“L’Olivetti dell’Ingegnere” (recensione del libro di Paolo Bricco – in Mondoperaio 9/2015)
mondoperaio – n. 9/2015
L’Olivetti dell’Ingegnere.
Analisi di una fantastica “anomalia storica”, curata da Paolo Bricco
Stefano Rolando
L’accurata ricostruzione che Paolo Bricco (inviato del “Sole 24 ore”, esperto di economia e politica industriale, con brillante competenza metodologica nella ricerca storiografica) fa del periodo dei diciotto anni di presidenza di Carlo De Benedetti in Olivetti, non è un’analisi che appartiene solo a un caso cruciale della politica industriale italiana del ‘900. E’, al tempo stesso, anche altre cose. La filigrana della crisi della classe dirigente italiana dal tempo di avvio e consolidamento della globalizzazione. La storia dei rapporti tra industria dell’innovazione e politica italiana. L’approfondimento di cause di solito meno indagate attorno alla crisi della “prima Repubblica” e alla formazione della “seconda Repubblica”. Un’indagine esemplare sulla figura dell’outsider nella storia millenaria del nostro Paese (considerando outsider tanto l’Olivetti quanto l’ingegner De Benedetti).
Seguendo queste piste ho letto, con qualche ritardo ma con vivo interesse, le 426 pagine di “L’Olivetti dell’ingegnere” edite dal Mulino a fine 2014, di un autore che aveva già consegnato all’apprezzamento dei lettori la parte prodromica di queste argomentazioni – che è tuttavia parte essenziale invece della sua attenzione attorno alla storia dell’Olivetti – pubblicando nel 2009 “Olivetti prima e dopo Adriano. Industria, cultura, estetica” [1].
Un’ulteriore pista di lettura – marginale per tutti, così da chiedere scusa per la derivata, ma non per la mia riconduzione di alcuni elementi di analisi al vissuto – è di avere partecipato di persona agli ultimi due anni di quella vicenda, ovvero quelli dell’epilogo tra il 1995 e il 1996. Per avere accolto, dopo una certa titubanza, l’offerta di De Benedetti di dirigere le relazioni esterne e istituzionali del gruppo, lasciando dopo dieci anni l’amministrazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, una volta che lo stesso ingegnere (insieme a Corrado Passera e a Barbara Poggiali) aveva portato a compimento un fenomenale road-show internazionale finanziando con oltre 2.500 miliardi di lire la sostanziale trasformazione dell’Olivetti in una global public company a guida italiana. Ciò per perseguire il progetto (di Elserino Piol, in primis) di una geniale trasformazione dalla crisi (ormai divenuta europea) dell’informatica verso l’importantissima pluralizzazione dei soggetti produttivi italiani nel mercato italiano ed europeo delle telecomunicazioni. In cui il protrarsi anomalo della posizione monopolistica di Telecom Italia metteva a rischio la prospettiva competitiva italiana nel settore. Un settore che proprio nel 1995 viveva la sua trasformazione radicale con l’avvento di internet.
La questione ovviamente andava spiegata alla politica, ai partiti, al governo , al parlamento per accelerare l’introduzione di una normativa nazionale che, incoraggiando in modo asimmetrico le new entry, consentisse di adattare in tempo utile la normativa europea sulla concorrenza. Così da premiare gli investor rispetto alla loro attese, ma anche mettendo in condizione l’azienda di fronteggiare le perdite ormai generalizzate dell’informatica europea e salvaguardando così in modo non drammatico la rigenerazione delle risorse interne, per altro già provate da difficoltà prolungate.
Era questa una delle più importanti battaglie di interesse generale, in realtà, che in Italia si potevano svolgere in quel periodo, segnato da una fase transitoria, confusa, trasformista, della politica italiana.
Ma che portava nella mischia delle decisioni politiche gli interessi di un gruppo guidato da chi era al tempo stesso anche l’editore di Repubblica – evidente fattore di divisione – e soprattutto una personalità che da anni interveniva nel dibattito tra politica e impresa con decisionalità, inconsueta chiarezza e asprezze che lo facevano oggetto di stima e di inimicizie in pari misura.
