La Comunicazione per la Macroregione Adriatico-Ionica (27 novembre 2013)

Presidenza del Consiglio dei Ministri
Workshop “Adriatico, Regione d’Europa
Intervento prof. Stefano Rolando
(Università Iulm Milano, presidente Comitato Brand Città di Milano)
sul tema:
La Comunicazione per la Macroregione Adriatico-Ionica
Roma, 27 novembre 2013
 
Vorrei prima di tutto ringraziare il Sottosegretario Giovanni Legnini che mi ha “richiamato alle armi” nel mio vecchio e a lungo frequentato Dipartimento. 
Sono stato per dieci anni direttore generale  di questa struttura e oggi credo di dovere  anche sostituire, in un certo senso, il collega attuale Capo Dipartimento  che è sotto i ferri del chirurgo in questi giorni e non può essere qua.
Io insegno questa materia – la comunicazione pubblica orientata anche all’approccio al branding pubblico – da una ventina di anni, adesso all’Università Iulm di Milano. Questo approccio più specifico – che sarà oggetto ora di una breve presentazione – riguarda una declinazione non dico moderna perché da che esiste il “potere” esiste il brand, cioè esistono i simboli del potere e della comunicazione istituzionale; da che esistono i “popoli” esistono i caratteri simbolici, da che esistono le “aziende” esistono i  loro marchi. Però si può parlare di una declinazione moderna della comunicazione pubblica che, appunto, va verso il branding pubblico cioè va verso il modo di concepire una sintesi del patrimonio simbolico per poterlo raccontare.
 
Mi sto occupando di questo negli ultimi tempi. Il Sindaco della mia città, che è Milano, mi ha ha fatto l’onore di farmi fare il presidente del Comitato del brand della città in vista di Expo e  lo sforzo che si sta facendo è quello di riepilogare i caratteri simbolici di una città complessa e “plurale” per poterli raccontare, soprattutto quando arriva un grande evento. Cosa che gli inglesi ci hanno dimostrato, alle ultime Olimpiadi, di farlo con una certa abilità. Come diceva prima il viceministro Marta Dassù quando si fa questo genere di racconto lo si fa per una ragione, lo si fa per uno scopo, per una strategia. Quando tutti davanti alla televisione abbiamo visto la presentazione delle Olimpiadi, quelle due ore di racconto delle Olimpiadi, beh, abbiamo certo immaginato che un comitato tecnico vi  abbia lavorato per alcuni anni sotto l’impulso delle autorità nazionali e locali, e con il contributo di tanti organi decentrati per decidere quale faccia volevano raccontare al mondo. Hanno deciso – gli europei non sono molto contenti di questo, ma si sono dovuti arrendere all’evidenza – di raccontare una storia molto locale, duecento pagine della loro storia (da Shakespeare a Milton dai Beatles ai Rolling Stones), che è certo  storia inglese, come hanno riconosciuto tutti gli inglesi. Sì, ma tutto il mondo ha detto: è anche storia nostra, cioè storia mondiale, storia globale. Loro volevano dimostrare infatti di avere un brand locale e globale, e soprattutto di poter essere ancora oggi un player globale, cosa che forse all’Europa sta un po’ scomoda, ma è il modo con cui gli inglesi vogliono raccontarsi.
Ci sono riusciti con un racconto facile, che ha preso tutta l’opinione pubblica internazionale.
Questo comitato nostro a Milano un po’ fatica, perché Milano è una città straordinariamente complessa e da poco riorganizza il racconto di sé con quello del di tutto il suo territorio (la città metropolitana). Ma soprattutto sono complessi i fattori identitari che la storia ha sommato. Milano vuole raccontare la sua storia industriale ma anche la sua storia creativa, ma anche la sua storia globale, ma anche la sua storia sociale… Insomma è naturale dentro un brand si litighi, dentro un brand vi siano conflitti perché un brand è la rappresentazione di una condizione egemonica che può cambiare nel tempo, nel corso della storia.
La dott.ssa Rutigliano, presidente della Federazione delle Relazioni Pubbliche e qui presente oggi,  è anche membro di questo nostro Comitato. 
Porto qui – introducendo una riflessione sul tema di oggi – qualche apprezzamento che è figlio anche di questa esperienza e che si concentra i poche preliminari indicazioni.
 
