La Rai e Milano. Convegno della Fondazione P.Grassi (6.6.14). Relazione introduttiva

La Rai e Milano
Convegno della Fondazione Paolo Grassi
Sala Pirelli, Consiglio regionale della Lombardia – 6 giugno 2014.
Intervento di apertura del prof. Stefano Rolando
(docente di Politiche pubbliche per le Comunicazioni alla Università Iulm di Milano, membro del CdA della Fondazione Grassi,
presidente del Comitato Brand Milano, componente del Corecom della Lombardia)
 
 
Storia controversa, prospettiva necessaria.
Si converrà che questa volta un titolo (ovvero un sottotitolo) di convegno non è ambiguo.
Esprime più o meno tutto quello che volevamo si cogliesse in un evento che si articola in tra parti: ieri, oggi, domani.
Tre parti inevitabilmente orientate al futuro, perché la storia delle istituzioni, la storia dei territori, la storia dei processi economici e culturali non buttano via niente. Accumulano e distillano. Ci rimane una grande quantità di occasioni mancate. Dunque una lezione seria. Ma ci rimane anche un Paese che tenta l’uscita dalla crisi utilizzando alcune risorse essenziali. Tra di esse:
  • il suo polo trainante nella formazione del PIL, dell’occupazione e della preparazione della classe dirigente (che resta l’asse Milano-Lombardia, malgrado – ci dice ora Bankitalia – i 5 punti persi dal 2008);
  • il suo strumento più abbracciante, quando si tratta di connettere la realtà da rappresentare e la dimensione capillare delle famiglie italiane da coinvolgere (che resta il servizio pubblico radiotelevisivo) ;
  • l’emergere di una relazione tra economia e cultura in cui si creano nuovi equilibri fatti di creatività, di scienza, di tecnologia, in cui – tra la rete universitaria e la quantità di innovazione presente nel sistema di impresa – Milano non esaurisce le potenzialità del Paese ma resta il portale essenziale per la internazionalizzazione italiana (e l’Expo – se si smetterà di parlare di infrastrutture e si passerà a parlare di scopi – si configura come un passaggio strategico).
Molti dei presenti hanno per vera questa sintesi. Ma questa sintesi non è ancora tradotta in agenda. Non è nell’agenda della politica. Non è nell’agenda degli spender pubblicitari (qui metto il punto di domanda). Non è nell’agenda della Rai. La “diserzione” oggi – scusate la parola che uso malvolentieri -. del Direttore generale e dei membri del CdA invitati è un segnale che si poteva temere – accentuatamente negli ultimi giorni – ma c’era anche l’ipotesi che esso venisse contraddetto (e in proposito voglio ringraziare l’ing. Roberto Serafini, direttore Rai Milano, che si è molto prodigato e che più tardi interverrà).   Infatti è  chiaro che avere promosso un convegno che è già stato definit0 come “molto tempestivo” ha uno scopo prevalente: quello di essere smentiti. Peccato che alcuni interlocutori importanti nel dialogo che si avvia non abbiano potuto raccogliere l’invito, dal momento che un convegno così misura anche diverse opzioni su ciò che si intende per “priorità”. Ma è possibile anche che l’occasione abbia fatto mettere a fuoco ai più che invece partecipano alcune prospettive, in modo non solo difensivo o depistante. Chi ha a cuore “soluzioni” per la ripresa italiana, potrebbe mettere nel conto un tema di questo genere:
come far crescere in senso produttivo e internazionale la valorizzazione degli asset che stanno in gran parte in un territorio sotto utilizzato e sottorappresentato nei palinsesti non di puro intrattenimento del sistema mediatico nazionale?
Le conclusioni tratte dal Sindaco di Milano Giuliano Pisapia, dai vertici della Regione Roberto Maroni e Raffaele Cattaneo, il capo dell’azienda Rai Luigi Gubitosi è rappresentato dal suo vice Antonio Marano,  dopo un nutrito confronto di opinioni, sono un’ipotesi di lavoro e soprattutto una speranza di revisione.
