una rete di violenza e di odio che arriva lontano.
La nostra economia si è fortemente indebolita, conseguenza della grettezza e dell’irresponsabilità di alcuni, ma anche della nostra collettiva incapacità di compiere scelte difficili e preparare la nostra nazione per una nuova era. C’è chi ha perso la casa. Sono stati cancellati posti di lavoro. Imprese sono sparite. Il nostro servizio sanitario è troppo costoso. Le nostre scuole perdono troppi giovani. E ogni giorno porta nuove prove del fatto che il modo in cui usiamo le risorse energetiche rafforza i nostri avversari e minaccia il nostro pianeta.
Questi sono gli indicatori della crisi, soggetti ad analisi statistiche e dati. Meno misurabile ma non meno profonda invece è la perdita di fiducia che attraversa la nostra terra – un timore fastidioso che il declino americano sia inevitabile e la prossima generazione debba avere aspettative più basse.
Oggi vi dico che le sfide che abbiamo di fronte sono reali. Sono serie e sono numerose. Affrontarle non sarà cosa facile né rapida. Ma America, sappilo: le affronteremo. Oggi siamo riuniti qui perché abbiamo scelto la speranza rispetto alla paura, l’unità degli intenti rispetto al conflitto e alla discordia.
Oggi siamo qui per proclamare la fine delle recriminazioni meschine e delle false promesse, dei dogmi stanchi, che troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica.
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Nel terzo passaggio è descritta la “crisi”, introdotta nella precedente frase di stacco. Il passo comincia con una frase ad alto impatto emotivo, ma senza riferimenti concreti. Obama si limita a menzionare la “guerra”, concetto forte, e in contrasto con la logica di una nazione civile e avanzata; poi lascia a ciascuno il compito di ricostruire il percorso che ha portato ad essa. In seguito viene affrontato il lato più materiale e concreto della crisi: quello dei problemi economici interni. Obama accenna alla “nuova era” di fronte alla quale si affacciano gli USA. Il suo manifesto elettorale di “cambiamento” è qui riproposto con logica inversa: proprio l’assenza di cambiamento, ovvero la rigidità intellettuale e attuativa su teorie e pratiche superate, se non proprio sbagliate, ha causato i problemi interni che sono poi elencati. Il passaggio si conclude con un vigoroso incoraggiamento di carattere puramente demagogico: “America, […] affronteremo (la crisi, ndr)”.
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Siamo ancora una nazione giovane, ma – come dicono le Scritture – è arrivato il momento di mettere da parte gli infantilismi.
E’ venuto il momento di riaffermare il nostro spirito tenace, di scegliere la nostra storia migliore, di portare avanti quel dono prezioso, l’idea nobile, passata di generazione in generazione: la promessa divina che tutti siamo uguali, tutti siamo liberi e tutti meritiamo una possibilità di perseguire la felicità in tutta la sua pienezza.
Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, ci rendiamo conto che la grandezza non è mai scontata. Bisogna guadagnarsela.
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In queste righe del discorso di insediamento, il Presidente americano fa leva sulla retorica identitaria quale strumento per sollecitare la necessità, in questo preciso momento storico (“the time has come”, ripetuto due volte, è un implicito richiamo alla crisi che gli Stati Uniti stanno attraversando), di operare un passaggio verso una nuova fase.
Con un forte richiamo ad un senso di responsabilità (“siamo giovani ma dobbiamo superare gli infantilismi”), Obama sprona gli americani ad accettare la sfida del cambiamento. Egli traccia la linea di questo cambiamento nel solco della tradizione e dell’identità storica americana facendo appello allo spirito tenace dei padri fondatori (la tradizione), richiamandosi ad un pensiero razionale e critico che sappia discernere tra il bene e il male (nel citare “la nostra storia migliore”, Obama sembra voler suggerire che esiste anche una “nostra storia peggiore”), e recuperando un senso di continuità nel perseguire questa “idea nobile” espressa dall’azione delle generazioni passate.
C’è poi un richiamo esplicito alla Dichiarazione di Indipendenza del 1776, atto fondativo dello Stato americano. E’ attraverso quest’atto che gli americani rivendicano una presenza autonoma e da protagonisti nella Storia per assolvere ad una promessa venuta dal “Dio della Natura”: la promessa di libertà, uguaglianza e perseguimento di felicità per tutti. Questa promessa venuta da Dio ed emanazione di un diritto naturale è un atto che scorre nel tempo per trovare un compimento; ma implica, nondimeno, un’azione degli uomini che va praticata nel presente e perpetuata nel futuro.
Dio, la Storia, questo Tempo impongono un cambiamento. Passato, presente e futuro si fondono in un percorso circolare e continuo poiché l’obiettivo è già chiaro in partenza. Il senso di continuità storica e ideale fa riemergere un forte sentimento di appartenenza ai valori della Nazione, il cui fine ultimo, ricorda Obama, è il “sogno americano”, ossia la possibilità concessa ad ognuno di perseguire, attraverso la libertà e l’uguaglianza, la felicità in questa vita.
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Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie, non ci siamo mai accontentati. Non è mai stato un sentiero per incerti, per quelli che preferiscono il divertimento al lavoro, o che cercano solo i piaceri dei ricchi e la fama.
Sono stati invece coloro che hanno saputo osare, che hanno agito, coloro che hanno creato cose. Alcuni celebrati, ma più spesso uomini e donne rimasti oscuri nel loro lavoro, che hanno portato avanti il lungo, accidentato cammino verso la prosperità e la libertà.
Per noi, hanno messo in valigia quel poco che possedevano e hanno attraversato gli oceani in cerca di una nuova vita.
