L’importanza dei segnali (analisi di Alessandro Aleotti, Milania, 5 marzo)
L’IMPORTANZA DEI SEGNALI
La vicenda delle liste di Formigoni e Polverini ci mette con chiarezza sotto gli occhi il dato di totale fragilità del nostro sistema politico fondato sui partiti. Sarebbe un gravissimo errore non cogliere questo segnale e derubricarlo a semplice incidente, ripercorrendo l’infausta scelta di sottovalutazione che, nel ’92, Craxi compì definendo l’arresto di Mario Chiesa come la banale vicenda di un “mariuolo”. Allora, il non capire cosa stava succedendo determinò una valanga che seppellì l’intero sistema partitico malato di corruzione. Oggi, sarebbe ancor più grave non capire che questo segnale (per altro, più tenue e “dolce” di quelli che si manifestano con il tintinnar delle manette) rappresenta un avviso di una potenziale valanga in grado di sommergere l’attuale sistema dei partiti, questa volata malato, non già di corruzione sistemica, ma di qualcosa forse di ancor più grave: una totale estraneità rispetto al corpo sociale, nell’illusione che sia sufficiente vivere sulle superfici della rappresentazione mediatica senza riattivare reali connessioni sociali. Cosa significa capire che questa vicenda rappresenta un segnale e non un incidente? Innanzitutto, smettere di pensare che con un timbro tondo questo non sarebbe successo e, invece, ringraziare il cielo che il segnale si manifesti in una maniera così “dolce”. Poi, prendere atto che il sistema politico ha definitivamente perduto la disponibilità a riconoscere, nella legge e nei magistrati che la applicano, un arbitro per le proprie contese. Il centrodestra mostra quasi con fierezza questo atteggiamento che, in realtà, appartiene all’intero sistema politico, nessun soggetto escluso (basti pensare alle parole di De Magistris sull’esito del processo Why Not). Purtroppo, un sistema democratico (seppur con forti venature partitocratiche) non può funzionare senza il riconoscimento di un arbitro che regoli la dialettica e il confronto politico. Insomma, se non c’è un arbitro, non si può giocare la partita della democrazia. Ma attenzione, non necessariamente l’arbitro deve incarnarsi nella magistratura e nelle leggi che essa applica. L’arbitro può essere anche un altro: fino a qualche tempo fa era dio, per la democrazia greca era il caso, la tecnologia potrebbe incarnarlo in un sistematico ricorso alla democrazia diretta, etc… Insomma, ci sono molte forme “arbitrali” a cui la politica può scegliere di sottomettersi, ma deve avere la volontà di farlo. Invece, se la politica non si vuole sottomettere a un soggetto che ne regoli le controversie, allora ha il dovere di mettere all’ordine del giorno la questione della “fuoriuscita dalla democrazia”. Dico questo con totale disincanto e senza alcuna enfasi moralista. Se non c’è democrazia è meglio prendere atto che non siamo capaci (o disponibili) a produrla. Per altro, fuori dalla democrazia non c’è la guerra civile, ma semplicemente altre forme politiche comunque praticate dall’antropologia umana. In estrema sintesi, queste forme si situano tra due punti cardinali: l’autocrazia e l’anarchia. Il primo è un sistema che concentra il potere in un circuito ristretto, ma esplicitato e universalmente responsabile di questo potere (ad esempio, la Chiesa funziona così). Il secondo è un sistema che dissolve il potere di delega politica sviluppando solo forme di autogoverno (ad esempio, internet funziona così). Se non siamo capaci di vivere nella democrazia, dobbiamo solo decidere se andare verso l’autocrazia o verso l’anarchia. Purtroppo, abbiamo un circuito partitico-mediatico che, invece di capire cosa sta realmente succedendo al sistema politico, preferisce battibeccare in tv su un timbro tondo o quadrato
Alessandro Aleotti (Direttore Milania), 5 marzo 2010