La parola “arancione” (Fabrizio Revelli, La Repubblica MI, 24dic2011)
La Repubblica – Milano
24 dicembre 2011
PAROLE DEL 2011/ ARANCIONE
Quel colore scelto un po’ per caso
è diventato il simbolo della riscossa
Dal luglio 2010 al teatro Litta fino ai centomila in piazza Duomo in una sera di fine maggio
la lunga cavalcata verso la vittoria di Giuliano Pisapia, autocandidato senza l’aiuto dei partiti
la lunga cavalcata verso la vittoria di Giuliano Pisapia, autocandidato senza l’aiuto dei partiti
di FABRIZIO RAVELLI
FOTO
Festa arancione per la vittoria di Pisapia
Festa arancione per la vittoria di Pisapia
Arancione come le magliette portate dai ragazzi, i palloncini che volavano, le bandiere. Quella sera del 28 maggio in piazza Duomo, per la chiusura della campagna elettorale di Giuliano Pisapia, se la ricorderanno tutti i centomila che c’erano. Una specie di nubifragio, e una distesa di ombrelli. Poi il cielo nero s’era aperto ed erano apparsi due incredibili arcobaleni. Ma poi, a parte il soprannaturale presagio di vittoria, ci si ricorderanno la calma e l’entusiasmo, e il colore che aveva segnato tutta la corsa dell’“avvocato gentile”.
Lui, nel librointervista a cura di Stefano Rolando, alla domanda su come e quando si fosse deciso per l’arancione, risponde che non fu una vera decisione ma una sorta di “diffusione virale”. Partita dalle proteste contro la condanna a morte di una donna in Iran che si chiamava Sakineh: nei messaggi girati in rete compariva un uomo vestito in arancione, un monaco buddista tibetano, e di lì in avanti il colore aveva preso piede nelle assemblee. C’era un precedente, la “rivoluzione arancione” del 2004 in Ucraina, ma forse di quella non era rimasta memoria.
Oggi che, sei mesi più tardi, il lavoro dell’amministrazione si trova a combattere contro il grigio del cielo inquinato, il verde delle tasche dei cittadini e il rosso delle casse comunali, può essere consolatorio — e anche legittimo — non dimenticare che la lunghissima campagna elettorale di Giuliano Pisapia è stata un’avventura politica e umana assolutamente straordinaria. Cominciata con un’autocandidatura lanciata per smuovere le acque dell’attendismo, per convincere il centrosinistra ad accelerare la macchina delle primarie che pareva inceppata dai soliti giochi di partito.
L’entusiasmo per la battaglia di Pisapia si percepiva — ricordo la sala del teatro Litta, in occasione del lancio — ma era ancora di pochi. Era il luglio 2010. Perfino fra i sostenitori c’era chi giudicava che quella fosse soprattutto una testimonianza, nobile ma senza grandi chance di successo. Ma come, un uomo di sinistrasinistra sindaco di Milano? Per carità, lo sanno tutti che bisogna cercare i voti del centro, e che quindi serve un candidato che non spaventi la borghesia, piccola media o grande. L’ultima volta avevano scelto un prefetto, Bruno Ferrante, che poi aveva perso al primo turno contro Letizia Moratti.
Giuliano Pisapia la pensava diversamente. Era convinto che la Milano di centrosinistra covasse una grande voglia di riscossa, e avesse soprattutto bisogno di essere ascoltata. Non andò in ferie, passò l’agosto a mettere a punto quella strategia, così semplice da sembrare rivoluzionaria, ma anche così faticosa. Battere la città senza risparmiarsi, ascoltare tutti — associazioni, quartieri, cittadini, vecchi, giovani — farsi vedere, imparare un sacco di cose, non distribuire promesse a vanvera. Quello era solo l’inizio della campagna per le primarie, ma non avrebbe più smesso per almeno dieci mesi. E le primarie del centrosinistra alla fine si fecero, candidati oltre a lui Stefano Boeri, Valerio Onida, Michele Sacerdoti. Pisapia vinse contro tutti i pronostici.
Si disse che i votanti erano stati pochi. Ricominciò il tradizionale gioco a farsi del male da soli. Ma fu anche il punto di svolta. Il Pd milanese, da decenni abituato a perdere e avendo perso un’altra volta con il suo candidato Boeri, capì che bisognava davvero lavorare insieme con Pisapia, sostenerlo e farsi sostenere da lui. Anche Onida e Sacerdoti lo appoggiarono lealmente. E cominciò il bello, la vera campagna elettorale. I mezzi, cioè i quattrini a disposizione, stavano in proporzione di 1 a 20, una lotta a mani nude contro un avversario armato di bazooka. Letizia Moratti, di nuovo, poteva contare su cifre enormi messe a disposizione dal munifico marito. Una sola lista della sua coalizione, quella Moioli-Terzi, aveva tanti soldi quanto l’intera armata di Pisapia. Ma la locomotiva arancione, guidata dalla “forza gentile” dell’avvocato, prendeva slancio. Per la prima volta i giovani si mobilitavano, usando in maniera creativa la Rete. Una Milano sempre più entusiasta cominciava a prenderci gusto.
Forse ci siamo dimenticati, invece, di che cosa fu la campagna elettorale del centrodestra. Sempre più sbracata, in parallelo con il nervosismo crescente, e ancora di più dopo il primo turno. Pisapia avrebbe trasformato Milano in una “zingaropoli” (Bossi), in una “Stalingrado d’Italia” (Berlusconi), avrebbe riempito la città di moschee. Stupri, trans nelle strade, tratta delle clandestine, spaccio di droga (Massimo Corsaro, vicecapogruppo Pdl alla Camera). Il punto più basso (ma anche il segno della disperazione) fu il faccia a faccia fra Pisapia e Moratti sugli schermi di Sky: quando la signora, con un ultimo colpo sotto la cintura e senza possibilità di replica, accusò Pisapia di esser stato condannato per furto d’auto e terrorismo. Falso, bastava aver letto i giornali per saperlo. Ma a quel punto l’arancione dilagava, piazza Duomo e il doppio arcobaleno erano dietro l’angolo.