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Dai padri fondatori ad oggi, numerosi presidenti, uomini politici e intellettuali hanno richiamato i fondamenti etico-morali della nazione americana. Sebbene tale tema possa apparire un mero espediente retorico, in realtà esso incarna radici profonde, in quanto investe l’essenza stessa dell’identità nazionale americana.
In virtù della propria esperienza storica di emancipazione dalla tirannia monarchica e dal dominio coloniale ad essa legato (“il nostro viaggio”), l’identità nazionale americana ritrova uno dei suoi pilastri in quell’innato senso di fiducia in se stessi che sprona ciascuno a ricercare la propria strada (“cammino verso la prosperità e la libertà”), nella convinzione che il perseguimento degli interessi individuali non sia in ogni caso scindibile dagli obblighi morali (“lavoro”).
“Nel vostro amore per la libertà, nel vostro ossequio delle leggi, nel vostro duro lavoro e nel vostro rispetto dei dettami morali e religiosi è la ferma rivendicazione della felicità individuale e collettiva” (George Washington, lettera agli abitanti di Boston, 27/10/1789).
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Per noi, hanno faticato in aziende che li sfruttavano e si sono stabiliti nell’Ovest. Hanno sopportato la frusta e arato la terra dura. Per noi, hanno combattuto e sono morti, in posti come Concord e Gettysburg; in Normandia e a Khe Sahn.
Questi uomini e donne hanno lottato e si sono sacrificati e hanno lavorato finché le loro mani sono diventate ruvide per permettere a noi di vivere una vita migliore.
Hanno visto nell’America qualcosa di più grande che una somma delle nostre ambizioni individuali; più grande di tutte le differenze di nascita, censo o fazione.
Questo è il viaggio che continuiamo oggi.
Rimaniamo la nazione più prospera, più potente della Terra. I nostri lavoratori non sono meno produttivi rispetto a quando è cominciata la crisi. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non meno necessari di quanto lo fossero la settimana scorsa, o il mese scorso o l’anno scorso. Le nostre capacità rimangono inalterate. Ma è di certo passato il tempo dell’immobilismo, della protezione di interessi ristretti e del rinvio di decisioni spiacevoli.
A partire da oggi, dobbiamo rialzarci, toglierci di dosso la polvere, e ricominciare il lavoro della ricostruzione dell’America.
Perché ovunque volgiamo lo sguardo, c’è lavoro da fare. Lo stato dell’economia richiede un’azione, forte e rapida, e noi agiremo – non solo per creare nuovi posti di lavoro, ma per gettare le nuova fondamenta della crescita.
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“Questo è il viaggio che continuiamo oggi“, è questa la frase con cui Obama, rispolverando importanti fatti storici, richiama il popolo americano ad uno spirito di servizio e di sacrificio lo stesso spirito con cui uomini e donne, attraverso un lungo viaggio fatto di duro lavoro e di guerre, ha portato l’America versò la prosperità e la libertà rappresentando la vera essenza del patriottismo.
Due sono i luoghi della “memoria interna”, due quelli dell’impegno “globale” dell’America. Concord, 1775, guerra di indipendenza;Gettysburg,1863, vittoria dell’Unione contro i Confederati; Normandia, 6 giugno 1944, lo sbarco nel D-Day in Francia; Khe Sahn, 1968, Vietnam. Quattro luoghi per ricordare i “nemici costituzionali” del paese: i colonialisti, i razzisti, i nazisti, i comunisti. In questo brano anche la frase-chiave della cultura politica di Obama:”L’America, qualcosa di più grande di una somma delle nostre ambizioni individuali”.
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Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche e le linee digitali che alimentano i nostri commerci e ci legano gli uni agli altri.
Restituiremo alla scienza il suo giusto posto e maneggeremo le meraviglie della tecnologia in modo da risollevare la qualità dell’assistenza sanitaria e abbassarne i costi.
Imbriglieremo il sole e i venti e il suolo per alimentare le nostre auto e mandare avanti le nostre fabbriche.
E trasformeremo le nostre scuole, i college e le università per venire incontro alle esigenze dei tempi nuovi. Possiamo farcela. E lo faremo.
Ora, ci sono alcuni che contestano le dimensioni delle nostre ambizioni – pensando che il nostro sistema non può tollerare troppi grandi progetti.
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Costoro hanno corta memoria. Perché dimenticano quel che questo paese ha già fatto. Quel che uomini e donne possono ottenere quando l’immaginazione si unisce alla volontà comune e la necessità al coraggio.
Quel che i cinici non riescono a capire è che il terreno gli è scivolato sotto i piedi.
Gli argomenti politici stantii che ci hanno consumato tanto a lungo non sono più applicabili.
La domanda che formuliamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funzioni o meno – se aiuti le famiglie a trovare un lavoro decentemente pagato, cure accessibili, una pensione degna.
Laddove la risposta sia positiva, noi intendiamo andare avanti. Dove sia negativa, metteremo fine a quelle politiche. E coloro che gestiscono i soldi della collettività saranno chiamati a risponderne, affinché spendano in modo saggio, riformino le cattive abitudini, e facciano i loro affari alla luce del sole – perché solo allora potremo restaurare la vitale fiducia tra il popolo e il suo governo.
La questione di fronte a noi non è se il mercato sia una forza del bene o del male.
Il suo potere di generare benessere ed espandere la libertà è rimasto intatto.