Come si sa quella storia andò male. La fine del ’95 – anche se il capo di Telecom, cioè Ernesto Pascale, proprio in visita ad Ivrea, lui che aveva un esercito contro la nostra pattuglia, ebbe la generosità di dire che avevamo messo nelle relazioni parlamentari “una macchina da guerra” – ci fece misurare la drammatica maggioritaria dipendenza, la parola è meditata, dei parlamentari italiani al bisogno di prendere tempo espressa dal pachiderma Telecom, rispetto al bisogno di Olivetti outsider di ridurre tempo. Nel ’96 gli investitori reclamavano già il ritorno dei loro fondi assegnati. Dunque o via il capitale o via la prima linea. Francesco Caio si incaricò di liquidare la prima linea per salvare le risorse finanziarie. Ciò – dopo l’abbandono di Passera[2], Piol [3], Celli [4] eccetera – colpì alla fine lo stesso ingegnere, di cui Caio era stato un intelligente assistente. E un manager di terza fila, Roberto Colaninno, in un diverso contesto politico, lanciò poi, con il frutto della vendita a Mannesmann [5] di Omnitel, l’opa Olivetti sulla spossata Telecom portando a termine quella incredibile battaglia che avrebbe tuttavia anche significato la fine della Olivetti per come nel corso del ‘900 era stata conosciuta.
Ciò che qui ho ridotto a poche righe di “vissuto” al tempo mi aveva lasciato interrogativi pesanti. Sul perché, sul come, sulla natura dei processi industriali e politici, sul giudizio possibile nei confronti degli stessi protagonisti. A cominciare dalla complessità – psicologica, caratteriale, umana, manageriale – dell’ing. De Benedetti. La vita non mi ha permesso di meditare troppo sulle risposte. E quel breve episodio di strattonamento ho finito per rubricarlo come una esperienza in fondo ammaestrante, perché tornare in un clima di battaglia di impresa – dopo gli anni dell’amministrazione dello Stato – era comunque un privilegio di apprendimento manageriale e una misurazione della realtà. Ne avrei beneficiato soprattutto dopo, scegliendo un’area disciplinare economica per svolgere, diciamo pure in età avanzata per simili cose, il mio approdo accademico per concorso.
Ma molte delle risposte mancate mi sono invece venute ora con la lettura del testo di Paolo Bricco.
A mo’ di recensione, elenco qui le “risposte” – o per meglio dire alcune delle suggestioni – che avverto come più interessanti.
Nel capitolo centrale sulle relazioni con la politica, che raccoglie qui, in una cinquantina di pagine, tutta la materia, lasciando poi il resto dei capitoli nel trattamento secco della vicenda industriale e finanziaria, l’autore è comprensibilmente attratto e affascinato dalla reciproca seduzione tra il PCI di Berlinguer e l’ingegnere. Questa seduzione si trasferirà dopo la scomparsa del leader sardo, descritto con dettagli giornalisticamente sottili, sulla emergente figura di Massimo D’Alema. Il grosso di quella seduzione non avveniva per atti principalmente pubblici, ma con una frequentazione riservata costruita dalla tessitura – e spesso nella casa – di Tonino Tatò, braccio destro del segretario generale del PCI. Questo rapporto ha una sua specificità naturalmente piemontese e si avvia nel tempo stesso dei “100 giorni” di De Benedetti in Fiat. Bricco annota con correttezza che De Benedetti percepisce nel sistema comunista anche ostacoli e critiche pesanti (da Chiaromonte a Colajanni) sia per i “modi” sia per i “tagli occupazionali”; critiche a cui l’ingegnere riserva commenti pubblici in cui affiorano espressioni inaccettabili per il partito dei migliori, come quella di essere “cialtroni” [6].
In sostanza l’infatuazione intellettuale per l’imprenditore innovatore e decisionista, capace di mettere in riga la palude confindustriale del grosso degli imprenditori italiani ammalati, per interesse, di doroteismo, che certamente Berlinguer e D’Alema ebbero,non fece comprendere che quel partito (e il sindacato della CGIL allora strettamente collaterale) tanto avrebbero lusingato quanto avrebbero, con altre figure, ostacolato la trasformazione dall’informatica di stabilimento alle telecomunicazioni di ricerca e di servizio.
Il rapporto “naturale” di De Benedetti con i repubblicani (Visentini e La Malfa, in primo luogo)non racconta niente di nuovo. Mentre è evidente che l’analisi è avara, senza rischiare una parola di troppo, sull’evanescente rapporto tra l’ingegnere e le due forze centrali della politica italiana degli anni ’70 e ’80, cioè socialisti e democristiani. Storia segnalata superficialmente con il carattere della diffidenza (fa eccezione l’esplicita stima per Giuliano Amato [7]). Se è avara perché non c’è altro nelle carte consultate, il limite è da attribuire senz’altro a De Benedetti. Ma se ci fosse altro – partendo dal solo fatto che un imprenditore di quel livello non può non avere un forte principio di realtà – allora un ricercatore del valore di Bricco ci deve qualche supplemento.
