Mario Morcellini, editoriale al dossier su “Vertenza Comunicazione”

(Roma 20 settembre 2010) – Il prof.Mario Morcellini, preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza a Roma, mi invia (come agli altri autori del dossier di Comunicazione doc) il suo editoriale che inquadra i principali argomenti attorno a cui – tra università e mercato del lavoro – si discute oggi attorno alla laurea in questa disciplina. Lo propongo nel mio sito per l’interesse dell’argomento.

COMUNICAZIONE doc
punto numero tre La vertenza Comunicazione
 
La vertenza Comunicazione
Troppi laureati o troppo “familismo amorale”?
Editoriale
di Mario Morcellini
 
C’è una frase che fotografa eccellentemente la realtà italiana di questi anni, e soprattutto il tempo in cui alle giovani generazioni è toccato di vivere: sento parlar bene del lavoro flessibile, ma tutti quelli che me ne parlano hanno il posto fisso.
È giunto il momento di concentrare l’attenzione sul nodo critico legato all’essere giovani nella nostra società e – per quanto riguarda la nostra responsabilità – esserlo a Comunicazione: cosa significa vivere questa congiuntura epocale segnata dal precariato e soprattutto dalla reclusione degli orizzonti di speranza, in un campo accademico giovane come quello delle scienze della comunicazione. Fattore, quest’ultimo, che naturalmente moltiplica gli aspetti di precarietà: per quanto possiamo sentirci forti nella nostra tradizione, rispetto ad altre Facoltà veniamo considerati gli ultimi arrivati, quelli che devono ancora dimostrare la loro legittimazione culturale. Si tratta di problematiche niente affatto nuove, che in passato sono state legate a Facoltà come Filosofia, storicamente collegata a Lettere e che ha sperimentato, assieme con l’indipendenza, la difficoltà sulla qualità e sulla forza professionale dei laureati. Negli anni, le polemiche si sono spostate sul DAMS, un corso di laurea coraggioso ma perfino più avventurista di Comunicazione, che ha cercato di unire paradigmi che andavano dal teatro alle arti espressive fino ai linguaggi del digitale.



Possiamo allora iniziare con l’identificare una circostanza sociale e culturale fissa: l’attacco alle istituzioni formative nuove, più provocanti per l’assetto di potere costituito e per le rendite di posizione. In primo luogo per una questione di carattere fisiologico: nel loro statu nascenti, le istituzioni formative “vanno di moda”, intercettano più facilmente la domanda formativa dei giovani, e al tempo stesso gli odi di quelle istituzioni a cui la domanda formativa viene in qualche misura sottratta. Alcuni tra gli attacchi più duri a Comunicazione, infatti, vengono in qualche caso dall’umanistica più tradizionale, che nei dati di AlmaLaurea dimostrano problemi di placement non meno gravi dei media studies1.
I contenitori formativi nuovi, dunque, sono sempre giudicati troppo capaci di cogliere le pressioni della coscienza giovanile, e quindi già per questo poco comprensibili, in una società in cui le scelte dei giovani, quando non sono dettate dalla politica o dai salotti che contano, costituiscono un problema. Sin dalle prime battute di questa riflessione, emergono dunque due nodi fondamentali.
Il primo è l’avversione generalizzata della politica e del giornalismo verso quelle realtà formative che rappresentano l’azzardo di alzare la testa. La formazione universitaria alle professioni della comunicazione si afferma come presa d’atto dell’esigenza di uno specifico spazio accademico deputato all’analisi della rilevanza sempre maggiore dei sistemi comunicativi nella società contemporanea. Uno spazio caratterizzato da linee di sviluppo peculiari quanto quelle della realtà che intendeva indagare, da una feconda integrazione di contenuti sociologici, linguistici, informatici, ingegneristici, in grado di garantire un’offerta formativa di tipo integrato agli operatori della comunicazione. Destinato a rispondere a una domanda variegata ed estesa, che non poteva più essere soddisfatta da “avventurose iniziative di formazione professionale propense ad insegnare semplicemente a maneggiare una cinepresa o a scrivere un articolo su due colonne” (Morcellini 1992, p. 7). La creazione di questo spazio ha rappresentato, come altri esperimenti di innovazione formativa riconducibili



