Luciana Castellina a Milano, presentata da Ferruccio de Bortoli e Rosellina Archinto
Stefano Rolando
12 aprile 2011
Mi siedo tra le seggiole della Casa della Cultura – come facevo alla fine degli anni ’60 per sentire le sperimentazioni delle ricerche musicologiche popolari di Roberto Leydi – prendendo a metà la presentazione del libro di Luciana Castellina La scoperta del mondo (edito da Nottetempo da poco), che ripropone, con gli occhi di una lunga vita, il diario personale tra il 1943 e il 1948. Il diario di una giovane, bella, appassionata comunista italiana.
Lo presentano due alfieri della borghesia milanese, Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera e Rosellina Archinto, editrice, già repubblicana, compagna di Leopoldo Pirelli.
Interventi affettuosi e ammirativi. Rispetto per la storia, per quella storia, per chi ha voglia di raccontare storia. La parola nostalgia è evocata per esorcismo da Luciana Castellina, che ricorda la partecipazione del “dar senso“ alla vita, non per costruire “consenso”. Ricorda l’epopea della radiazione dal PCI – del gruppo del Manifesto – come scontro di visioni ideali. Ricorda i partiti produttori di cultura.
Castellina fu comunista e restò comunista impenitente. Pianse alla morte di Stalin, ritrovò il Pci dopo l’allontanamento e sperimentò varie neo-formazioni della sinistra cosiddetta antagonista, fece la vita parlamentare da militante.
Poi l’esperienza al Parlamento europeo e soprattutto la responsabilità maturata come presidente della Commissione per le relazioni esterne dell’Europa, sui grandi nodi economici e sociali dell’Europa verso i paesi terzi, negli anni stessi in cui il comunismo declinava (l’impero e il verbo), probabilmente ne ricompose una più moderna identità politica. Oggi diremmo un’identità da “liberal”, se fossimo in America.
Vedendo quel palco – composto di persone che stimo sinceramente (nel caso di Luciana, grazie a comuni battaglie per il cinema e l’audiovisivo italiano ed europeo, anche con affetto personale) – pensavo come mai l’evoluzione della generazione dei comunisti intellettuali verso un cosmopolitismo radicale e l’evoluzione di una certa borghesia italiana verso forme di liberalismo progressista non si sono incontrate sul serio. Ma solo per presentare libri, diari e memorie. Per qualche recensione o per qualche riconoscimento. Non sul terreno delle scelte del paese. La borghesia italiana, spaventata dai comunisti dopo il ’21, scelse Mussolini. La borghesia italiana, spaventata dai figli dell’album di famiglia, i terroristi irriducibili dell’ideologia comunista, alla fine della prima repubblica ha scelto Berlusconi.
A loro, in quel palco, avrei voluto chiedere per quali colpe, per quali remore, per quali distrazioni, non è rimasto altro che scrivere libri di ricordi e rendervi omaggio, tra le seggiole ormai frequentate da settantenni di un salotto di sinistra di Milano. Mentre l’evoluzione “di senso” ha punito anche le convergenze più prudenti, quelle tra i socialisti riformisti e i cattolici liberali, quelle tra i laici antimonopolisti e i borghesi weberiani, persino quelle del “compromesso storico” tra i cattolici sociali e il nostro eurocomunismo (a vedere oggi la sterilità del PD). Nessuna alleanza possibile è stata più forte di quella generata dalle derive della paura o dalle derive piccoloborghesi del populismo. L’Italia ha scelto diversamente dalle sue trame intellettuali più ardite. Ha sconfessato la cultura della Costituzione, ha preferito Feltri a Calamandrei, ha archiviato la storia e ha scelto la televisione. Intanto Castellina rispolvera il suo bellissimo diario dell’Italia alla prese con la ricostruzione e il Corriere della Sera ci ha allungato in edicola, a solo 1 euro, i trenta best-seller mondiali del pensiero della libertà.
Avrei voluto fare questa domanda. Ma era tardi. E anche alla Casa della Cultura, se è ora di rincasare, i dibattiti ormai restano virtuali.