Diceva bene il Presidente della Regione marche che i quattro pilastri del progetto identificati sono: sistema mare, connessione, ambiente e attrattività.
Se andasse avanti un progetto di trasversalità definito, esso sarebbe una soluzione importante dal punto di vista organizzativo. E’ infatti evidente che i primi tre profili, i primi tre pilastri, sono diciamo pervasi da problemi comunicativi prevalentemente per gli aspetti interni, di sistema; il quarto snodo, quello dell’attrattività, è toccato invece dalla comunicazione per gli aspetti esterni, per gli aspetti globali. Di quello mi occupo, cioè cerco di vedere qui che contributo può dare la comunicazione per l’identificazione e lo sviluppo dell’attrattività.
 
Sulla parola attrattività è bene essere chiari, l’attrattività non è un fenomeno estetico, è un fenomeno economico: è la capacità di indurre turisti, studenti, professori, capitali, investors, buone idee a sceglierti, a sceglierti nel momento in cui tu agisci con una proposta e con un racconto di te che è competitivo con infiniti altri territori che chiedono la stessa cosa. E la logica dell’attrattività sta non solo nella capacità di racconto, ma nella corrispondenza di quel racconto alla realtà.
 
Quindi l’attrattività è la gestione dei fattori che compongono innanzitutto il patrimonio simbolico di un territorio. Qui c’è un antro punto da chiarire bene, che è chiaro quando lo si tocca con mano: un brand, cioè il patrimonio simbolico di un territorio, sia esso una città, sia esso una regione o sia anche una regione in costruzione, non è proprietà delle istituzioni, non è proprietà della politica: è proprietà di un popolo.
Se il popolo è disarticolato (per ragioni di pluri-appartenenze), prima di tutto bisogna trovare le ragioni di articolazione e di sintesi perché abbia un pensiero comune intorno al suo patrimonio simbolico. Nel ‘900 chi ha provato a gestire il brand in termini come dire, diretto, di potere-gestione del patrimonio simbolico, sono stati soprattutto i dittatori. Hitler certo pensava di poter lavorare sul suo brand comandandolo a piacere. Nella realtà è il popolo stesso che deve avere percepito un tratto simbolico come proprio, e quando lo si vuole modificare bisogna coinvolgere la gente, bisogna costruire modelli di dibattito pubblico, bisogna portare l’opinione pubblica, indurla, dargli gli strumenti – ecco perché servono i media, ecco perché servono le Università, ecco perché serve la cultura, ecco perché servono i musei – a ragionare sulla propria storia identitaria e su come essa è evoluta.
 
La declinazione comunicativa di questo patrimonio genera infatti  buona o cattiva immagine, buona o cattiva reputazione, che a sua volta determina la potenzialità attrattiva di turisti, di investimenti, di lavoratori, di studenti, di progetti culturali e imprenditoriali … e anche semplicemente di buona idee che arrivano dove c’è attrattività riconoscibile..
 
Segnalo, lo dico velocemente, che oggi nel mondo la buona reputazione, cioè la buona immagine, è oggetto di indagini molto accurate e di ranking molto precisi: sia gli inglesi sia gli americani hanno istituti che fanno su questo delle operazioni al dettaglio. 
Noi sappiamo perfettamente un paese a che punto è di classifica nei ranking di immagine, una città a che punto è e perché. Sappiamo che gli inglesi lavorano sull’opinione pubblica internazionale, che per la maggior parte non conosce, immagina: perché chi conosce è il cinque per cento del mondo, gli altri immaginano, ma non è che non sono consumatori, turisti, operatori, studenti…, lo sono. Ma la con dizione immaginaria è appunto quella per la quale  quel 95% del mondo  non ti sa ma ti immagina e attorno a ciò si forma opinioni e si predispone a scelte.
 