ad esempio all’Informatica e alle Discipline dell’arte, della musica e dello spettacolo, una scommessa sull’allargamento della capacità linguistiche della vecchia Università. Un tentativo di riduzione delle distanze con il mondo giovanile, tanto più significativo in quanto riferito alla comunicazione, che non è solo un’importante piattaforma di riflessione culturale, ma anche un’attività che i giovani svolgono ogni giorno, un luogo che sono i più abituati a frequentare, una pratica che per primi trovano il modo di innovare. Ma i soggetti moderni, e in particolar modo la politica e il giornalismo, colpiti dalla forza che la comunicazione ha rappresentato in termini di erosione della capacità di mediazione delle agenzie tradizionali, non capiscono la risorsa profonda e complessa che essa rappresenta.
Il secondo nodo è la risposta dell’Università, e degli stessi corsi di Comunicazione che sono “sotto attacco”, a quello che rappresenta un tipico caso di invadenza della politica nella società civile. Un campo che dovrebbe essere lasciato agli addetti ai lavori, a spinte riformatrici meno compulsive di quelle degli ultimi dieci anni, a stakeholder interessati ad un’offerta di operatori competenti e professionalizzati nel campo delle imprese radiotelevisive ed editoriali, della comunicazione d’impresa e di quella istituzionale, è oggi “invaso” da soggetti radicalmente diversi. I protagonisti di questa prevaricazione sono anzitutto i politici: sull’efficacia della laurea in Comunicazione si esprime naturalmente il Ministro dell’Università, che sembra però posporre il suo naturale mandato di difesa delle istituzioni affidate al suo coordinamento alle necessità di distrarre l’attenzione dalle conseguenze sociali della crisi economica. Ma anche il Ministro del Lavoro, della Salute e Politiche Sociali ha recentemente contestato, invocando i dati occupazionali ma servendosi unicamente di un presunto senso comune, l’utilità sociale dei laureati in Scienze della Comunicazione2. A questi, si aggiunge l’attivismo mediatico di certi celebri conduttori di talk show di prima e seconda serata, le cui rendite di posizione prescindono largamente dall’editore di riferimento, che allargano il potere di orientamento delle opinioni di cui si presentano come depositari



alla scelta del corso di laurea: in una paradossale variante della Tv pedagogica, “Porta a Porta” diventa così il luogo di un violento intervento sulle aspirazioni formative dei giovani3.
Comunicazione è al centro di una polemica aspra e senza speranza, perché per avere una speranza di risolvere il conflitto occorrerebbe almeno garantire il diritto di replica, e il nostro sistema comunicativo in questo caso non si è dimostrato né competente né indipendente. È giunto il momento di affermare che il problema è negli occhi dei polemisti più che nei dati, nonostante questi certamente non siano euforici e la crisi li renda sempre più critici. Ed è giunto il tempo di ammettere che la risposta dell’Università è stata, finora, insufficiente. I continui attacchi della politica e del giornalismo alla giustizia e in particolare alla magistratura provocano risposte immediate, centrate sulla difesa dell’autonomia delle istituzioni e dei loro rappresentanti. Lo stesso accade nel mondo del lavoro e dei sindacati, dove si registrano forme di intervento ma con una più forte capacità di contrattazione da parte dell’autonomia delle rappresentanze.
Una riflessione volta a spiegare affermazioni così forti deve anzitutto reagire al silenzio e alla debolezza della replica degli operatori più professionalmente coinvolti in questi mondi, e può articolarsi attorno a cinque parole chiave: la modernità degli studi in Comunicazione, e dunque la presa d’atto quanto essi facciano parte di un modo tipico di essere moderni. Le previsioni di sviluppo del mercato del lavoro. La bolla speculativa che si è addensata sui corsi di Comunicazione, e costituisce il nodo fondamentale che non permette, nel dibattito che si sviluppa nei media, di intravedere un raggio di speranza. Senza trascurare però la cultura dei dati, che si contrappone a quella dei salotti giornalistici. Il nodo culturale che impedisce, in Italia, l’affermazione di una cultura dei dati in contrapposizione a quella dei salotti. Le contraddizioni culturali del mercato del lavoro, che rimandano al concetto cui si ispira il titolo di questo editoriale, il familismo amorale, ma che chiamano in causa anche il peso della lottizzazione e delle redite di posizione nell’accesso alle professioni comunicative.