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Anche questo passaggio è tra quelli significativi del discorso di Obama, impeccabile dal punto di vista comunicativo. Tocca nel profondo la sensibilità dei cittadini americani creando un flusso di emozioni e ricordi che, partendo dal passato più remoto della storia degli Stati Uniti, confluiscono nel presente per proiettarsi nel futuro. L’invito è di rifiutare le letture pessimistiche e limitanti per lasciare spazio a quei sentimenti che sono stati il vero motore dell’America e che le hanno permesso di diventare il grande Paese che è oggi. Il riferimento alla volontà comune e al coraggio rafforza la speranza degli americani facendo leva sul loro patriottismo e ponendo tutti, uomini e donne, in una situazione di indipendenza rispetto ai governi e alla politica. Il passaggio in questione fa sorgere nello spettatore una sensazione di ottimismo e di speranza per il futuro del proprio paese.
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Ma la crisi ci ricorda che senza un occhio rigoroso, il mercato può andare fuori controllo e la nazione non può prosperare a lungo quando il mercato favorisce solo i già ricchi. Il successo della nostra economia è sempre dipeso non solo dalle dimensioni del nostro Pil, ma dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di estendere le opportunità per tutti coloro che abbiano volontà non per fare beneficenza ma perché è la strada più sicura per il nostro bene comune.
Quanto alla nostra difesa comune, noi respingiamo come falsa la scelta tra sicurezza e ideali.
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Nella costruzione di un’immagine identitaria Obama delinea la figura di un popolo unito nella volontà di affrontare i sacrifici a cui è chiamato.
Il segmento 8 si riferisce alla crisi economica che sta sbilanciando gli equilibri internazionali e, nonostante questo influsso coinvolga l’intero apparato economico mondiale, ne parla prettamente in termini di politica interna.
Il suo è un richiamo a valori fondanti l’identità americana poiché, nel parlare di economia, fa riferimento alla prosperità e all’opulenza su cui un’intera nazione ha costruito la propria strategia di marketing: la vendita del sogno americano. E fa riferimento alla memoria dei precedenti, nel corso del novecento, in cui il mercato è andato “fuori controllo”.
Il nuovo presidente parla di PIL, si riferisce al mercato e alla speculazione, ma è tutto palesemente condito con valori tipicamente americani. Ciò che più conta non sono i numeri della produzione, ma lo spirito d’iniziativa e dell’imprenditorialità individuale che molti di quelli che ora sono sotto accusa hanno incarnato nella corsa verso il capitalismo statunitense, vero fondamento dell’identità collettiva.
Obama invoca un popolo che davanti alla crisi deve stringersi e ritrovare i giusti valori con cui calmierare un mercato che di per sé non è né positivo né negativo. Quella da lui offerta è un’alternativa alla logica speculativa tout court perché il soggetto “popolo” ora deve diventare una collettività solidale e affrontare le difficoltà invertendo un sistema che favorisce “solo i già ricchi”.
Obama, quindi, mette al centro di un discorso sulla crisi economica la crisi di valori. Il suo è un appello alla volontà degli americani e inserisce una tale invocazione nel frame di un richiamo allo spirito di sacrificio attraverso cui è possibile perseguire l’ American Dream, perché la speranza di un miglior tenore di vita che si traduca in un alto livello di benessere materiale è il vero elemento coesivo del popolo statunitense.
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I nostri Padri Fondatori, messi di fronte a pericoli che noi a mala pena riusciamo a immaginare, hanno stilato una carta che garantisca l’autorità della legge e i diritti dell’individuo, una carta che si è espansa con il sangue delle generazioni.
Quegli ideali illuminano ancora il mondo, e noi non vi rinunceremo in nome di qualche espediente.
E così, per tutti i popoli e i governi che ci guardano oggi, dalle più grandi capitali al piccolo villaggio dove è nato mio padre: sappiate che l’America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che sia alla ricerca di un futuro di pace e dignità, e che noi siamo pronti ad aprire la strada ancora una volta.
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Padri fondatori e carta costituzionale. Il Presidente Obama parla al cuore di chi lo ascolta. Due “bombe emozionali” scagliate in tre direzioni.
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Ricordiamoci che le precedenti generazioni hanno sgominato il fascismo e il comunismo non solo con i missili e i carriarmati, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci.
Hanno capito che il nostro potere da solo non può proteggerci, né ci autorizza a fare come più ci aggrada. Al contrario, sapevano che il nostro potere cresce quanto più lo si usa con prudenza.
La nostra sicurezza emana dalla giustezza della nostra causa, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell’umiltà e del ritegno. Noi siamo i custodi di questa eredità.
Guidati ancora una volta dai principi, possiamo affrontare le nuove minacce che richiederanno sforzi ancora maggiori, una cooperazione e comprensione ancora maggiori tra le nazioni. Cominceremo a lasciare responsabilmente l’Iraq alla sua gente, e a forgiare una pace duramente guadagnata in Afghanistan.
Con i vecchi amici e i vecchi nemici, lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare, e respingere lo spettro di un pianeta che si surriscalda.
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Anche in questo frangente il Presidente americano ricorre ad un linguaggio retorico impregnato di un forte carattere liturgico, con l’obiettivo di conferire agli Stati Uniti un nuovo profilo identitario nel panorama internazionale. Non più quello di una potenza minacciosa, capace di imporsi sui Paesi del resto del mondo, attraverso la sua supremazia militare, ma quello di una grande patria, fiera dei sui valori e delle sue tradizioni.
Obama ricorda infatti, che questa grande nazione democratica è riuscita a sconfiggere i due grandi mali del secolo scorso, fascismo e comunismo, non solo attraverso l’uso delle armi, ma soprattutto grazie alla diffusione di importanti ideali, quali “umiltà” e “ritegno”. Nella sua concezione linconiana del potere, lontano da un esercizio spregiudicato e sconsiderato di quest’ultimo, Obama dimostra come l’America potrà affacciarsi con dignità sul panorama internazionale, nel tentativo di porre rimedio agli errori commessi dalla legislazione precedente nei territori dell’Iraq e dell’Afghanistan.