Gli americani lavorano su altri ranking, prevalentemente legati alle opinioni della classe dirigente, cioè di chi decide. Noi ne teniamo conto, e ne teniamo conto perché il nostro paese è molto beneficiato da questi ranking. Malgrado noi ci piangiamo addosso, malgrado noi diciamo: la “monnezza” di Napoli, la mafia, le cose che non vanno… , l’Italia ha un’immagine internazionale di “bel giardino” che tiene e che ci lascia dentro il top ten del sistema immaginato come attrattivo.
E’ un patrimonio straordinario che noi abbiamo da secoli e che soprattutto le nostre città esprimono. Roma, per esempio, che è una città straordinariamente allineata all’immaginario nazionale, ha un beneficio ulteriore –  la storia, la bellezza, il Papa – che la porta ad essere nel top five dell’immaginario collettivo del mondo. Milano, che non è una città del tutto secondaria nel mondo, è una città che un secolo fa ha deciso di non allinearsi all’immagine nazionale, non essere cioè parte del  “bel giardino”. Milano ha voluto essere una città industriale, ha voluto assomigliare alla Ruhr, all’Europa continentale. E oggi sconta – dopo che non c’è più l’industria – questo suo disallineamento che non acchiappa l’immagine nazionale. Bisogna allora che raccontiamo la Milano cambiata  con la moda, con la creatività, con il design, con la nuova cultura. Però guardate – mi è capitato di dirlo anche al mio Sindaco, che ha la mia età – quando eravamo ragazzi al liceo, sapevamo che Sesto San Giovanni (l’acciaio, la classe operaia, il capitalismo) era un patrimonio della città, ma Brera non sapevamo nemmeno che esistesse, perché non esisteva nel costume della città l’idea di essere una città di cultura e soprattutto non lo dicevano nemmeno agli studenti della città.
 
Questo per dire che quando parliamo di immagine non parliamo di cipria, parliamo di dati misurati oggi nel mondo che ci mettano in condizioni di essere importanti o meno importanti, non per il nostro appeal, ma per come il mondo ci immagina.
Scusate vi do un dettaglio ancora di esperienza. Occupandomi di queste cose frequento alcuni dibattiti internazionali, il capo dell’istituto inglese che gestisce il ranking sull’immagine è un giovane molto preparato e molto in gamba che ha sposato un’italiana, una salernitana, e gira il mondo e lavora molto perché i governi che non si trovano nel ranking vogliono sapere perché non ci sono nei ranking e lo chiamano. Il governo della Romania chiamò lui e me, lui perché doveva spiegare dove stava la Romania in quei ranking e me perché dovevo spiegare le cause negative del loro posizionamento, anzi il fatto che non c’erano per niente, in quel ranking.
 
Le autorità rumene chiesero infatti a Simon Anholt perché la Romania, entrata nell’Europa, essendo un paese con una forte crescita, perché non si ritrovava nei primi cento paesi di quel ranking.  Anholt spiegò loro che  quando si schiaccia il tasto del panel internazionale dicendo Romania, il mondo  conosce poco ma esprime tre icone. La gente infatti non immagina in maniera complessa, per discorsi, immagina in maniera iconica, e le icone in quel caso sono tre; la prima è da anni Ceausescu – Ceausescu è sparito vent’anni fa, ma nell’immaginario collettivo quello è rimasto, non è stato sostituito –  esce Dracula – ( Dracula non sarà mai esistito, ma  nella testa della gente è stra-esistito ed è un’immagine radicata) ed escono i Rom – che certo non sono solo romeni, ma tant’è…- Alla domanda “allora cosa dobbiamo fare?” provai io, anche in tempi diversi, a dare qualche risposta. Forse andrebbe generata una quarta icona. Sull’argomento si innescò un dibattito che non può essere pre-figurato perché non è il consulente che deve dire qual è “la quarta icona”, dovrebbe essere  il popolo rumeno che esprime questa percezione; stimolato dai  media, da chi ragiona sulla nuova immagine. Dissi: volete un contributo? guadate io non c’ero al tempo dell’Eden, però lo raccontano in un certo modo,  e forse  in Romania avete un pezzo di quell’Eden, che è il delta del Danubio, dove volano milioni di pellicani, dove c’è un ambiente naturale straordinario, dove c’è la confluenza del fiume più importante d’Europa… Forse questo luogo così simbolico andrebbe usato, maggiormente raccontato. Mi risposero: ma lei ci vuol riportare alla nostra ruralità… noi siamo un paese di informatici… Beh, dissi ancora,  se voi pensate di poter convincere il mondo che voi siete scientificamente e tecnologicamente meglio dei cinesi, degli indiani, dei giapponesi, dei coreani, dei tedeschi,  accomodatevi: la gente penserà purtroppo che siete dei falsificatori di bancomat. Non è conveniente questa strada: è conveniente raccontarsi sulle cose che il paese sente a fondo come proprie.
 