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Il primo elemento da scrutinare è la modernità del curriculum: in che misura la nascita dei corsi di Comunicazione in Italia rappresenta un atto che la società non poteva permettersi di non fare, e che anzi, essendo arrivato nel 1992, ha costituito una conquista abbastanza tarda rispetto agli altri paesi europei. Andare a studiare all’estero per accedere a una struttura formativa che andasse oltre i corsi privati e speculativi presenti nel nostro paese non era e non è una scelta praticabile per tutte le famiglie. Questo tipico elemento di selezione sociale è stato in parte superato dalla nascita dei corsi in Comunicazione, offrendo un’apertura rispetto alla disputa sull’equità dell’accesso alla formazione superiore e al suo riconoscimento sul mercato del lavoro. Solo chi ha gli occhi rivolti al passato può negare questo dato di fatto: le professioni comunicative sono un terreno ovvio, naturale, specifico, non negoziabile, dell’istituzione universitaria. E non a caso, la dinamica di creazione di questi corsi è stata peculiare: è partita da un impulso dell’allora Ministro Ruberti, che ha trovato attuazione a seguito di uno studio di fattibilità commissionato a Confindustria dall’Università di Siena. Ma anche in altri Atenei italiani l’inaugurazione è stata frutto di documentati studi preliminari. È stato probabilmente il primo caso in Italia in cui la nascita di un curriculum ha fatto seguito a un’analisi di sostenibilità del mercato del lavoro. Perdipiù, la nascita dei corsi in Comunicazione in Italia è stata tenuta a battesimo da una Commissione ministeriale che ha avuto illustri militanti accademici, tra i quali Umberto Eco e il filosofo Pietro Rossi che la presiedeva, ma che merita di esser ricordata per un’altra nota distintiva: quasi la metà dei componenti erano personalità rappresentative del mondo professionale (due giornalisti dell’Ordine, esponenti della Confindustria e delle aziende di tecnologia avanzata, un membro del Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri). Fin dal principio, dunque, un progetto che ha avuto come punto di riferimento l’alto grado di mobilità e le esigenze di continuo rinnovamento



del settore comunicativo. Una promessa di frequentazione dei rappresentanti della comunicazione professata il cui mantenimento è dimostrato dalle testimonianze, fresche e niente affatto retoriche, di alcuni fra i più attivi professionisti che hanno scelto di insegnare nei corsi di Comunicazione, e la cui testimonianza non manca in questo numero di Comunicazionepuntodoc. Questa Commissione si è trovata unanime a decidere che in Italia convenisse adottare un elemento di razionalità: non battezzare il nuovo curriculum con i nomi che da decenni venivano utilizzati all’estero, e che rimandavano al giornalismo, alla pubblicità, alle tecnologie comunicative, alla televisione, allo spettacolo, attestandosi su un sostantivo unificante come “comunicazione” piuttosto che su una delle sue qualificazioni. Si tratta di elementi che devono essere puntualmente interpolati con momenti di autocritica, di riflessione su ciò che l’Università non è riuscita a fare. Non è possibile sostenere di non avere colpe rispetto alle accuse che ci vengono rivolte: ci sembra di esserci sempre mossi con tempestività nell’aggiornamento dei curricola, almeno rispetto a quelle che erano le confuse richieste del mercato, ma è altrettanto vero, ad esempio, che puntare sulla parola “comunicazione” si è rivelato più un limite che una risorsa. Rispetto ad altri paesi, ci è sembrato meglio scegliere il termine più unificante, piuttosto che concentrarci su etichette che evidenziassero aspetti di dettaglio come il giornalismo o la pubblicità, che sono in fin dei conti una piccola parte di quel mondo. Oggi, però, l’etichetta che abbiamo scelto è diventata un peso, da un lato perché si tratta di una parola metaforicamente molto forte per indicare un territorio, ma che non permette di capire con precisione gli oggetti di studio; dall’altra, dobbiamo ammetterlo, siamo un paese in cui in molti corsi di laurea in Comunicazione non si studia comunicazione, ma si declinano discipline affini in un contenitore che in questo modo viene svuotato di senso. Prima però di pensare a una innovazione del titolo, sarebbe bene che la politica e il Ministero



