Lettera a Bruno Vespa su Scienze della Comunicazione

Lettera a Bruno Vespa
                    Milano, 20 gennaio 2009
                Caro Bruno,
nel cuore della notte – quando il mondo che ci interessa, che Porta a Porta per lo più ben presidia, lascia il posto alle vanità dei presentatori di libri, film, dischi e sogni inevasi di Gigi Marzullo – il tuo programma non dovrebbe riservare più sorprese. Se le è giocate nella lunga fascia oraria a disposizione. Di solito la redazione ha ben lavorato, le schede sono state serie, l’anchor-man sperimentato e, senza rinunciare al tono indagatorio, ha saputo tenere l’attenzione senza produrre risse e senza offendere. Merce rara. E tuttavia nel cuore della notte di ieri la sorpresa era in cauda. Io e gli italiani svegli abbiamo sentito con le nostre orecchie l’inusuale saluto di Bruno Vespa. Cari ragazzi, mi raccomando, studiate ingegneria che questo paese ha bisogno di ingegneri e non alimentate la catastrofica scelta di scienze della comunicazione.
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Qualcuno avrà già preso la penna. Lo faccio anch’io. Con la premessa fatta, perché considero Porta a Porta parte di una televisione responsabile. Per la nostra lunga conoscenza che risale ai miei tempi in Rai, allora assistente prima di Paolo Grassi poi di Sergio Zavoli. Per la condivisione di un atteggiamento critico ma appunto responsabile nei confronti del sistema italiano della comunicazione (a cui ho tra l’altro dedicato dieci anni di responsabilità del settore a Palazzo Chigi). Per aver fatto parte nel 1990 – allora con responsabilità istituzionali – della commissione ministeriale che istituì il percorso curricolare di scienze della comunicazione. E infine per aver fatto anni fa la scelta dell’università come professore di ruolo dopo molto management sia nelle aziende che nelle istituzioni. Naturalmente non lo faccio a scopo pubblico. Nel capitolo smentite e chiarimenti non spetta a me la difesa d’ufficio. Lo faccio per la tua equilibrata visione del problema, per il peso che il tuo lavoro ha nella rappresentazione agli italiani di questioni aperte.
Ho scelto di lavorare in una facoltà di scienze della comunicazione, nell’ateneo che a Milano (e credo anche in Italia) è considerato di punta nel settore, lo IULM, perché appunto specialistico, dove si immatricola e si laurea una quota importante di giovani. Ho scelto di farlo nel raggruppamento di Economia e gestione delle imprese, in cui ho vinto il concorso a cattedra, perché appunto qui (ma anche altrove) la visione di un operatore del settore è pluridisciplinare, per farne a seconda delle vocazioni un manager, un creativo, un imprenditore, un analista, eccetera. Ho scelto di farlo perché da almeno quindici anni assistiamo a una trasformazione strutturale dell’economia planetaria. La meccanica e poi l’energia – che avevano storicamente i primi posti negli investimenti e nell’occupazione – hanno ceduto la priorità su quasi tutti i mercati alle “comunicazioni”, intese come l’insieme degli ambiti in cui si fa industria e commercio, contenuto e condizione simbolica. Insomma un vasto mondo che contiene giornali e televisioni, telecomunicazioni e reti, creatività e interessi, politica e seduzione, servizio e solidarietà, segno e relazione. Mondo che non dobbiamo perdere troppo tempo a descrivere. E’ il nostro mondo. Ci abbiamo dedicato – io in tanti campi, tu con tanti pubblici – una vita intera. Dal momento che l’Italia non è la Ruhr, la trasformazione verso l’economia immateriale di una parte importante del sistema di produzione e lavoro è stata da noi rilevantissima. Ho coordinato l’anno scorso al Beni Culturali la commissione che ha valutato il peso della sola economia della creatività in Italia stimandone nel 10% l’incidenza sul PIL e nel 12% l’incidenza sull’occupazione.
In questo scenario che sforzo hanno compiuto le facoltà di scienze della comunicazione? Quello di mantenere un profilo di formazione culturale generale ma anche di intercettare un bisogno di qualificare l’approccio professionale che nel settore in Italia – con ritardo di mezzo secolo sugli Stati Uniti – era dominato da due culture che si vantavano di non laurearsi: i pubblicitari e i giornalisti, per i quali tutto si imparava a bottega. Io stesso ho memoria di grandi nomi del giornalismo italiano e della pubblicità, di cui sono stato e sono amico e con cui ho anche lavorato, che per l’ardore della professione avevano reputato di non “perdere tempo” con anni di ulteriori studi dopo la scuola secondaria. Nomi che conosciamo bene. Divenuti famosi, magari hanno cercato di procurarsi una laurea honoris causa per memoria del dispiacere che avevano dato a mamma e papà abbandonando gli studi.