Ecco perché il problema è complicato; primo, perché i Governi tentano a sovrapporsi al dibattito pubblico, e due perché è difficile avere una leva per cambiare le cose.
Allora noi siamo davanti a un progetto comunicativo che riguarda questa macro-regione – che esiste in natura ma non in forma di “territorio organizzato e culturalmente coeso” e che deve essere preceduto dalla definizione dei caratteri di quel patrimonio simbolico, che riguarda appunto questo territorio, quello che ci ha descritto prima il Presidente Spacca nella sua complessità, che corrisponde alla futura collaborazione tra otto stati e moltissime realtà territoriali e che oggi ha caratteri indefiniti. L’avete detto voi,  il problema è come portare a sintesi tutto ciò.
Rispetto anche ad alcune altre realtà macro-regionali che si presentano con caratteristiche più definite: se uno dice Macroregione alpina la parola stessa offre prima di tutto un’unità territoriale più definita e poi un carattere territoriale concreto, attrattivo e simbolico stra-definito. Se si dice regione baltica, che da tanto tempo definisce  un territorio abbastanza omogeneo,  il prifilo  identitario risulta  molto più definito.
 
Credo che dobbiamo operare attraverso due schemi strategici: uno è quello identitario è l’altro è quello competitivo.
Lo schema identitario è quello in cui noi riusciamo a intercettare i fattori simbolici sostanziali che abbiamo all’interno di un territorio così complesso e dall’altra parte correlarli a fattori reali di offerta, tra loro connessi.
Il contenuto comunicato è quando un fattore simbolico corrisponde a un fattore reale e la gente lo percepisce così. Se la gente scopre che non è vero, cioè che  qualcuno vuol vendere  una bufala, il risultato di reputazione è disastroso. Questo spiega perché molti territori si affidano a elementi simbolici reali. Veri, concreti, riscontrabili.  Pisa, se si vuol comunicare, non ha molta difficoltà a fare scelte; spara la sua carta, che è quella e che nel mondo è ben radicata. Lo fa anche Parigi, che si affida alla Tour Eiffel più di quello che la complessità della città rappresenta e potrebbe offrite.
 
L’altro schema è quello competitivo: a noi serve perché serve capire rapidamente qual è il nostro come si dice in gergo competitive set, cioè contro chi stiamo in questa operazione. Contro chi vuol dire poco, ma in termini di concorrenza si sa come funzionano i territori e si sa perché questa pratica pre-comunicativa si richiama al problema dell’identità competitiva.
Cioè io sono quel che sono e mi propongo come  “meglio” di chi realmente compete con me.
 
Non è chiarissimo questo, quando si dice competitive set non si può andare troppo a spanna, a intuito. Ci vogliono riscontri.
Io sono lombardo, di madre toscana, di famiglia materna siciliana  e paterna settentrionale. Il mio percorso identitario è piuttosto riguardato dal lato tirrenico dell’Italia. Mi verrebbe da dire – pensando alla regione adriatico-jonica –  che appunto quell’altra parte d’Italia, a ovest, è quella in  primaria  competizione con quella a est. Ma forse non è vero, non è solo così.  Perchè ci sono molte regioni mediterranee che sono già più connesse e che si esprimono in modo competitivo con quella adriatica. Ma nel ranking dell’immagine qual è l’ordine, qual’è il posizionamento?
.Si prendano dei grandi granchi ad affrontare alla cieca i problemi del competitive set. Il sistema universitario di Milano ci ha messo cinque o sei anni ad arrivare a capire qual è il competitive set della città in campo turistico, perché i dati erano tutti falsati, erano complessi, sono  dati  sorprendenti, di una città che ha più turismo di Firenze, più turismo di Venezia. Tu dici: Milano, ma come!, abbiamo tenuto sotto chiave i musei, abbiamo detto che è una città brutta,  dove si lavora e basta, ma che ci viene a fare la gente? Appunto, viene a lavorare, a fare i soldi e moltissimi a curarsi. Il sistema sanitario milanese è un potente motore di attrazione turistica. Dopo di che abbiamo dovuto fare su questi dati strutturali l’analisi del competitive set, che era diverso da quello che ci immaginavamo, era un’altra cosa. Ora sappiamo contro chi combattiamo, almeno.
 