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assumessero un principio di responsabilità meno vago di quello che si è soliti ascoltare. Forse è arrivato il momento di pensare a una precisazione e concretizzazione del titolo del curriculum: l’epigrafe di Scienze della Comunicazione è stata certamente utile per costruire la novità di un ambiente culturale, ma se non è più all’altezza delle aspettative della società italiana occorrono nomi più analitici. È un fatto, però, che il primo argomento su cui si regge la disputa su Comunicazione, la legittimità stessa dello studio delle discipline comunicative, è un falso: questo curriculum fa parte della modernità, ed è quindi un elemento irrinunciabile in un paese che alterna impressionanti momenti di innovazione ad arretratezze conclamate, senza trascurare il peso delle rendite clientelari che nel nostro paese assumono un sapore medievale. Pensiamo all’importanza che ha la famiglia nell’accesso al mondo del lavoro, o nella gestione della crisi: è dimostrato che l’unico salvacondotto per scongiurare il radicamento della crisi economica in Italia è stato quello che potremmo definire welfare familiare. Anche se la famiglia “non funziona” forse quanto in passato, essa resta l’elemento forte dei destini del mercato del lavoro e delle scelte macroeconomiche del paese. Resta la piattaforma di partenza per il protezionismo nei confronti dei giovani; basti pensare alla supplenza informativa tipica solo del nostro paese, in cui gli adulti chiamano per conto dei figli i centri di orientamento al lavoro, o ricorrono alle consuete risorse dell’influenza personale o del lobbismo. L’università della comunicazione, prendendo spunto dall’efficace titolo che un giornalista autorevole come Paolo Murialdi scelse per pubblicare il rapporto della Commissione ministeriale sulla rivista in quel momento più autorevole sui sistemi dell’informazione, è un diritto di tutta la società, non solo dei giovani. Non è solo il fatto che i giovani l’hanno scelta a rendere Comunicazione un problema politico, è che siamo al centro di una crisi del mercato del lavoro creata da un’euforia per la flessibilità scelta dalla politica, non certo dall’Università (che semmai ha tardato a comprenderne le conseguenze



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nefaste in termini di precarietà). E tantomeno dai giovani. A peggiorare una situazione creata con scelte dissennate, la politica crea un problema di riconoscimento della legittimità di una scelta fatta da tanti studenti, rinunciando a ridurre le distanze cognitive e linguistiche tra le generazioni, a capire i segnali che i giovani mandano attraverso la scelta degli studi da intraprendere.
Il secondo elemento da chiamare in causa riguarda le analisi previsionali sullo sviluppo del mercato del lavoro. Da tempo, l’Unione Europea realizza stime sui fabbisogni del mercato del lavoro a 5/10/20 anni: si tratta di un campo di studi molto interessante, il cui maggiore esponente italiano è probabilmente Nicola Cacace4, che con pochi altri studiosi costituisce il ceto innovativo di quanti studiano le prospettive del mercato del lavoro. Il meccanismo di analisi dei fabbisogni declinato secondo questa logica apparentemente troppo coraggiosa si fonda sui trend di sviluppo, cioè su una logica scientifica ovvia, che dovrebbe presiedere alle scelte di governo: prevedere, non gestire le emergenze. E se Università e politica non si incontrano mai, a prescindere dagli schieramenti, il problema è cognitivo: la politica è attenta essenzialmente all’emergenza dell’oggi, e pensa al successo elettorale, che è dato essenzialmente dagli adulti, sottovalutando l’importanza delle previsioni di medio/lungo periodo, le scelte dei giovani, ciò che il domani porterà. Tutte le previsioni relative allo sviluppo del mercato del lavoro negli anni in cui è stata fondata Comunicazione erano concordi nel sostenere che il deficit della società italiana era sulle professioni cognitive: anzitutto insegnanti, sia per la scuola che per l’alta formazione. In quest’ultimo caso, il numero di professori era ridicolmente basso, e la risposta della politica a questo gap professionale è stata un’eccessiva alimentazione della figura del docente a contratto, piuttosto che l‘investimento sul rinforzo dell’infrastruttura formativa. I curricola di Comunicazione sono stati autorizzati prima che ci fosse un numero di specialisti di materie comunicative