Come ha detto già Davide Rampello, insieme a Francesca Grassi e agli amici della Fondazione, ne avevamo fatto oggetto di un convegno a fine 2013 presso la Fondazione del Corriere della Sera per connettere in generale televisioni e culture.
Qui il cerchio si stringe attorno a una città-portale e a un’azienda (in questi giorni nella bufera, ma quindi proprio per questo anche in benefica discussione) che – come le sue consorelle europee – è strategica nel rapporto tra economia, cultura e rappresentazione.
 
Qualche riflessione in più sul senso del disegno del nostro programma
Come per altri presenti, in questo titolo – la Rai e Milano – c’è molto delle nostre vite, dei nostri percorsi personali. La Rai è l’azienda in cui mi sono formato come dirigente, allora come stretto collaboratore proprio di Paolo Grassi in quella fase cruciale della fine degli anni ’70.
Milano è la mia città – in cui dopo un lungo periodo romano, nelle aziende e nelle istituzioni – sono tornato per insegnare e per dedicare alla città anche un palpitante – fatemi dire la parola – impegno civile. Fa parte di questo impegno l’incarico – esercitato con spirito volontario per il Comune – di coordinare un Comitato Brand Milano che, in vista di Expo ma anche traguardando Expo, punta alla ricapitolazione identitaria della città e del suo patrimonio simbolico. Rigenerare un certo racconto della città – come Milano fece in occasione dell’altro Expo, nel 1906 (o come fece dopo la Liberazione o come rifece negli anni ‘80 passando da un’economia fortemente materiale a una nuova forma di rapporto tra economia e creatività) – è oggi vitale.
Ma è anche un esercizio profondamente democratico, cioè basato su un nuovo e originale dibattito pubblico, non calato dall’alto per volontà di qualche sistema di potere.
In questo scenario la questione della rappresentazione – nazionale e internazionale – di Milano è in prima linea. Come gli addetti ai lavori capiranno bene, non sono gli RR regionali, gli spezzoni di TG3 che raccontano Milano e la Lombardia ai milanesi e ai lombardi, il modo di assicurare quel processo.
Da qui le miei osservazioni introduttive che richiamano – sia consentito – anche pezzi di esperienze, riferiti al passato e al presente.
 
RAI e Fondazione Paolo Grassi
Tra poco Carlo Tognoli – sindaco di Milano nel passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80 – parlerà di un dossier del Consiglio comunale di Milano conferito al milanese Paolo Grassi che, insieme all’altro milanese Pino Glisenti, il primo socialista il secondo democristiano, venivano chiamati nel 1977 rispettivamente presidente e direttore generale della Rai. Era il dossier degli irrisolti. Non anticip0 i temi. Mi limito a ricordare che quando arrivai – da lui chiamato da una mia esperienza professionale internazionale – a stretta collaborazione in Rai, nella stanza meravigliosamente costipata dalla storia del teatro e grondante milanesità di Paolo Grassi, al 7° piano di Viale Mazzini, fui liquidato con una delle sue battute : “leggi qui e fila a Milano, al primo punto il Dal Verme, sorveglia che sia tutto fatto in pochi mesi”.