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Non chiederemo scusa per il nostro stile di vita, non esiteremo a batterci in sua difesa.
E a coloro che cercano di raggiungere i propri obiettivi creando terrore e massacrando gli innocenti, noi diciamo adesso che il nostro spirito è più forte e non può essere infranto. Voi non ci sopravvivrete, e noi vi sconfiggeremo.
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Parafrasando le Sacre Scritture si potrebbe dire che c’è un tempo per chiedere scusa e un tempo per non farlo. Re Carlo I d’Inghilterra a tal proposito amava dire “non scusarti fintantoché non sei stato accusato”.
Che l’America negli anni passati sia stata ripetutamente attaccata da più parti – mondo islamico, paesi in via di sviluppo ma anche alleati occidentali – per alcune “sfumature” del suo “way of life”, non è una novità. Che poi, alcune di queste critiche (eccessivo sfruttamento delle risorse e scarso interesse per la salvaguardia ambientale, guerre unilaterali) avessero un fondamento, non è in discussione. Ma che Obama, l’uomo del cambiamento, nel suo primo discorso presidenziale non solo non chieda scusa, ma al contempo utilizzi parole piuttosto dure ed apologetiche per rivendicare uno stile di vita per certi aspetti discutibile, a prima vista sembra stupefacente. Invece ad un’analisi meno superficiale risulta più chiaro il senso di questa scelta: il mito dell’“American way of life” che affonda le sue radici nei principi di vita, libertà e ricerca della felicità, e quindi indirettamente nelle gesta dei Padri Fondatori è uno dei valori nel quale tutti i cittadini americani – dall’Alaska al Texas – non solo si sono sempre riconosciuti, ma di cui vanno orgogliosi. Dietro una frase così sorprendente potrebbe esserci, quindi, il tentativo di allargare la base di consenso intercettando anche le simpatie di quella fetta di popolazione che si riconosce più nei valori tradizionali che nella ricerca di un cambiamento. O ancora, proiettate a livello internazionale, queste parole potrebbero rivelare la volontà di rivendicare l’autonomia decisionale americana nello scegliere se, come e quando cambiare senza permettere a nessun interlocutore di influire sull’agenda politico-economica. D’altro canto, a tutti coloro che hanno accolto con freddezza questo discorso (soprattutto in campo internazionale), Obama ha già risposto annunciando tutta una serie di misure (dalla chiusura di Guantanamo, al ritiro delle truppe dall’Iraq per arrivare sino al varo della legge contro le auto inquinanti) che confermano la sua volontà di forte cambiamento. Una politica basata sulla dicotomia conservatorismo / progressismo volta ad intercettare il più ampio consenso prima di tutto interno ma anche internazionale è sicuramente affascinante e rivoluzionaria. Riuscirà a svilupparla con successo nei quattro anni di presidenza?
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Perché noi sappiamo che il nostro retaggio “a patchwork” è una forza e non una debolezza.
Noi siamo una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e induisti e non credenti. Noi siamo formati da ciascun linguaggio e cultura disegnata in ogni angolo di questa Terra; e poiché abbiamo assaggiato l’amaro sapore della Guerra civile e della segregazione razziale e siamo emersi da quell’oscuro capitolo più forti e più uniti, noi non possiamo far altro che credere che i vecchi odi prima o poi passeranno, che le linee tribali saranno presto dissolte, che se il mondo si è rimpicciolito, la nostra comune umanità dovrà riscoprire se stessa; e che l’America deve giocare il suo ruolo nel far entrare il mondo in una nuova era di pace.
Per il mondo musulmano noi indichiamo una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto. A quei leader in giro per il mondo che cercano di fomentare conflitti o scaricano sull’Occidente i mali delle loro società – sappiate che i vostri popoli vi giudicheranno su quello che sapete costruire, non su quello che distruggete. A quelli che arrivano al potere attraverso la corruzione e la disonestà e mettendo a tacere il dissenso, sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno.
Alla gente delle nazioni povere, noi promettiamo di lavorare insieme per far fiorire le vostre campagne e per pulire i vostri corsi d’acqua; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quelle nazioni, come la nostra. che godono di una relativa ricchezza, noi diciamo che non si può più sopportare l’indifferenza verso chi soffre fuori dai nostri confini; né noi possiamo continuare a consumare le risorse del mondo senza considerare gli effetti. Perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare con esso.
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In questo passaggio Obama fa riferimento al multiculturalismo e alla multirazzialità degli Stati Uniti, alle identità religiose e ai conflitti internazionali. Anche in questa parte non manca la retorica identitaria legata alla storia della patria, puntualmente attualizzata al contesto americano (“noi che abbiamo conosciuto l’amaro sapore della guerra civile e della segregazione razziale (…) non possiamo che credere che i vecchi odi prima o poi passeranno”). Il presidente eletto trasmette ottimismo con parole forti che vanno dritto al cuore degli americani: una nuova era di pace è possibile e l’America, sempre chiamata per nome come si fa con un vecchio amico, giocherà un ruolo fondamentale. Apre una nuova strada al dialogo con il fondamentalismo islamico e con tutto il mondo musulmano, basata sul “reciproco interesse e sul mutuo rispetto”. Non mancano stoccate pungenti ai regimi totalitari, come Iran e Cina: “A quei leader in giro per il mondo che cercano di fomentare conflitti o che scaricano sull’Occidente i mali della loro società, sappiate che i vostri popoli vi giudicheranno su quello che sapete costruire e non su quello che distruggete” (frase censurata in Cina, per un evidente riferimento al Tibet). Obama continua però a trasmettere ottimismo, individuando nel dialogo e nella cooperazione l’unica soluzione possibile: “Sappiate che siete dalla parte sbagliata della storia, ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno”. Nell’ultima parte, infine, fa riferimento alle nazioni povere ed in particolare all’Africa: “Noi promettiamo di lavorare insieme per far fiorire le vostre campagne e per pulire i vostri corsi d’acqua; per nutrire i corpi e le menti affamate”. Anche in questo caso sarà l’America a giocare un ruolo fondamentale: “Non possiamo continuare a sfruttare le risorse del mondo senza considerare gli effetti (altra stoccata ai suoi predecessori). Perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare con esso”.