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sufficiente a far nascere seriamente queste istituzioni. Davvero si pensa che possa essere colpa solo dell’Università? E dove stava la politica con i suoi compiti di vigilanza, quando gli Atenei facevano queste scelte? La verità è che è mancata cultura in troppe dimensioni della decisione: la domanda proveniente dai giovani è stata gestita con una logica d’emergenza e non volendo leggere con attenzione i dati e le previsioni pur disponibili. Oltre agli addetti all’elaborazione della conoscenza, il mercato del lavoro era affamato di informatici e comunicatori: molte di quelle previsioni si sono rivelate esatte, come hanno dimostrato i dati di Unimonitor fin dal 19975, e mantengono anche oggi la loro validità. Molte delle criticità del mercato del lavoro sono ancora da cercare in professioni qualificate e legate all’elaborazione della conoscenza e alla gestione di quei beni immateriali che sono i flussi di dati e di comunicazione.
La bolla speculativa che ha investito Comunicazione può essere riassunta come segue. In Italia aumentano da sempre le imprese comunicative: neppure la crisi è riuscita a fermare la crescita delle industrie della radio, della televisione, dell’editoria. Ora, con l’esclusione dei quotidiani e della pubblicità, tutte le altre industrie sono in crisi solo apparente. Se aumenta la domanda di comunicazione, il bisogno di professionalità dovrebbe coerentemente espandersi. Dal punto di vista del numero delle imprese, e della valorizzazione economica e industriale della comunicazione, l’esplosione in atto dagli anni Ottanta concede qualche segno di difficoltà, ma non segni di recessione biblica. Se diminuisce la televisione generalista, aumenta quella digitale; se la radio non dimostra un exploit, nuove emittenti nascono continuamente; se i quotidiani perdono lettori, ciò è compensato in parte dalla free press ma soprattutto dall’attivismo informativo sulla Rete. È come se si manifestasse un rozzo meccanismo di valorizzazione capitalistica nei diversi comparti dell’industria culturale: la nascita di nuove imprese implica in tutti i paesi del mondo un guadagno per gli investitori, ma questi profitti non si espandono fino a coinvolgere garanzie di apertura e di



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stabilità per nuovi operatori e giovani. Eppure, non si può dire che ci sia una crisi del prodotto. La fame di comunicazione è caratteristica della modernità, e qualifica gli esseri umani soprattutto in tempi di crisi. Le imprese si dilatano, e la domanda sociale è tutt’altro che disponibile alla contrazione, anzi è semmai propensa alla diversificazione, quindi ad un ulteriore aumento. Se aumentano le imprese, e aumenta la richiesta sociale di beni comunicativi, per quale motivo non dovrebbero aumentare gli addetti e gli operatori del sistema dei media? È una vera e propria bolla speculativa, quella che ambiguamente si manifesta intorno a Comunicazione. Aumenta la chiacchiera e il prodotto, ma non le risorse umane che davvero attesterebbero l’esplosione strutturale di un settore. Il deficit degli addetti nel settore della comunicazione porta con sé una serie di rischi, compresa l’ipotesi che quanti hanno avuto la fortuna di entrare nel tempio della comunicazione temano i nuovi venuti. Di fatto, un equilibrato meccanismo capitalistico vorrebbe che, all’aumento delle imprese e della richiesta di mercato, si espanda prima o poi anche il guscio degli addetti. Se questo non avviene significa che c’è paura della diffusione sociale della comunicazione, o che comunque vincono arretratezze cultuali e contraddizioni politiche.
Il principale nodo culturale è che in Italia non passa la cultura dei dati. Le osservazioni sui trend, sulle leggi del mercato e sul modo di prevederle invece di restarne travolti, sono soffocate dalla cultura dei salotti e della superficialità tanto della politica quanto dei giornalisti. Governare significa conoscere i meccanismi di sviluppo della società, ma la politica italiana rifiuta la cultura della simulazione e della previsione, rifiuta la cultura dei dati e pertanto non riesce a passare a un livello razionale sia di gestione delle imprese formative e comunicative sia di polemica sulla loro funzione sociale.
Le contraddizioni culturali del mercato del lavoro richiederebbero una trattazione molto più in profondità di quanto qui si possa fare, ma rispetto alle quali rimandiamo agli interventi di Andrea Cammelli, Stefano Rolando e Barbara Mazza nel volume.