Qual è il punto? Che arrivando mezzo secolo dopo il più grande mercato professionale della comunicazione – quello degli USA – l’Italia ha subito qualche condizionamento baronale (per esempio, troppa sociologia), non ha sulle prime trovato il giusto equilibrio tra culture umanistiche e scientifiche, tra culture teoriche e tecniche applicative. Ha insomma dovuto rodare un po’ le sue faculties in attesa di avere generazioni adeguate non di psicologi, sociologi, giuristi, tecnologi, economisti prestati alle scienze della comunicazione, ma – come posso dire ? – docenti scientificamente originati da questa disciplina. Non dico che ci siamo, ma si comincia a vedere la meta. Le sciocchezze di taluni atenei, dopo qualche anno, si sono (in parte) curate da sole. E per come è fatta l’Italia disegnano una carta geografica come quella delle spiagge pulite: bollini blu e bollini rossi. Anche se in altri ambiti del paese (centro-sud) la criticità dell’occupazione non ha risparmiato questo settore, togliendo aria ai nuovi corsi di laurea per mancanza di rapporti fruttuosi con il mercato del lavoro locale. Ma in generale la corrispondenza tra questi corsi di laurea e i nuovi profili del mercato del lavoro è stata interessante e innovativa. Lo vedo anche dai prodotti sperimentali che i ragazzi producono. Dal cinema alla radio, dalla tv alla multimedialità: in linea con la professionalità richiesta dal mercato. Lo vedo dalle migliori tesi di laurea, non inginocchiate (anche se molte lo sono) ma mettendo in rapporto cervello e sentimenti. In certi campi (penso alla pubblicità, per esempio) dove la cosa fa la differenza con l’apprendimento banale. Il placemenet da noi, intendendo tutto il ciclo degli studi (triennio, biennio di specializzazione e master), è incoraggiante. Non per miracolo. Ma perchè appunto è cambiata l’economia e c’è domanda. Quando c’è qualità e competenza nella offerta didattica. Si può dunque entrare nel merito e vedere se c’è qualità e competenza. Ma questa è un’altra indagine. Che dà – come TUTTO in Italia – risposte in chiaroscuro. Non dà – ne sono certo – una situazione “catastrofica”. Questa storia che ci vogliono “ingegneri” per biasimare le mode (una volta la moda di psicologi e sociologi oggi quella di scienze della comunicazione) è un vecchio adagio (forse anche con un po’ di cultura ambrosiana). Alcuni politici lo hanno qui e là rispolverato. Ma senza mai guardare i dati, i trend, le vocazioni reali. Quindi va inteso come un generico caveat a non seguire troppo le mode ma a misurare le scelte con effettive analisi di qualità dell’offerta (cosa difficilissima per studenti e famiglie) e con gli spazi del mercato del lavoro (cosa impossibile anche per la pochezza del giornalismo nell’indagare seriamente e liberamente questi spazi). Ora è vero che non bisogna “seguire le mode”. Ma non perché questa scelta si riveli “catastrofica”, perché andando a vedere poi in concreto, tra un laureato “pesante” in economia che esce dalla Bocconi e un laureato “leggero” che esce da un corso in turismo o in comunicazione, possono esserci pesi diversi di contenuti formativi. Ma è certo che questi “leggeri” incontrano bisogni flessibili di ingresso sul mercato del lavoro, partendo anche da posizioni medio-basse, che si traducono in lavorare subito e poi consentire al merito di selezionare. Mentre certi laureati “pesanti” (ingegneria, economia, eccetera) rischiano di finire per mesi e mesi a contar fatture in interminabili stages presso magari lodatissime società di consulenza, perchè la loro laurea (e le loro famiglie) hanno messo l’asticella più alta delle possibilità del sistema.
Concludo invitando ad una riflessione. Se la comunicazione è oggi conflitto forte tra propaganda e servizio, tra libertà e coercizione, tra accompagnamento critico e rincretinimento (non solo in politica ma anche sui consumi), come è pensabile che in questo campo non si ponga l’esigenza di avere luoghi che formino criticamente, cioè che aiutino il sistema ad avere – anche se ancora in quantità non sufficienti – operatori che si pongono domande e che sanno aiutare la ricerca di soluzioni più adeguate? E se oggi essa è valore e valori, perchè considerare “catastrofico” il tentativo di costruire facoltà con professori e con esperti che vengono a contratto dal mercato del lavoro generando un equilibrio tra “essere” e “dover essere” raro in altri campi? Penso che a Bruno Vespa sia scappata una parolina eccessiva. Anch’essa forse “di moda”. Se questa lettera ha uno scopo, è per invogliarlo a guardare la faccenda a tutto campo.
Un caro saluto
Stefano Rolando