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Se consideriamo la strada che si apre davanti a noi, noi dobbiamo ricordare con umile gratitudine quegli americani coraggiosi che, proprio in queste ore, controllano lontani deserti e montagne.
Essi hanno qualcosa da dirci oggi, proprio come gli eroi caduti che giacciono ad Arlington mormorano attraverso il tempo.
Noi li onoriamo non solo perché sono i guardiani della nostra libertà, ma perché essi incarnano lo spirito di servizio: una volontà di trovare significato in qualcosa più grande di loro.
In questo momento – un momento che definirà una generazione – è precisamente questo lo spirito che deve abitare in tutti noi.
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In questo tredicesimo passaggio, Barack Obama ritorna ancora una volta alla memoria storica del popolo americano che con coraggio, sacrificio e sofferenza ha dato identità alla Nazione. Due osservazioni.
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Per tanto che un governo possa e debba fare, alla fine è sulla fede e la determinazione del popolo americano che questa nazione si fonda. E’ la gentilezza nell’accogliere uno straniero quando gli argini si rompono, la generosità dei lavoratori che preferiscono tagliare il proprio orario di lavoro piuttosto che vedere un amico perdere il posto, che ci hanno guidato nei nostri momenti più oscuri. E’ il coraggio dei vigili del fuoco nel precipitarsi in una scala invasa dal fumo, ma anche la volontà di un genitore di nutrire il proprio figlio, che alla fine decidono del nostro destino.
Forse le nostre sfide sono nuove. Gli strumenti con cui le affrontiamo forse sono nuovi.
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In questo frammento Barack Obama mette in gioco tutto il suo carisma, legando il pragmatismo alle emozioni. Emozioni suscitate dallo spirito di sacrificio e di solidarietà che il popolo americano è capace di porre a baluardo della propria sopravvivenza di fronte al pericolo. Caratteristiche di una collettività che nascono però dall’azione straordinaria quanto quotidiana del singolo, da personali gesti d’amore, di coraggio e di fede che insieme hanno la forza di orientare il paese verso un futuro. Questa è la grandezza celebrata da Obama, la determinazione di un popolo democratico che collabora in modo decisivo, giorno per giorno, alla guida della nazione. Dare consapevolezza alla massa di partecipare a un compito così nobile equivale a buttare benzina sul fuoco tradizionalmente ardente dell’attaccamento alla patria, con la certezza di toccare la sensibilità e arrivare al cuore di tutti gli americani.
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Ma i valori da cui dipende il nostro successo – lavoro duro e onestà, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo – tutto questo è vecchio. Sono cose vere. Sono state la forza tranquilla del progresso nel corso di tutta la nostra storia.
Quel che è necessario ora è un ritorno a queste verità. Quel che ci viene chiesto è una nuova era di responsabilità. Il riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo un dovere verso noi stessi, la nostra nazione, il mondo, doveri che non dobbiamo accettare mugugnando ma abbracciare con gioia, fermi nella consapevolezza che non c’è nulla di più soddisfacente per lo spirito, così importante per la definizione del carattere, che darsi completamente per una causa difficile.
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In questo brano il Presidente definisce il set valoriale al quale la sua amministrazione si ispirerà e che dovrà assicurargli il consenso. E’ la storia americana stessa, la sua tradizione di liberismo e democrazia, che viene riaffermata. La maggior parte delle componenti di questo compendio di valori non sono altro che virtù umane morali individuali (onestà, lealtà, lavoro duro, tolleranza ecc). L’interpretazione che ne dà si riconduce all’idea della “forza tranquilla del progresso”, ovvero a quel sentimento che nel popolo statunitense è fondamento del successo e dell’egemonia politica ed economica planetaria del Paese.
Due frasi apparentemente in contraddizione vengono poste in successione:
L’antitesi è risolta in quanto rifarsi a tali valori è condizione dell’assunzione di rinnovata responsabilità della nuova gestione politica, nella quale egli sembra voler coinvolgere ogni cittadino attraverso l’uso frequente della prima persona plurale.
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Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza.
Questa è la fonte della nostra fiducia, la consapevolezza che Dio ci ha chiamato a forgiare un destino incerto.
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Obama, consapevole della crescente sfiducia degli Americani, sottolinea l’importanza della cittadinanza riconoscendone la fatica di mantenerla viva come valore, ma anche la promessa, il “credo” laico degli Stati Uniti che li porterà ad una catarsi e quindi ad un nuovo “paradiso”. E riprende Dio, senza menzionare alcun legame con la religione – quasi Dio fosse Americano – come se il loro destino fosse un progetto e una chiamata al bene supremo. Questa seconda affermazione pare quasi cinematografica, ma sintetizza la religione civile, o democrazia di Dio – come la definisce Emilio Gentile – , che fin dai discorsi di Washington* risuona in tutta la nazione. Obama spinge sul sentimento religioso americano che sostiene che la libertà, la democrazia ed il paternalismo nei confronti degli stati esteri sono una volontà di Dio. E’ quindi necessario avere fiducia e continuare a coltivare il culto sacrale della Nazione, in cui il capo di Stato è il capo spirituale dei valori di questa religione civile, che ha un destino, seppur incerto, e un bene supremo da perseguire.