Nel nostro paese, le dispute sulle risorse pubbliche della comunicazione, quelle che toccano il cuore e la testa delle persone, non sono ispirate ad una logica di trasparenza, né di pari opportunità in ingresso. Una serie di arretratezze specifiche insopportabili – non si può ad esempio pensare che il figlio di un giornalista sia più portato di altri a fare il giornalista – drogano l’accesso al mercato del lavoro, e i segnali del superamento di questa condizione sono molto pochi. Tra questi, la discussione bipartisan della riforma dell’accesso alla professione giornalistica, che imporrebbe il conseguimento della laurea, e che è in un’avanzata fase di discussione presso la Commissione Cultura della Camera.
Ultimo elemento, il familismo amorale. Rispondere alla diffusa richiesta formativa proveniente dalla società, e in particolar modo dai giovani, ha rappresentato una piccola rivoluzione democratica: dopo l’allargamento dell’accesso all’istruzione, garantito per certi versi in modo scomposto e ideologico dal Sessantotto, ma più incisivamente ancora dalla riforma della scuola media unica e obbligatoria, la promessa sembrava quella di uno strumento in grado di consentire l’accesso alle privilegiate professioni della comunicazione a soggetti che mai avrebbero potuto affacciarsi alla mensa del ricco Epulone. Ma la prospettiva che le classi medie e popolari, i nuovi barbari, stranieri in quanto non apparentati, neppure metaforicamente, con gli attuali esattori delle rendite di posizione comunicative, potessero accedere al tappeto rosso della comunicazione senza chiedere il permesso, è evidentemente inaccettabile per quanti, nei media come nella politica, vedono insidiati piccoli poteri di disposizione o addirittura monopoli di scelta. Secondo un meccanismo non troppo dissimile a quello identificato da Banfield, per il quale le ragioni del mancato sviluppo della Basilicata dei tardi anni Cinquanta stavano nella tendenza dei suoi abitanti a massimizzare i vantaggi immediati per la propria famiglia nucleare piuttosto che cooperare alimentando uno spirito di comunità, l’attacco all’Università e a Comunicazione rappresenta una forma di autotutela di una élite. Ma stavolta la parola più esatta è proprio quella



apparentemente acritica di casta, schierata contro un accesso alle risorse più pregiate che dipenda solo dalla preparazione e dall’impegno del singolo. In questo senso, il fenomeno di deimmatricolazione che colpisce non solo Comunicazione non rappresenta tanto una risposta alla crisi, quanto il tentativo di tener chiuse le porte della cittadella ai figli delle classi subalterne. I barbari non devono entrare nei salotti buoni.
Non sembri che questa denuncia sia troppo dura. E in ogni caso, non è in difesa di privilegi ma della domanda giovanile, di cui un docente è comunque interprete, soprattutto se non fa solo demagogia. E per correggere il tono forse tribunizio di alcuni assunti, la domanda che dà concretezza è: come si può uscire da una simile situazione? L’Università deve certamente fare qualcosa di più, deve provvedere perché i curricula siano sempre in linea con i processi di cambiamento della società, puntare più sulla Rete che sui media generalisti, ad esempio, certificando la fine della lunga fase imperiale della televisione. Bisogna premere di più sulla politica: non opporre alle accuse il silenzio di una categoria ingiustamente maltrattata rispetto ai saperi documentabili e verificabili, come quella dei laureati in Comunicazione. Il silenzio legittima l’arroganza. Serve una risposta non individuale, perché l’unica risposta individuale è il compromesso. La prospettiva è quella di far capire alla politica che si apre una “vertenza di generazione” se si continua a trasformare i giovani laureati in soggetti sociali che non hanno nulla da perdere.
Per quanto riguarda le responsabilità istituzionali dei docenti, lo sforzo è ovviamente quello di comprendere sempre meglio il mercato della comunicazione: sembra ancora che le distanze tra i nostri curricola e le aspettative esterne siano dissonanti.
Studenti e professori in buona fede sono colpiti allo stesso modo dalle polemiche su Comunicazione, e devono dunque trovare il modo di uscirne insieme, proprio ispirandosi a un celebre motto della Scuola di Barbiana: “ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio; uscirne da soli è l’avarizia, uscirne tutti insieme è la politica”.