Il CdA della Rai di quella seconda fase del dopo riforma era fatto da Paolo Volponi, Elena Croce, Enzo Cheli, Walter Pedullà, Nicolò Lipari, Pietro Adonnino, Giuseppe Vacca (cito solo una parte a memoria, solo per chiarire la qualità dei tempi). E quella Rai, dopo avere un po’ rimuginato, manderà a Milano non un funzionario qualsiasi, ma la testa pensante, il centrocampista della Rete 2 figlia della riforma, torinese, socialista lombardiano, aziendalista assunto perché leggeva Proust, Luigi Mattucci.  Sentirete anche lui. Il restauro del Dal Verme finì per essere terminato anni e anni dopo, quando la Rai – che pur mise soldi – non aveva più l’orchestra per utilizzarlo. Il resto del dossier – che prevedeva una tessitura di relazioni che pure ci fu (tra i tanti Sergio Escobar ne potrà parlare con la memoria anche ad esperienze personali e naturalmente Franco Iseppi che fu programmista a Milano divenuto poi direttore generale della Rai a Roma) – fu un trascinamento nei tre decenni successivi di annunci e contro-annunci, a poco a poco con tematiche superate dalla dinamica stessa del sistema delle comunicazioni (credo che Riccardo  Puglisi e Peppino Ortoleva riprenderranno questo fattore). Ma soprattutto schiacciato dal rapporto che la politica veniva assegnando alla relazione tra la Rai e il cosiddetto territorio. L’intuizione del rapporto privilegiato si schiantò con la crisi di una classe dirigente e con il ruolo – naturalmente su altri piani produttivi e distributivi – a poco a poco svolto dal maggiore competitor, cioè il sistema prima Fininvest poi Mediaset di Cologno Monzese.
 
Università e territorio
Da una dozzina d’anni insegno di ruolo a Milano tra l’altro una strana materia che è Politiche pubbliche per le comunicazioni che si basa sulla valorizzazione di un tema: il conflitto (nel caso dei sistema dei media, il conflitto di interessi) rappresenta un valore, anche maturativo del sistema, sempre che sia governato e sempre che guardi allo sbocco possibile degli interessi generali.
Questo conflitto – cito la prefazione del prof. Enzo Cheli al mio manuale – non è stato governato e il basso profilo di presidio degli interessi generali hanno tenuto le normative dei media separate una dall’altra per impedire un governo di sistema che da sola l’Autorità di controllo non può assicurare.
Tra parentesi la citazione del prof. Cheli (che come qualcuno saprà è incaricato di studiare il profilo costituzionale del provvedimento del governo che ha posto la Rai di fronte a un taglio di risorse) mi consente di ricordare che sarà nel pomeriggio il prof. Stefano Merlini – con l’autorevolezza che gli viene per essere parte di quello stesso nucleo di eccellenza nel campo del diritto dell’informazione – ad occuparsi di questo aspetto che investe anche la relazione tra Rai e le sue sedi decentrate).
Il rapporto tra tv e territorio, per riprendere l’argomento, in realtà  è finito dentro quella perdita di strategicità.
Intanto l’Europa ha aperto nel campo televisivo – e soprattutto nel campo delle tv pubbliche – una modulazione di governance in cui l’Europa stessa, il quadro nazionale e il quadro territoriale assumono valenze sostanzialmente paritarie. In particolare il Paese che alla fine tende ad assomigliarci di più (parlo di Milano e della Lombardia), malgrado le dicerie, cioè la Germania, paese che ha votato con noi per l’Europa e non contro l’Europa (come purtroppo hanno fatto Gran Bretagna e Francia) ha disegnato un modello di sistema pubblico che è lì, a disposizione del nostro distratto legislatore.
 Ma soprattutto è la sociologia, l’economia urbana, l’analisi dei radicamenti di forza rispetto ai processi di globalizzazione che ci hanno indicato in questi ultimi venti anni il ruolo ineludibile per lo sviluppo delle città. Città-forzieri, città-eventi, città-fonti di produzione
A questa analisi si collega la visione di un ribaltamento necessario del rapporto ormai consumato tra la Rai e i territori. E vi sono – nel nostro programma di oggi – molti relatori che, portatori di magnifiche esperienze, possono offrire le motivazioni responsabili di questo ribaltamento che aspetta solo il profilarsi di interlocutori degni di questo nome. Che vorremmo sperare che questo stesso convegno palesasse o che, comunque, la partita appena accennata del rapporto Rai-Milano-Expo mettesse in evidenza. Sono temi su cui molti tra i presenti oggi intervengono spesso, cito per tutti il vicedirettore del Corriere della Sera Giangiacomo Schiavi.
Pare evidente che la discussione sembra confinata in due o tre questioni per altro di rilievo ma che marginalizzano il disegno fin qui appena accennato e che per forza rimanda ad altre relazioni.