Nella fase che vede l’avvio del progetto di trasformazione (anzi di “mutamento di natura”, dice l’autore) della Olivetti già salvata e raddrizzata da De Benedetti nel suo ciclo di vita dell’informatica, molte pagine del libro vanno dietro a due progetti assai noti, in due diversi campi di battaglia, uno in Europa, l’altro in America: la scalata alla Sociètè Genèrale de Belgique (conglomerato industriale) e l’accordo industriale con AT&T (compagnia telefonica USA fondata nel 1983).
La scalata fu duramente avversata dal “circuito chiuso” degli interessi belgi sostenuti dalla francese Suez. Mentre l’accordo con gli americani che si avviava a successo – ma che avrebbe ridotto l’autonomia Olivetti – fu alla fine oggetto di imprevista rinuncia da parte dell’ingegnere. Nel quadro di una sorta di psicodramma sulla natura stessa delle risorse manageriali a disposizione per reggere le conseguenze dell’accordo.
Bricco attribuisce a queste difficili battaglie in giro per il mondo e alla loro tecnicalità, che richiede un decisore in tensione costante su ogni dettaglio, la responsabilità di uno sviamento di energie manageriali che indebolì seriamente l’Olivetti. E’ vero che questa fu la percezione del gruppo dirigente dell’azienda. Ma è anche vero che, dopo questo scenario, si deve andare al recente accordo di Marchionne con la Chrysler per ritrovare nel capitalismo italiano il gusto e l’importanza di battaglie egemoniche (che a suo modo impegnarono anche lo stesso Adriano Olivetti) che, in diversi contesti e diversi tempi, sono il tessuto di vitalità e di interdipendenza non solo della cultura finanziaria, ma anche di quella specificatamente legata alla mobilissima cultura dell’innovazione e della internazionalità (di cui l’Italia – capitolo moda a parte – purtroppo è più ricca commercialmente che industrialmente).
La riflessione di chi operò, sia pure brevemente e fuori dagli ambiti decisionali finanziari, a valle di quelle due “guerre napoleoniche” fu di avere poco percepito e quindi troppo poco analizzato in quel contesto questa storia e le sue conseguenze che, in un certo senso, il management allora, molto segnato dalla ridotta eporediese, aveva voglia di dimenticare. Ma le pagine di Bricco qui mettono in risalto l’importanza della relazione tra la capacità un po’ ritrovata dell’industria italiana negli anni ottanta verso un capitolo di internazionalizzazione a cui i due progetti debenedettiani, che non furono accompagnati da tifo nazionale[8], avrebbero portato comunque una sferzata mentre il loro insuccesso ampliò i caratteri di crisi.
Molto bello in questo libro – sono soprattutto le pagine iniziali a trattare il tema – è il rapporto tra le storie industriali che avvengono nell’ambito dei confini e delle regole dell’establishment (in cui Torino è una capitale simbolica e sostanziale) e che, nel corso del ‘900, sono altresì segnate da obbedienza alla cultura organizzativa del fordismo, e quelle che, pur generandosi dentro questi confini, tentano la trasgressione, la ricerca di altre modalità, di altri paradigmi.
Da questo punto di vista l’incontro tra l’Olivetti olivettiana a Ivrea (che gravita commercialmente su Milano) e Carlo De Benedetti, pur nella evidente differenza tra i fondatori e il continuatore, è quasi un fatto segnato dal destino. Ma tutta l’evoluzione di questo percorso, un lungo percorso, con i suoi alti e bassi, con i suoi risultati e le sue punte di declino, con le diverse progettualità e le speranze ingenerate, continuando tuttavia a far percepire per decenni l’approdo professionale in Olivetti come la meta preferita dei laureati italiani di ogni città e di ogni disciplina, è e resta la scommessa sul ruolo dell’outsider che la storia italiana legata al modello binario identitario rosso o nero (nord e sud, cattolici e comunisti, ricchi e poveri, destra e sinistra, città e campagna, eccetera, eccetera) ha guardato con sospetto, favorendo alla fine lo schiacciamento della novità anche se con manovra a tenaglia di forze opposte.
Naturalmente la vecchia comunità olivettiana – in un giudizio spesso limitato al “prima” e al “dopo” – alla fine ha votato “no” all’Olivetti dell’Ingegnere. L’analisi di Bricco contestualizza l’azienda italiana nella perdita di strategicità industriale dell’Italia nella parte finale del ‘900. Non fa sentenze, ma certo non condanna.
Una piccola sorpresa – colta in verità più con divertimento che con sdegno – è costituita dalla privata corrispondenza tra De Benedetti e Berlusconi che, pur nel quadro di conflitti già espliciti di concorrenza industriale, di interessi finanziari, di visione e posizionamento politico, rivela la capacità di entrambi di alcune complicità (allusioni, anche una battuta sulla convergenza “sulle 3 F su cui non ci si deve attaccare”).
