Lavoro (1948-1962) a cura di R. Rega. Recensione

Rivista italiana di comunicazione pubblica
(trimestrale diretto da Stefano Rolando, presidente del comitato scientifico  Giuseppe De Rita, Franco Angeli Editore)
n. 37/2009 (in stampa)
 
Scaffale
 
Rossella Rega (a cura di), Lavoro 1948-1962. Il rotocalco della CGIL , prefazione di Guglielmo Epifani, Ediesse Roma, 2008, grande formato, pagg.172, €45,00.
 
 
Nel quadro di un’attenzione della CGIL  verso la propria storia e la propria identità, attenzione anche indotta dal centenario dell’organizzazione nel 2006, ma anche dal rapporto – oggi su più aspetti un po’ solitario – con i processi di tutela nel sistema trasformato del lavoro in Italia  e con i nessi tra opinione pubblica, imprese, istituzioni, politica e sindacati, la CGIL fa i conti con alcune sue esperienze, datate ma significative. Per esempio li fa grazie a questo magnifico libro di grande formato, in cui c’è  molto spazio per la documentazione e la fotografia, che – con il lavoro della curatrice Rossella Rega, studiosa di comunicazione politica e docente alla Sapienza a Roma (omonima di Rossella Rega, funzionaria della Presidenza del Consiglio dei Ministri e studiosa di comunicazione istituzionale, parte della redazione di questa rivista) – vede la luce presso la casa editrice sindacale Ediesse.
L’obiettivo lo spiega Guglielmo Epifani, segretario generale del sindacato: “ Fu il tentativo più coerente di creare un modello di informazione che ponesse al suo centro il mondo del lavoro, la vita di lavoratrici e lavoratori, le risposte sindacali alle urgenze della vita delle persone più umili che nella stampa degli anni cinquanta erano trascurate o affrontate con un campionario retorico incapace di rappresentare onestamente la durezza delle loro condizioni di esistenza”.
Primi conti da fare riguardano temi di cultura sociale attualizzata. Quella contraddizione probabilmente resta viva nell’Italia di oggi, pur nella trasformazione radicale della classe operaia e delle condizioni di vita interne, solo allargando l’orizzonte al quadro del mondo del lavoro che si sta formando nel processo multietnico.
Secondo spunto, lo stimolo a ripercorrere biografie di grandi italiani il cui rapporto con la creatività e il cambiamento è stato interessante. Qui la storia riguarda Gianni Toti, giornalista creativo, che diresse quel rotocalco con lo sfondo della personalità di Giuseppe Di Vittorio, protagonista della vita sindacale del paese fino alla sua scomparsa nel 1958 (l’ultima pagina dell’inventario critico a cura di Rossella Rega è affidata, su Di Vittorio, non alla penna di un politico ma alla macchina fotografica di un reporter).
Il terzo spunto è attorno alla definizione che Rega dà di quell’esperienza editoriale: “giornale di massa”. In un certo senso misurata, neppure silenziosamente, con i settimanali che furoreggiavano prima dei moderni magazines politico-culturali, attorno a re e regine, star del cinema e ugole d’oro.
Sono qui passati al setaccio 670 numeri di Lavoro, che nasce editorialmente nel 1948, anno della vittoria elettorale della DC che innesca anche la fine dell’unità sindacale, con lo scopo di tenere un dialogo sull’Italia, l’Italia ben disegnata dal cinema del neo-realismo, con l’intera società. Come spiegava Fernando Santi al congresso della CGIL del 1952: “Bisogna parlare a tutto il paese perché quello noi facciamo interessa tutti gli italiani…superando il concetto di propaganda come pratica rivolta tutta all’interno dell’organizzazione”.
Per questo servono gli editoriali ma anche l’intervista a Silvana Pampanini che dice “organizzerò una festa per gli operai della Pignone”; serve l’inchiesta sulle lotte al porto di Genova ma anche il tifo italiano per Fangio e Ascari; serve la celebrazione del decennale della chiusura di Auschwitz ma anche Leonardo Sciascia che cura una rubrichetta su Marilyn Monroe. Tra le penne di Lavoro una giovane Lietta Tornabuoni, Arturo Gismondi, Giuseppe Dessì, Renato Guttuso, il citato Sciascia, Ando Gilardi (che innesca dibattiti sulla fotografia che coinvolgono studiosi come Pietro Bonfiglioli e Giuseppe Brunamontini) e molti altri.
La dialettica con i partiti – e segnatamente con il PCI – è un tema di questa rilettura. I fatti d’Ungheria del ’56 segnalano, per esempio, difformità esplicite (anche se non dirompenti) tra Botteghe Oscure e il sindacato, che Lavoro interpreta. Gli anni sono quelli della “guerra fredda” e lo schieramento resta questione politica ineludibile. Un medico di grido come Valdoni va a Mosca e fa notizia. La storia di un operaio stakanovista ungherese merita una pagina. Compito della pittura moderna – scrive Guttuso – è andare “a scuola dalla classe operaia”. Ma l’impianto resta più popolare che ideologico. Da far pensare che se quel giornale avesse vissuto gli anni ’60 forse avrebbe scelto la via del sostegno alle riforme, anche se il centro-sinistra ricevette l’incomprensione dei comunisti e di larga parte sindacale. Ma nel ’62, diremmo oggi “sul più bello”, quell’esperienza cessò.
S.R.