*“The name of American, which belongs to you, in your national capacity, must always exalt the just pride of Patriotism[..]”(Farewell Address, George Washington,1796).
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Questo è il significato della nostra libertà e del nostro credo – perché uomini, donne e bambini di ogni razza e di ogni fede possono unirsi nella festa in questo Mall magnifico, e perché un uomo il cui padre meno di sessanta anni fa non avrebbe neanche potuto essere servito in un ristorante ora può trovarsi di fronte a voi per pronunciare il giuramento più sacro di tutti.
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Questo passaggio del discorso di Obama ci rimanda con la memoria alla storia della segregazione americana. Infatti è bene ricordare che fino alla metà degli anni 60’ in molti stati degli USA erano in vigore leggi che discriminavano i neri, negando loro i più elementari diritti civili.
Bianchi e neri erano divisi in ogni attività quotidiana della società civile; si acquistava in Supermercati e negozi diversi , si mangiava in ristoranti separati , si soggiornava in hotel distinti , le Scuole erano diverse: bianchi e neri erano diversi , pertanto non potevano stare insieme , o se stavano insieme i neri dovevano comunque essere riverenti nei confronti dei bianchi.
Tutto questo Obama l’ ha vissuto sulla sua pelle.
Un uomo di colore finalmente e’ riuscito ad arrivare laddove, non molti anni fa, per un nero sarebbe stato proibito anche entrare .
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Perciò diamo a questa giornata il segno della memoria, di chi siamo e di quanta strada abbiamo fatto. Nell’anno in cui l’America è nata, nel più freddo dei mesi, una piccola banda di patrioti rannicchiati intorno a falò morenti sulle rive di un fiume ghiacciato. La capitale era stata abbandonata. Il nemico avanzava. La neve era macchiata di sangue. Nel momento in cui l’esito della nostra rivoluzione era in dubbio come non mai, il padre della nostra nazione ordinò che si leggessero queste parole al popolo: “Che si dica al futuro del mondo… che nel profondo dell’inverno, quando possono sopravvivere solo la speranza e la virtù… Che la città e la campagna, allarmate da un pericolo comune, si sono unite per affrontarlo“. |
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In questo passaggio Obama delinea tre momenti; il passato del “segno della memoria”, il presente “dell’inverno dei nostri stenti” e il futuro dei “figli dei nostri figli”. Il neopresidente prosegue sul doppio binario fatto di retorica e modernità, attenzione al passato e sguardo al futuro. Memoria, patriota, padre della nazione, sono espressioni calde e dense di fascino tramite le quali Obama rinvia fino al primo anno di vita degli USA per giungere, poi, al freddo della crisi e delle difficoltà odierne da affrontare insieme (si noti l’esortativo “America…” con cui comincia il secondo paragrafo del passaggio) con la stessa tenacia e unità che dalla nascita hanno contraddistinto lo spirito degli americani. Interessante l’uso esplicito della retorica rispetto al contesto italiano in cui, forse, per un storia molto più frammentata dal punto di vista ideologico e politico si ha molta più timidezza o reticenza nel riferirsi orgogliosamente al proprio passato.
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America. Di fronte ai nostri pericoli comuni, in questo inverno dei nostri stenti, ricordiamo queste parole senza tempo. Con speranza e virtù, affrontiamo con coraggio le correnti ghiacciate, e sopportiamo quel che le tempeste ci porteranno. Facciamo sì che i figli dei nostri figli dicano che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo permesso che questo viaggio finisse, che non abbiamo voltato le spalle e non siamo caduti.
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Nel contesto di crisi globale Barack Obama chiede all’America di trovare la forza di reagire nella propria storia. Vengono in aiuto le parole dei padri fondatori, «parole senza tempo», pronunciate in un momento decisivo per l’esito dell’indipendenza americana. Alla base di questo invito traspare un messaggio di speranza e di aperta fiducia nell’essere umano, al quale si riconosce la capacità, di fronte ad eventi tali da minacciarne la sopravvivenza, di andare oltre le proprie forze, superare il limite ed evolversi. All’America è hiesta un’evoluzione strutturale, in grado di garantire un futuro di lungo periodo, non una pezza temporanea. Un sacrificio personale per un bene universale e duraturo, fondato sul principio di solidarietà più che sulla forza. Perché Obama sa bene che l’orgoglio nazionale coincide con la storica capacità di unità dell’America e non con l’ostentazione di una potenza troppo spesso impacciata e senza identità.
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E con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e l’abbiamo consegnato intatto alle generazioni future.
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Primo commento
E’ questa la frase con cui il neo presidente degli Stati Uniti d’America conclude il suo discorso di insediamento, davanti ad una folla commossa e in silenzio, come se si stesse celebrando una liturgia laica.
“Abbiamo portato avanti il grande dono della libertà”, dice, come noi americani che abbiamo lottato, creduto, sperato, sofferto per raggiungerla. E’ libertà, poiché un uomo,- il cui padre 60 anni fa non sarebbe stato neanche servito nei ristoranti-, è ora il presidente degli Stati Uniti d’America.
Il dono della libertà e’ quello che i padri fondatori dell’America hanno fatto agli americani conquistando l’indipendenza dagli inglesi, e garantendo a tutti una possibilità di realizzazione all’interno degli Stati Uniti
(“Life, liberty and the pursuit of Happiness della Dichiarazione d’indipendenza), ma è anche un dono che l’America ha fatto al mondo intero.
Per conservare e mantenere questo grande dono, occorre difenderlo, per cui Obama vuole far capire che anche se privilegia il dialogo, e’ pronto a combattere per la sua America, come e’ stato fatto nel passato, e a consegnare intatta questa libertà alle generazione che verranno.
Secondo commento
La conclusione del discorso di insediamento di Barack Obama è un capolavoro di sintesi comunicativa al servizio di un tentativo di (ri) costruzione identitaria. Un condensato di ottimismo nei confronti del futuro, sorretto dalle glorie del passato. In un solo periodo possiamo infatti leggere:
E’ con il passaggio, fortemente simbolico, di questo testimone che Barack Obama termina il proprio discorso.
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Il discorso pronunciato dal nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, di fronte a i suoi elettori il 20 gennaio 2009, è emblematico per comprendere i punti cardine che hanno fatto di Barack Obama, uomo vincente.
Il consenso e l’ impegno che, abilmente è riuscito a creare attorno a sé, sono stati il risultato di una campagna strategicamente elaborata, avente come principale strumento quello della comunicazione. Le parole e i concetti richiamati, nel corso delle sue uscite pubbliche, pregni di valenze simboliche, diventano mezzi di costruzione identitaria, per un popolo come quello americano, che ora più che mai, sente il bisogno di essere guidato e ancor più, avverte la necessità di ridisegnare i propri confini attraverso il recupero della grande tradizione culturale su cui, da sempre, poggia la storia degli Stati Uniti d’America. In un momento così sfavorevole, di guerre, crisi finanziarie e ingenti perdite umane, Obama capisce che bisogna restituire dignità al suo popolo, e lo fa predicando quei valori, originariamente condivisi e appartenenti al senso comune, che suscitano orgoglio patriottico e al contempo risvegliano le memorie collettive. Innegabile, senza ombra di dubbio, è il forte impatto mediato riscontrato dal presidente afro- americano, non solo per la grande propaganda elettorale con i suoi slogan incisivi (Yes we can) e l’utilizzo di un linguaggio che veicola contenuti di facile consenso, ma in special modo, per ciò che egli simboleggia. Il senso di cambiamento profuso dal nuovo governo, diviene ancora più credibile se coadiuvato all’immagine di Obama e a tutto quello che egli richiama: le sue origini, il suo colore, il suo percorso di vita, ecc…tutti elementi che concorrono a fare apparire come immediatamente naturale, il meccanismo secondo il quale Obama è tutto ciò che dice, icona di un difficile tragitto di cui porta testimonianza e nelle sue parole e nella sua persona. Egli, offre se stesso, come oggetto di valore, sintesi di conservazione e innovazione, di lotte e conquiste, di sofferenza e avanzamento sociale, simbolo di emancipazione e apertura mentale, generando in questo modo, identificazione e forte senso di appartenenza.
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“Obama è diventato una specie di test
delle macchie di Rorschach universale
dove ognuno vede quello che vuole vedere”
Alexdander Stille, la Repubblica, 21/01/2009
Nel valutare, anche se a “freddo” (cfr. McLuhan), il discorso di insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti Barack Hussein Obama non si può prescindere dal contesto nel quale è stato pronunciato. La sacralità della cerimonia trasforma il giorno del giuramento presidenziale in un rituale e di conseguenza, come diceva Durkheim, in un’occasione per rinsaldare i legami interni alla comunità. È a partire da tali legami che si spiegano, nel discorso del nuovo presidente, i continui riferimenti ai padri fondatori, ai pionieri, agli emigranti e alla grandezza dell’America. Il testo, che ha come fine ultimo quello di rinforzare lo spirito di religione civile degli Stati Uniti, si conforma alla classica retorica presidenziale. Tuttavia è il corpo di Obama, in quanto testo culturale, a esprimere una rottura con questa tradizione. L’originalità della sua immagine impone un cambiamento culturale che va al di là delle “solite” parole.
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Il discorso inaugurale di Barack Obama non poteva essere più efficace nel segnalare al mondo che l’America ha deciso di cambiare in ogni aspetto, dalla politica estera alla lotta al riscaldamento climatico. Sarebbe bastato comunque vedere le migliaia di persone ammassate nel Mall per capire la portata del cambiamento: l’aver coinvolto nella politica quello che per anni era rimasto ai margini. “We are one” gridavano, perché gli Usa si sentono una comunità nazionale, molto più che in Italia. Non a caso la parola più ricorrente nel discorso di insediamento è stata nazione e questa “è qualcosa di più grande che una somma delle nostre ambizioni individuali; più grande di tutte le differenze di nascita, censo o fazione”. Oltre all’unità del Paese i concetti che emergono maggiormente sono “fiducia” e “speranza”: elementi essenziali per un viaggio che inizia nel buio della recessione economica e che deve portare a superare la crisi. Obama sa che “non sarà cosa facile né rapida”, ma è convinto che l’America se resta unita ce la possa fare e invita, se non quasi obbliga, a “rialzarsi, togliersi di dosso la polvere” perché la strada è lunga. L’entusiasmo della folla è gia un buon inizio.
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4
Il 20 gennaio 2009, a Washington, sicuramente qualcosa è mutato, ed è indipendente dal fatto di essere politicamente pro o contro le idee di Barack Obama. Il primo Presidente americano di colore porta con sé un vento di cambiamento, che in questo momento non solo gli Stati Uniti, ma tutto il mondo chiedeva e desiderava. Il tempo era propizio e lui, grazie ad un ottima squadra, l’ha saputo cavalcare. L’apoteosi del suo capolavoro elettorale ha trovato compimento nel suo discorso, uno dei più brevi che la storia recente ricordi, ma che in pochi passi ha risollevato quello spirito patriottico che ultimamente era latente, e che sembra essere per gli americani come un vecchio indumento vintage, che ogni 20 anni esce dall’armadio e sorge a nuova vita. Perché il neo presidente, in un momento così difficile per la nazione, dove l’economia sta affrontando una crisi imprevista, i consumi e le imprese faticano a resistere all’insorgere dei mercati orientali, dove il consenso dei cittadini verso le istituzioni hanno toccato minimi impressionanti, di che cos’altro poteva parlare se non della grande e gloriosa storia americana?