Lo stile imprenditoriale. Quando Bricco parla delle fasi di declino mette in rilievo una questione di tempra. La fragilità di tante imprese per molto meno faceva correre gli imprenditori verso la mediazione politica per ottenere ossigeno negli istituti di credito. La ricetta dell’ingegnere di fronte ai cicli negativi del mercato è di scuola ed è fondata su tre criteri: “controllo di gestione quale leva manageriale, finanza di impresa per (provare a) garantire salubrità al corpo industriale olivettiano; diversificazione, con i primi pensieri sulla telefonia cellulare, datati 1989”.
La prima linea. Fa parte dello “stile” l’aggressione preliminare al tema della dirigenza. Siamo qui nel racconto di fine anni ’70, quello dell’eredità di una azienda che dal punto di vista organizzativo viene definita “slabbrata”. L’approccio dell’ingegnere è che la “prima linea” abbia reputazione e sia stimabile. Ma ha dato, a suo giudizio, tutto quello che aveva da dare. Viene azzerata e sostituita dai vice (per loro del tutto inaspettatamente) con una motivazione drammatica (già sperimentata in Fiat): siamo all’ultima spiaggia.
Si crederà che le oltre 400 pagine del trattamento offrirebbero ancora molte chiose.
La penna di Paolo Bricco non santifica ma non condanna. Prevale l’idea che la parabola negativa dell’Olivetti alla fine sia maturata nella insufficiente percezione da parte del Paese della risorsa nazionale che il suo progetto di trasformazione avrebbe assicurato, ma in un quadro in cui l’imprenditore aveva una presa manageriale e uno stile di conduzione, appunto, non riconducibili alla duttilità e ai compiacimenti di una cultura imprenditoriale forse meno strategica e con più blande personalità.
Per le necessità del Paese di avere – materia non diffusa – politici di carattere e in pari tempo imprenditori di carattere, queste riflessioni sono ascritte a un certo senso di sé, ovvero a un senso di alterità e di differenza dagli altri, in cui De Benedetti appare in pura continuità con Adriano Olivetti.
Con dentro il suo mistero, in un certo senso anche il codice di una certa sua doppiezza [9]. Quella, per esempio, di avere nel giro di pochissimo tempo accettato di guidare e poi voluto abbandonare niente meno che la Fiat[10].
Paolo Bricco, L’Olivetti dell’Ingegnere,pagg. 426, Il Mulino,2014.
[1] Edito da L’Ancora del Mediterraneo.
[2] Che nell’orbita di Carlo De Benedetti, nel decennio 1985-1995, aveva realizzato molte missioni di alto management: CIR, Credito Romagnolo, Mondadori, Espresso, Olivetti.
[3] Che nel suo libro Il sogno di un’impresa (Sole-24 ore, 2004), introdotto da Luciano Gallino, racconterà che nell’uscita sarà preceduto dai traslocatori che gli tolsero la scrivania mentre vi lavorava ancora.
[4] Che dà una sua versione, in versi ed epigrammi, dell’esperienza in Omnitel e in Olivetti consegnandola al breve e pungente libro Graffiti aziendali (Sellerio,1996).
[5] Azienda secolare tedesca (dalla meccanica alle TLC) che ai primi del ‘900 aveva creato la Dalmine e che nel 2000 viene assorbita dall’inglese Vodafone AirTouch.
[6] Paolo Bricco rintraccia i carteggi personali che individuano in Marco Vitale una delle figure più attive nel promuovere la mediazione tra Colajanni e De Benedetti.
[7] E’ Francesco Caio – nella testimonianza resa all’autore nel 2014 – a ricordare che il ruolo svolto da Amato soprattutto come presidente della Autorità garante della concorrenza e del mercato fu “prezioso”, malgrado le tensioni politiche del contesto competitivo con Telecom, per dispiegare le potenzialità di Omnitel.
[8] Ma che Alfredo Reichlin – uno dei dirigenti di punta del PCI – giudica invece, nei ricordi riportati dall’autore, “una dimensione internazionale molto interessante”.
[9] All’interpretazione che Elserino Piol – in auge – dava di questa complessità (qui non riassumibile) ho dedicato un capitolo del mio libro Quarantotto (Bompiani, 2008) intitolato Elserino e l’Ingegnere.
[10] Sulla vicenda, Paolo Bricco scrive tuttavia le cinque righe più esposte a favore di Carlo De Benedetti dell’intero libro: “Fuori dunque. Ma anche dentro. Nel senso che la scelta di non cogliere l’occasione del profitto libico indica la capacità di distinguere l’industria e la sua progettualità di lungo periodo dai soldi per i soldi e mostra un sostanziale rispetto delle forme fra uomini d’impresa, anche nel già allora esausto capitalismo italiano”.