Si discute della nuova sede Rai, della perdita (voluta perché la licenza di costruzione lì è stata fatta scadere) di Corso Sempione, del destino degli studi di via Mecenate, del fantasma della proposta di trasferire la Rai sulla piattaforma di Expo. Certo che sono questioni. Ma se prima non si chiarisce la destinazione strategica di ruolo della Rai a Milano e per Milano, la questione dei mattoni è davvero marginale. Si discute anche di una redazione Rai per Expo. E si polemizza perché finora il suo perimetro operativo è a Roma. Debbo dire che mi scandalizza meno il fatto di dove sia questa struttura, rispetto alla nebulosità di ruolo circa le questioni che qui stiamo dibattendo.
Dunque rinuncio a dire la mia, ma apro anche su questo tema i riflettori alla nostra discussione improntata – come non può essere altro una discussione ispirata alla figura di Paolo Grassi – alla costruzione di nuove ragioni non alla sterile protesta.
Sia consentito solo un cenno, in questa introduzione generale. Dal momento che nei nostri convegni è la preoccupazione produttiva al centro dell’ipotesi di lavoro, si segnalano con interesse le dichiarazioni del consigliere di amministrazione Antonio Pilati nei giorni scorsi su Repubblica, attorno alla necessità di ribaltare il modello che ha fatto crescere l’esternalizzazione a favore di un progetto produttivo e industriale più accentuato. Peccato che il consigliere Pilati non abbia potuto approfondire qui il tema in rapporto al potenziale tessuto produttivo di Milano, città che lo riguarda come i due terzi dell’attuale CdA. E peccato anche che malgrado gli sforzi fatti per avere qui un rappresentante della Associazione dei produttori, alla fine nessuno sia stato designato.
In generale pare chiaro che senza risposte a quel tema di cambiamento strutturale – che per un certo tempo è stato immaginato attorno all’idea di una Rai-Fondazione, capace di aggregare anche membership socio-economica e territoriale, il nostro tema avrà risposte generiche e puramente intenzionali. Qui sono presenti molti che hanno preso parte a quel dibattito (Gentiloni, Merlini, altri tra cui lo stesso Pilati) e capiremo cosa è vivo e cosa è morto di quel progetto.
 
Due angoli visuali: dall’esperienza di governo al Corecom
La mia esperienza negli ambiti delle comunicazioni alla Presidenza del Consiglio dei Ministri è stata lunga e per me molto incidente. Ho fatto tuttavia non pochi ripensamenti – passati quasi venti anni – circa la visione statocentrica di quelle responsabilità. Piero Bassetti, che da quegli anni resta per me punto di riferimento e di dialogo sul tema del rapporto tra il paese e questa città, e che parlerà nel pomeriggio, ha presentato tempo fa anche un mio libro diciamo così autocritico, anche se in quella storia c’era molto territorio, c’era molto sud, c’era lo schiodare appena possibile dal Palazzo per stare a ridosso delle condizioni reali.
Ora Piero Bassetti parla di trapasso ormai in atto della condizione degli Stati-Nazione, cioè della fine del lungo ciclo vitale della pace di Westfalia. E io malgrado la fascinazione resisto un po’ a pensare che se non regge più nemmeno l’Amministrazione dello Stato il dissolvimento non pare equilibrato dalle amministrazioni territoriali – e in particolare da quelle regionali – che pure ho ben conosciuto nelle esperienze successive   (tra l’altro guidando per una legislatura la struttura amministrativa del Consiglio regionale che ha sede in questo palazzo). No, non mi pare che ci sia un’altra Italia pronta ad amministrare l’Italia in dissolvimento. Da qui un certo panico, non tanto del colbertiano che era in me, quanto caso mai del modesto epigono del nostro Carlo Cattaneo che profilava coraggiosi cambiamenti federalisti ma teneva in conto (come tutti i milanesi) l’arte dell’amministrazione  e della ragioneria.