Un bravo stratega o finalmente un uomo comune ed onesto che si è reso conto che in questo momento alla sua popolazione non può garantire altro che il rigenerarsi del vecchio spirito, dei grandi principi e della storia su cui si basa l’identità americana, che assieme al colore della sua pelle, potranno dare nuovo impulso a quello che ormai viene considerato un gigante addormentato. Io propendo per la seconda ipotesi, o forse come tutti ci spero. Voglio credere da giovane ventenne che davvero “yes we can” da oggi sia per tutti e non più per le solite vecchie e inamovibili caste. Perché alla fine, pur avendo il nostro Paese una storia assai più gloriosa di quella americana, come si fa a non invidiare quella fiducia e quella speranza che gli States sanno far uscire nei momenti più difficili del loro percorso e che fa di un discorso, sicuramente retorico come quello di Obama, un inno alla ripartenza al sogno americano. Il tempo ci dirà quale sarà la verità, ma in ogni caso questo giorno resterà nella storia.
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La ricetta dell’“inaugural speech” del presidente statunitense di turno, si ripete pressoché identica da tempo: un ringraziamento al popolo per la fiducia accordata, un imprecisato riassunto delle questioni difficili e delle sfide da affrontare, una solenne autocelebrazione della prima potenza mondiale e del suo popolo, fondato su una gloriosa tradizione e forgiato dal duro lavoro.
Basta aggiungere qualche richiamo alle sacre scritture, condire con slogan e benedizioni, ed è pronto per essere servito alla folla commossa.
Sono tre a mio avviso gli ingredienti del discorso: contraddizione, ottimismo e propaganda, magistralmente fusi in un linguaggio semplice e accompagnati dalla classica, infallibile retorica.
Obama parla di disuguaglianze sociali e ideali di libertà, tralasciando che le HMG (Healt Maintenance Organizations) hanno finanziato la sua campagna elettorale e che gli stessi padri fondatori erano latifondisti serviti da schiavi.
Ammonisce i paesi che hanno seminato distruzione, ma si dimentica degli USA e dei suoi alleati.
Fa eco a Cheney sulla “non negoziabilità” dello stile di vita, liquidando l’uso dell’energia e il mercato dei consumi in un paio di passaggi.
Il neo-presidente nega il declino predicando un incrollabile e americanissimo ottimismo, accenna alla crisi ma la risolve velocemente con un sonoro “Yes we can”.
Si prospetta un futuro “nero” per gli Stati Uniti d’America… ma sarà sufficiente?
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La Retorica della speranza sulla paura: così è stato definito lo storico, tutt’altro che per retorica, inaugural speech di B.H. Obama, primo presidente di colore della storia americana e “miglior oratore arrivato alla presidenza dai tempi di JFK” nell’opinione di molti degli ex-speechwriter presidenziali, dallo stesso Kennedy a Clinton.
Con evidenti echi di rooseveltiana memoria, il 44° presidente degli USA ha pronunciato il suo discorso d’insediamento: 18 minuti di appello allo spirito della Nazione, intrisi di una retorica nazionalista tipicamente statunitense. “Nation” è, infatti, secondo la tag cloud pubblicata dal N.Y. Times, la parola più pronunciata, seguita da “America”, “people” e “work”, in linea con le attese di un paese tra i più nazionalisti al mondo. Un messaggio denso e complesso, dal linguaggio equilibrato, veicolante forti e molteplici elementi di retorica identitaria, capace di fornire differenti e trasversali chiavi di lettura e che trova il suo senso fondante non nel testo in sé ma nella persona del nuovo Presidente e in ciò che rappresenta, in una straordinaria combinazione di tradizione e cambiamento.
Al di là degli aspetti pragmatici legati alla programmazione politica ed economica interna ed estera, il core-speech è facilmente individuabile nella profonda forza emotiva del messaggio, che miscela sapientemente elementi di discontinuità rispetto ad un recente passato e di liturgia civica e religiosa americana, quest’ultima pregnante i più emotivamente coagulanti discorsi presidenziali, da Jefferson a Kennedy, passando per Lincoln, il preferito da Obama. La spinta al cambiamento ha ricevuto notevole impulso dal capovolgimento del fronte comunicativo: già durante la sua campagna elettorale, Obama aveva proposto come candidato alla guida degli Usa non se stesso ma il cittadino americano, il corpus elettorale che quotidianamente costruisce la propria identità e il proprio futuro in rete tra collaborazione e competizione. Una capacità di coinvolgimento che ha mobilitato, attraverso la rete, risorse umane e finanziarie su una base valoriale fortemente condivisa. Il ricorso alla simbologia ha finito col completare il quadro valoriale alla base del suo messaggio identitario: dalle tappe geografiche scelte per la campagna elettorale al giuramento sulla bibbia di Lincoln, dal richiamo allo spirito dei padri fondatori e al senso patriottico sino alla riappacificazione interrazziale e religiosa, con un riferimento assolutamente d’impatto all’ateismo, inedito nella storia della retorica politica americana.
Un messaggio, dunque, “all inclusive” che consente ad ognuno, resto del mondo compreso, di trovarvi ciò che ricerca, sentendosi pienamente protagonista della determinazione del proprio destino nel mondo.
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