Naturalmente è interessante capire gli ambiti internazionali in cui l’offerta, e quindi la comunicazione,  si deve dirigere. Più qui che là.  Ogni settore ha una sua logica. Abbiamo un’idea di turismo, ma ne dobbiamo avere un’altra per l’ attrazione universitaria, un’altra per gli  investimenti finanziari e produttivi. Se indossiamo i problemi di attrattività della  Regione Adriatico-Ionica dove dobbiamo guardare? Al risveglio delle primavere arabe o agli Stati Uniti, ai Russi o agli Emirati, ancora alla vecchia Europa e si (relativamente vicini) tedeschi? 
Dobbiamo predisporci a questa “mappa” prima di fare la comunicazione. Altrimenti la comunicazione ci costa troppo, sparata in ogni direzione senza un’idea.
 
Allora questo impianto di branding pubblico ci permette di avere un percorso:
  • un minimo di approccio preliminare alla nostra percezione identitaria,
  • fare – perdonate la parola, ma va di moda – una prima strategia di story-telling del nostro territorio, proprio una traccia-base di racconto, una sceneggiatura, di quello che vogliamo raccontare;
  • capire e analizzare il nostro contesto competitivo,
  • profilare quindi il marketing territoriale (che  viene dopo, perché è il branding la cornice che tiene dentro il marketing, non il contrario, come qualcuno pensa, anche qui il marketing lo facciamo perché abbiamo capito con chi farlo, su che cosa farlo e che cosa ci mettiamo dentro, perché altrimenti anche lì sono soldi buttati).
A proposito di marketing, permettetemi un o spunto che spiega la specifica professionalità dell’operatore pubblico rispetto a quello commerciale (ricordandoci che in questa operazione della costruzione macroregionale i due sono tenuti a collaborare e quindi a spiegarsi anche metodologicamente). Il marketing – nelle aziende – nasce come scienza dell’escludere non dell’includere, perché le aziende hanno troppi problemi e troppi costi e hanno bisogno del marketing per dire: non andiamo di qua, non andiamo di là, non vendiamo a questo non vendiamo a quello, miriamo lì. Il settore pubblico ha invece un problema di marketing inclusivo, perché deve parlare a tutti; e ha  quindi ha il problema di capire dove si rivolge e soprattutto come si rivolge per non buttare i soldi.
 
Ho avuto veramente il piacere di incontrare l’on. Legnini molto recentemente e non ho avuto il tempo di fare un’analisi un po’ più approfondita della questione.
Così che provo a buttar lì qualche riflessione come fosse un pensare informalmente a voce alta. Sono loro “gli adriatici” – lui, il presidente Spacca – che avranno modo di correggere e rettificare.
 
 
Il basso profilo identitario comune c’è, è stato detto in apertura e costituisce un punto da colmare.
Ma pure il retaggio di grandi storie c’è. Vai su qualunque libro di storia e questo non si chiama Adriatico, si chiama Golfo di Venezia, e dentro la storia della Serenissima c’è appunto una storia che va da Venezia a Corfù, credo con controverse reputazioni ma tracce storiche ineludibili e matrimonialmente importanti.
Noi sappiamo anche che questo mare, essendo mare chiuso, a differenza del Mediterraneo dove l’accesso al mare è per tutti facile perché è un grande mare in cui si accede dall’interno all’esterno facilmente, in questo mare chiuso l’accesso al mare è stato fonte di grandi conflitti storici, di guerre, di storie molto complicate.  E appunto questo carattere di mare chiuso, su cui si è esercitata un’egemonia cangiante, ha determinato una grande storia di conflittualità, anche di violenza.
Quindi noi abbiamo il fattore storico che gioca a favore, la grande storia – tanto è vero che troviamo città veneziane in tutta la costa Est di questo territorio e tutte con caratteristiche identitarie comuni – ma troviamo anche tracce gravi. Ricordo – se mi è lecito fare breve cenno – il mio primo lavoro importante , per la Commissione europea e per Altiero Spinelli in particolare allora commissario agli Affari industriali e tecnologici (quaranta anni fa): mi sono trovato a Zagabria, nella cattedrale di Zagabria, con gli occhi di un ventenne posati su una lapide che per un italiano era una cosa dura da leggere. La guerra lì ha giocato pesantemente. Mio padre ha fatto la guerra in Grecia, non era facile andare in Grecia e “spezzare le reni” a fratelli che ti assomigliavano. Insomma tra il sistema Italia e il sistema balcanico ci sono storie complicate, che si sintetizzano in un processo in cui la storia gioca a favore per molti aspetti ma gioca anche in controtendenza se la si ignora per superficialità.
 
Ho parlato in questi due ultimi giorni con alcuni direttori di quelle interessanti realtà che sono i Comitati per la promozione delle città europee della cultura: Matera, Lecce, Siena. A Siena ho un mio collega di università, a Matera un membro del nostro comitato Brand-Milano.  Quando ho detto Macroregione Adriatico-Ionica mi è stato detto: guarda, la cosa forte di questo territorio sono le città, la rete delle città, là c’è la ricchezza, là ci sono le culture museali, lì ci sono le storie e bisogna puntare al coinvolgimento delle città. Mi è sembrata una buona idea,  città che poi sono anche i porti, snodi di scambio, depositarie di costruzioni culturali e simboliche. Cioè anche sedi di importanti culture della rappresentazione, come lo sono i teatri (e mi risulta che ci sia una rete di teatri mediterranei che ha molto a che fare con la culla storica del teatro, cioè la Grecia, con i territori che sono attorno).
Come mi sembrerebbe una buona idea andare a vedere certi percorsi e certi luoghi religiosi e spirituali  in senso lato di un territorio in cui la religione conta e ha contato molto.
Mi è venuto in mente,  alla fine, il concetto della economia cooperante – che è poi quello che hanno detto già il Vice Ministro Dassù e il Presidente Spacca  – perché è questa dimensione quella che riscatta dai conflitti: quando tu prendi due popoli che hanno storie di conflitti e dici loro adesso bisogna mettersi insieme, i tre no (che qui sono stati ricordati) si spiegano.  Dentro questo riscatto dai conflitti i tre no agiscono perché noi mettiamo risorse nostre (che dipendono da volontà nostre) e cresciamo. Che è poi il senso profondo dell’unità europea che deve assecondare progetti partecipati.  
 
Sono arrivato a questa tabellina, che vi faccio vedere: vediamo i tre grandi fattori simbolici che emergono e vediamo se ci sono fattori reali che corrispondano.
Il primo fattore simbolico che emerge è il mare, l’acqua; apparentemente è quello più forte, in realtà è anche quello più conflittuale.
Lasciamo perdere se l’Adriatico è un bel mare o un brutto mare, pare che sia più bello al Sud che al Nord, più bello a est che a ovest; ma insomma adesso non entro in fatti balneari; non è tradizionalmente un mare di grande appeal, però le economie che ci sono sopra (dico Rimini, che mi viene in mente come una delle modalità dell’organizzazione turistica) hanno dimostrato che c’è la possibilità di ribaltare l’handicap e quindi forse l’Adriatico ha insegnato anche economie che hanno ribaltato handicap, ciò che è un elemento che conta.
Quello che mi sembra è che il mare-acqua ha dentro elementi conflittuali e positivi da valutare, che ha come dato reale un’organizzazione del turismo sia balneare che crocieristica che va presa in considerazione.
 
Il secondo snodo simbolico è la storia: che è la storia di quelle terre e di quelle città e che ci porta come correlato concreto alla rete dei musei (e anche dei teatri e dei festivals)  e alla cooperazione culturale.
 
Il terzo snodo simbolico – l’ha detto perfettamente il Viceministro – è quello di vedere quella carta geografica: è lo snodo Sud dell’Europa, dove questo Sud Europa, in tutte le difficoltà e in tutte le conflittualità che conosciamo, si porta dentro un pezzo di immaginario globale: essere una zona dove si campa bene, dove si mangia bene, dove si vive tutto sommato bene.
E quindi tutto il sistema dei prodotti enogastronomici, della qualità della vita, contano perché sono una caratteristica italiana invidiata, ma invidiata anche per la Grecia e anche per altri.
 
Su questo schemino io strutturerei il piano, cioè il piano tra fattori simbolici e fattori reali che sta attorno a questa mappa ora un po’ primitiva ma che è arricchibile, cioè uno ci può metter altri tasselli ma qua si incomincia a ragionare.
 
Noi dobbiamo fare delle cose prima di questo 7 febbraio: dobbiamo rendere esecutivo lo schema di brand, e probabilmente anche la configurazione di un logo. Guardi Sottosegretario,  sono andato in rete, ho schiacciato “immagini” su Regione Adriatico-Ionica e – come vede nella slide – viene fuori di tutto e di più, per adesso, ed è un di tutto di più confusionario.
 
Quindi è evidente che bisogna mettere ordine in questa roba, e decidere, primo, se questa parola MA-CRO-RE-GIO-NE -A-DRIA-TI-CO-IO-NI-CA è pronunciabile, ciò  che è già un problema su cui discutere; secondo, se la sintesi simbolica forse può essere fatta in maniera ragionevole e apprezzata da tutti i contraenti. Ma c’è da lavorarci.
 
Poi bisogna svolgere elementari ricognizioni identitarie: alcune sono di desk, mettere un po’ al lavoro i professori serve, però usare anche i sondaggisti serve, cioè tirare un termometro per capire alcune cose non è difficile e costa pochissimo.
 
Bisogna costruire un sito condiviso e lavorare sul sistema web-tv. 
Bisogna decidere una tematica di story-telling e cioè come raccontare storie e che cosa raccontare.
 
Sulle trame cooperative ci sono le Camere di Commercio – che già sono state attivate – ci sono le Università, che potrebbero fare molte cose;  e segnalo ancora che  c’è una rete di teatri straordinaria in tutta questa zona che va – lo dico da ex-assistente in Rai di Paolo Grassi – che è lì, bisogna solo attivarla, e c’è una rete di Festival importanti che va attivata.
 
Ci sono progetti comunicativi da rendere partecipati e bisogna lavorare utilizzando il calendario degli eventi che abbiamo a disposizione.
 
I soggetti che fanno parte di questo ragionamento sono – come dice  il Sottosegretario Legnini – da una parte  la rete della comunicazione istituzionale: cioè ci sono i paesi, le regioni e le città che hanno i loro servizi di comunicazione da mettere in rete.
Non è difficile, è un progetto avvincente, è possibile, sono di livelli diversi, forse anche con competenze e professionalità dissimile. Ma guardate, frequento un po’ questo sistema e devo dire che tutta la parte Est-balcanica ha ora ragazzi giovani che fanno questo mestiere in maniera appassionata e professionale. E’ finito il comunismo (in cui la comunicazione istituzionale era propaganda) e c’è un approccio nuovo (caduto il Muro di Berlino per quasi dieci anni tutti quei paesi si affacciavano agli incontri europei praticamente senza parlare, perché la classe dirigente non era sempre stata sostituita e non credevano che si potesse fare una comunicazione non propagandistica). Quella generazione non c’è più: ce n’è una che viene e vuol fare il bene per il proprio paese, cioè ragazzi giovani, in carriera, che dicono: voglio aiutare il mio paese con i mestieri che so fare, e questa è una rete straordinaria ed importante.
Poi c’è la comunicazione di impresa, il sistema di impresa è interessato alla valorizzazione di questo territorio, ed è l’altra parte, non dimentichiamocela perché ha soldi tra l’altro, un po’ più che le istituzioni. Per essa – se si scelgono bene i partner – è essenziale condividere un progetto di attrattività con i sistemi pubblici. C’è chi fa le autostrade e c’è che ci vende sopra le auto, la benzina e l’accoglienza turistica.
 
Poi ci sono le televisioni, poi ci sono le radio che sono fondamentali non dimentichiamocele sono fondamentali, poi ci sono le agenzie di stampa (che possono operare con una rete di dati e di informazioni anche per la classe dirigente), poi ci sono i player della rete che contano, poi c’è il mondo dello spettacolo, che usa codici linguistici unificanti; e in esso  ci sono i luoghi di produzione e di creatività nuova, che nel Sud sono largamente legati alla cultura musicale, che per fortuna non ha lingua e che quindi trasversa e fa condividere.
Questi sono gli elementi  di base di un piano possibile.
Grazie per l’ascolto.