Credo che le Regioni – e parlo con prudenza, perché il mio piccolo ruolo, pur di minoranza, nell’assetto attuale del Corecom della Lombardia, mi impegna in tal senso – non abbiano capito molto in materia di “competenza concorrente” nel campo delle comunicazioni. Abbiano usato questa facoltà soprattutto per misurare il loro problema di relazione con il sistema degli interessi allo scopo, come sempre, di assicurare soglie di visibilità alla politica. Le Regioni, nel loro insieme,  non sono riuscite a fare sinergia degli interessi territoriali per chiedere una visione alla tedesca del potere del territorio come produttore e consumatore di contenuti comunicativi. Non si sa se si riuscirà a rimettere mano a questa partita persa (ci ha provato anche la Lombardia qualche anno fa, non arrivando nemmeno alle soglie del provvedimento);ma ormai sta avanzando il tema a cui facevo cenno prima. Nuovi soggetti scendono in campo, con debolezza amministrativa ma con forza di un rapporto di credibilità tra stakeholders e istituzioni. E le città metropolitane – ovvero nel caso di Milano la città-regione – hanno un ruolo che, senza enfasi, il dossier Rai-Milano deve accogliere.
Certo, va detto, anche le città – come le regioni – debbono trovare una loro interlocuzione competente con un soggetto difficile come la Rai che nel corso degli anni qualche volta c’è stata e altre volte non c’è stata. Attorno al sindaco Letizia Moratti, che era stata presidente della Rai, per esempio, a un certo punto era spuntata l’idea di un centro produttivo europeo per la Rai di Milano, con larga trasformazione della sua mission, ma non credo che abbia avuto seguiti.
L’opinione di alcuni esponenti politici, oltre a coloro che sono previsti nelle conclusioni, come per esempio Paolo Gentiloni, che è stato ministro e anche amministratore di città, ci preme su questa materia. Al pari di chi – come Vinicio Peluffo, Raffaele CattaneoFabio Pizzul esprimono in diverse istituzioni (la commissione parlamentare di vigilanza Rai e il Consiglio regionale della Lombardia) un’attenzione costante e diversa alle relazioni tra Rai e territorio.
 
Brand Milano
Infine fatemi toccare negli argomenti di cornice del disegno del nostro convegno,  il tema identitario che porta ai confini di Expo, ma soprattutto porta al cambiamento radicale del citytelling tradizionale della città.
Speravamo sinceramente che il ministro Maurizio Martina potesse segnalare con la sua presenza l’idea che tra le strategie anche quella comunicativa e televisiva è essenziale per il successo di Expo. Riflessioni al riguardo le faranno comunque in tanti, certamente Piero Bassetti, don Davide Milani, Armando Branchini tra coloro di cui sono previsti preziosi contributi.
Il tema identitario  è oggi aperto agli occhi dei milanesi che hanno visto una piccola non arrogante ma densa mostra in Triennale sull’identità di Milano e che hanno assistito a un centinaio di spettacoli della Scuola di Teatro Paolo Grassi sotto le installazioni identitarie che Michele De Lucchi ha collocato a fine maggio nelle piazze della città. Il dibattito non è ancora maturo, si equivoca su cose marginali (il brand come stemma anziché come sintesi degli indirizzi vocazionali). Ma le ricerche che Ipsos ha prodotto ad inizio del ciclo di iniziative sono importanti. 100 pagine – consultabili nel sito della Triennale – con molti indirizzi fondati sull’ascolto dei residenti, dei city-users, dei frequentanti occasionali, dei turisti (e poi anche degli italiani e dei cittadini del mondo), da cui espungo tre argomenti ad alta densità di risposte, che hanno come cornice una presa d’atto più incisiva (anche con adeguamenti di indirizzo evidentemente) circa la vocazione internazionale della città – tema su cui il rettore del Politecnico Giovanni Azzone, oltre ad altri relatori, potrà aiutarci a raccordare buoni propositi e bisogni di revisione di alcuni approcci). Vediamo i tre argomenti segnalati da Ipsos:
  1. il lungo ciclo del racconto di Milano come borgo è alla fine, ma il racconto della città metropolitana non si improvvisa; va accompagnato con molte risorse creative e di indagine; esso consegnerà l’immagine di Milano all’Italia e al mondo come rete di continuità abitativa e produttiva di 5 milioni di abitanti; è un fattore competitivo essenziale; ed è una partita urgente; qui, come si comprenderà, dal Sindaco di Milano e dal presidente della Regione ci si aspetta un posizionamento decisivo per il modello di autonomia che si prevede nel caso della grande Milano;
  2. l’innovazione è entrata nella strumentazione della vita, del lavoro, della formazione e dell’occupazione; ma essa non va chiusa nel perimetro del lusso (che a Milano può significare moda,   ma Armando Bianchini spiegherà che è una accezione superata anche dallo stesso mondo della moda), ma nel passaggio essenziale dalla qualità della produzione alla qualità della vita; anche qui la rappresentazione è decisiva;
  3. e ancora il patrimonio culturale e dello spettacolo, dell’arte e dell’ambiente circostante, una volta sepolto dentro una milanesità beata dall’identità industriale, si è a poco a poco liberato dalle oscurità (che erano la conseguenza di una decisione milanese di disallineare il proprio brand da quello nazionale) per trovare la via decisa alla valorizzazione economica (che vede cultura e creatività – così come la delineava il nostro compianto collega Walter Santagata come “fabbrica della cultura”) in senso ampio ai confini del 25% del PIL del territorio); argomento che configura oggi potenzialità di risorse inespresse per questa crescita, così come trenta o quaranta anni fa era il manifatturiero industriale che disponeva di 15 mila miliardi inespressi di pubblicità che – ignorati dalla Rai e dalla Sipra – fecero la fortuna di Berlusconi; Giovanna Maggioni – che dirige con competenza l’associazione degli investitori in pubblicità – potrà dare qui un contributo sicuramente documentato; ora, l’insieme delle “industrie culturali” (appunto come le classificava Santagata, quelle creative, quelle dello spettacolo, quelle del design e delle culture materiali) hanno a Milano una sorta di distrettualizzazione; il patto produttivo – che amplia la creazione del valore – avrebbe grande bisogno di un soggetto televisivo fortemente competitivo in senso multi-tecnologico (campo in cui la Rai aveva grandi ritardi, poi si dice parzialmente recuperati) e dove le opportunità del sistema Milano – lo diranno da par loro in molti, da Riccardo Puglisi a Elisabetta Sgarbi, da Sergio Escobar a Fiorenzo Grassi, da Antonio Calbi ad Armando Branchini) hanno dimensione nazionale e internazionale (come dimostrò Paolo Grassi – per tornare nella mia conclusione al suo rapporto con Milano –  quando ancora da sovrintendente al Teatro alla Scala impose nel 1976 la prima serata per la prima dell’Otello ad una Rai riluttante che alla fine segnò un travolgente successo di ascolto e l’apertura di un mercato internazionale).
Se tutti questi argomenti vengono letti da una burocratica attribuzione pro-quota di minuti di televisione auto-consumata dai milanesi e dai lombardi in spazi di TG regionale o in segmenti a brandelli dei palinsesti, si capisce che non c’è nessun patto nuovo da stringere.
Ma se attorno a questi – come ad altri argomenti convergenti – si aprono le porte delle intuizioni di interesse comune, Milano e la Rai possono rifondare un patto, che può stare dentro i nuovi contenuti della connessione di Stato.
E – si consenta l’azzardo di questi tempi – anche dentro speciali investimenti nell’interesse del Paese orientati cioè a produzione e occupazione per convertire (dico qui la mia, personalissima) quei 150 milioni che appaiono come anonimi tagli anziché come spunti di serie e riformatrici riconversioni.
Grazie per il vostro ascolto. Cominciano ora i confronti. Nella prima parte moderati da Mimma Guastoni.