Note
1 Rimandiamo al XII Rapporto AlmaLaurea con particolare riferimento alla situazione occupazionale dei laureati di secondo livello: “Il numero di laureati specialistici che si dichiarano occupati ad un anno dal conseguimento del titolo è inferiore alla media in particolare nei gruppi letterario (50%), scientifico (48%), psicologico (46%), geo-biologico (35%), chimico-farmaceutico (33%) e giuridico (19%)” (AlmaLaurea 2010, p. 73). Lo stesso rapporto sottolinea una certa identità di destino tra i laureati di secondo livello del settore umanistico e sociale: “L’efficacia del titolo di secondo livello risulta complessivamente buona (è almeno abbastanza efficace per 81 laureati su cento; -3 punti rispetto all’analoga indagine di un anno fa); risulta inoltre particolarmente accentuata tra i laureati dei gruppi chimicofarmaceutico (93,5%), ingegneria (92%) e architettura (90%). Inferiore alla media, invece, tra coloro che hanno conseguito una laurea in lettere, giurisprudenza, scienze politiche o sociologia (le percentuali sono inferiori al 72%)” (Ivi, p. 90).
2 Il riferimento è alla puntata de “L’Arena”, segmento di infotainment del contenitore “Domenica In”, andata in onda domenica 2 maggio 2010. Rimandiamo anche all’articolo di Ruggiero in infra.
3 Il riferimento è alla puntata di “Porta a Porta” del 19 gennaio 2009.
4 Ingegnere, economista, esperto di previsioni strategiche, attualmente direttore scientifico della società di studi ISRI. Tra le sue pubblicazioni, Professioni e mestieri del 2000: rapporto sui cambiamenti, sull’occupazione, sulla formazione in Europa (FrancoAngeli, 1983); Professione Europa: i nuovi mestieri del mercato unico (FrancoAngeli, 1989); Oltre il 2000-Consigli per i giovani che lavoreranno nel terzo millennio (Franco Angeli, 1994); 2010, scenario delle professioni (Editori Riuniti, 2002), L’informatico e la badante. Professioni che partecipano al banchetto della globalizzazione e professioni che servono a tavola. Quello che i giovani devono sapere per affrontare il futuro (FrancoAngeli, 2007).
5 Unimonitor.com Osservatorio su formazione e lavoro nel campo della comunicazione attivo presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza, monitora gli andamenti e le opportunità occupazionali dei laureati, coerentemente con gli skills professionali richiesti, come pure alla luce di una serie di fattori che hanno di recente influito sul rapporto tra formazione e lavoro (il riformismo del sistema universitario, l’offerta specialistica post-lauream, il rapporto tra comunicazione e impresa). Per maggiori informazioni, rimandiamo al sito www.unimonitor.it.



Riferimenti delle opere citate nel testo e bibliografia d’interesse
AlmaLaurea, 2010, Condizione occupazionale dei laureati. XXII Indagine 2009, disponibile all’indirizzo http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione08/premessa.pdf
Banfield, Edward C., 1958, Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna 1976
Morcellini Mario, 1992, Modernizzazione culturale e nuove professioni nell’Università italiana. Il corso di laurea in Scienze della comunicazione, in L’università della comunicazione, numero monografico della rivista Problemi dell’informazione, n. 1
Scuoladi Barbiana, 1967, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze