Intervento al gdl “Questioni sociali” alla Conferenza programmatica socialista (Roma,30.10.2015)
Conferenza programmatica del PSI
Roma, 30-31 ottobre 2015
Gruppo di lavoro sulle questioni sociali
Intervento di Stefano Rolando
(professore universitario di ruolo a Milano, membro del comitato di direzione di Mondoperaio, già dirigente generale alla Presidenza del Consiglio dei Ministri)
Pochi giorni fa, sulle colonne di Repubblica, un ampio articolo di Ilvo Diamanti ha ricordato un saggio di Paolo Sylos Labini (che fu una firma anche della rivista Mondoperaio) che a metà degli anni ’70 fu spartiacque del rapporto tra politica e società nel nostro Paese. Quel “Saggio sulle classi sociali” che rivisitando la mappa socio-economica della società italiana (occupazione, reddito, consumi) scoprì che l’ideologia non doveva coercire l’analisi del cambiamento, riducendo la dimensione della “classe operaia” ed evidenziando la centralità del ceto medio che – in particolare nella sua natura produttiva – chiedeva rappresentanza politica ad una sinistra ancora schematica e, appunto, ideologica,
Presentando un mio libro di qualche anno fa dedicato alla comunicazione del Partito Socialista tra il ’76 e il ’94 (un testo che si intitolava “Una voce poco fa”…) Veltroni fece per la prima volta l’ammissione di quella divaricazione, dicendo che effettivamente nel passaggio tra gli anni ’70 e gli anni ’80 Craxi aveva avuto una lettura più adeguata e moderna di Berlinguer dei cambiamenti e delle nuove vocazioni della società italiana.
Siamo stati abituati molte volte nella storia al riconoscimento tardivo, in questo caso “postumo”.
Volevo cominciare da questo spunto per dire che nel dibattito e nella cultura prodotta anche da quel “Saggio” andando verso gli anni ’80 maturò il clima culturale che diede vita alla Conferenza programmatica di Rimini del 1982, quella che chiudeva un lungo percorso progettuale e caricava il dossier riformatore per l’imminente governo che il presidente Pertini – dopo il tentativo fallito da La Malfa e dopo la sperimentazione del governo Spadolini – mise nelle mani di Craxi, stabilizzando la linea dell’alternanza che chiudeva un ciclo storico della Democrazia Cristiana. Purtroppo non creando i dubbi necessari nel Partito Comunista che come lottò contro il centrosinistra degli anni ’60 puntualmente tornò a fare fuoco sul centrosinistra degli anni ’80.
Cos’era il nesso di quella conferenza e quindi del punto culturalmente più nuovo della politica sociale dell’imminente cambio di guida politica del Paese? Un’idea del merito che non voleva significare solo il riconoscimento del ruolo della persona nel processo di apprendimento e di conquista delle competenze ma soprattutto rivalutare l’idea della vecchia scuola sociologica italiana che aveva parlato di élite (parola poi criminalizzata) nel senso di riconoscere nel fattore meritocratico e non fiduciaristico il criterio selettivo della classe dirigente (argomento che tuttavia fu scansato da larga parte del sistema partitico italiano e a un certo punto e in certi ambiti , duole dirlo, anche dai socialisti) connessa a un idea del bisogno che non trovava risposte solo assistenziali ma appunto soluzioni strutturali compatibili in una cultura appunto riformatrice.
Questo nesso a chi veniva consegnato per diventare “politica pubblica”?
Certo si pensava al ceto politico che avrebbe governato la democrazia rappresentativa. Ma la novità su cui proprio il “pensatoio” di Mondoperaio aveva più inciso era quella di non immaginare soluzioni nell’integralismo della politica. Ma nell’incontro “civile” tra una amministrazione pubblica riformata e un sistema di impresa rianimato. Claudio Martelli (e tanti altri, tra cui Gigi Covatta e tra cui noi appena più giovani, che avevamo fatto nei settori della cultura, dell’educazione e dello spettacolo un forte laboratorio di progettazione) interpretò molto bene questo messaggio (a cui nei ricordi della sua biografia Martelli dedica uno spazio troppo ridotto, addirittura azzerato per gli anni precedenti, per consegnare la parte preponderante di quella biografia al tema della giustizia che arrivò quasi al termine del suo brillante ciclo politico) che era la sintesi “pattizia” tra istituzioni e impresa che avrebbe retto la visione governante del socialismo liberale.
Infatti gli anni ’80 – dissento qui dalla lettura che hanno di essi dato molti dirigenti comunisti, a cominciare da D’Alema che ha sempre parlato di anni di “declino morale” – misero in campo un progetto di riforma dello Stato (che per chi come me, proveniente dalla dirigenza nelle partecipazioni statali, veniva assegnato alla dirigenza dello Stato, significavano un impegno senza soste per “fare”, nel senso di una amministrazione socialmente impegnata e non “burocratica”, che proprio nel mio specifico significava, ad esempio, la lotta contro la cultura del segreto e del silenzio dell’apparato pubblico per imporre – come si ottenne solo con provvedimenti maturati a partire dal 1990 – la cultura della trasparenza e dell’accesso). Insieme il progetto prevedeva una integrazione con la cultura sociale dell’Europa e la convergenza con la imprenditorialità innovativa del paese centrata sull’orgoglio nazionale ovvero sull’identità competitiva.
Questi pochi indizi fanno capire che il nesso merito-bisogno aveva destinatari precisi per diventare pratica, procedura, normativa, cultura radicata. Gli ostacoli frapposti dai protagonisti del “ritardo storico” (politico e sindacale) e alla fine la slavina che fece saltare per aria (nella santabarbara va naturalmente compresa la caduta del muro di Berlino e la fine della logica di Yalta) l’intero sistema dei partiti della prima Repubblica ci ha consegnato un ventennio di azzeramento, di dimenticanza, di annichilimento di quel genere di progettazione. Un vero peccato per il nostro Paese che è anche coinciso con la perdita di senso per una larga parte di ciò che va sotto il nome di classe dirigente. Il principio di responsabilità (che per noi era la cultura del “io propongo tu decidi”) saltava per aria, in nome di uno spoil system malinteso che ha messo a spese del contribuente caterve di impreparati. Così la forza sociale delle istituzioni si sgretolava, così come il tessuto delle imprese cambiava rapidamente pelle in nome di una crescita dei ruoli individuali, finanziari, de-territorializzati di nuove forme di impresa che hanno prodotto margini ma anche stravolgimenti.
In questa trasformazione non solo abbiamo perso una rilevante quota di classe dirigente (laica, cattolica, riformista, civica), ma abbiamo anche avuto una divaricazione nella cosiddetta “società civile” in cui – come ha ben detto Gigi Covatta nella sua introduzione in plenaria – si sono create condizioni di neocorporativismo superiori ad alcuni sforzi a chiazze di generare diciamo così tensioni post-illuministe (dedico – con un libro che esce in questi giorni con questo titolo – ad alcuni episodi di “civismo politico” l’attenzione a un fenomeno progressista di far partire dai cittadini organizzati le possibilità di non consegnare l’Italia – e comunque alcune città chiave – al populismo).
L’Europa – che negli anni della conferenza di Rimini era il terreno di impegno per la battaglia dell’integrazione (che si vinse a Milano con il vertice presieduto da Craxi nel 1985 che aprì non solo le porte del mercato unico ma anche le porte dell’Europa dei cittadini) – ce la siamo ritrovata come il territorio della crisi delle politiche su l’Welfare e dell’incapacità di fronteggiare le paure.
Lo Stato non è stato riformato, l’impresa non si è rivelata socialmente coraggiosa, i media non hanno aiutato il paese a comprendere la natura dei processi di cambiamento. E nelle classifiche sulla reputazione delle istituzioni la sola Scuola italiana si mantiene a un livello di maggioranza di consenso, a parte le forze di Polizia che continuano a crescere nel consenso; mentre partiti, parlamento e governo sono ai minimi storici (i partiti inchiodati al 3% e il parlamento inchiodato al 6-7% così da porci ormai domande perentorie sulla natura della qualità della nostra democrazia).
Innovazione culturale e orgoglio identitario hanno mostrato gravi lacune e sofferto di disinvestimenti. Così che si capisce ora che il successo dell’Expo muova lo stesso capo dello Stato (lui siciliano, titolare della difficile competenza di preservare l’unità della Nazione) a dichiarare Milano “la speranza” chiamando la città “capitale d’Europa e motore del Paese”. Le lancette tornano al paradigma degli anni ’80, con infinite perdite d’occasione e con una qualità complessiva della classe dirigente che avrebbe bisogno di miracoli per riprendere il nesso “merito-bisogno” nel quadro delle concrete battaglie competitive dell’attuale processo di globalizzazione. Fermo restando che almeno le parole d’ordine del premier Renzi sono orientate ad una comunicazione che ha questo scopo.
Il ritorno dell’espressione “conferenza programmatica” – dopo 33 anni – ha messo in movimento inevitabilmente questo quadro di analisi. Esso non vuole avere lo sguardo indietro, non vuole ripetere il ritornello dei tempi migliori ovvero quelli “andati”.
Ma non rinuncia neppure a farci memoria delle condizioni di una politica che dovrebbe dare soluzioni al nodo oggi lacerante, per l’Italia, per la sinistra, per l’Europa, di una questione sociale scappata di mano (perché in verità mal presidiata, ma più presidiata ormai dalle destre, sia pure attraverso la dinamica delle paure) ma che senza Stato, con molta scuola in difficoltà, ormai con poche imprese che progettano per il Paese, senza una seria responsabilità civile, rischia di essere declamatoria.
Dunque una questione di metodo, che molti giovani oggi hanno la possibilità e, se vogliono, le conoscenze per tornare ad affrontare. Così come l’intervento che mi ha preceduto, di Daniele Fichera, ha dimostrato di sapere e voler fare.