Intervista-recensione a Stefano Rolando
Annunciandosi un 2008 carico di scadenze (leggi razziali, carta costituzionale, sessantotto, caso Moro, inizi di pontificato di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II, inizio della presidenza Pertini, perestroika che aprì le porte alla caduta del muro, eccetera) ha lavorato ad una proposta di lettura del lungo periodo dal dopoguerra a oggi con una originale modalità. Un saggio dunque?
“Non esattamente. Una sorta di giornalismo di ricerca e anche di testimonianza perché non ho propriamente scritto un libro ma un’architettura di libro in cui ho collocato molti miei brevi testi non strettamente legati al lavoro professionale ma al tentativo di intercettare realtà del tempo, del cambiamento, delle persone nel mondo e in Italia conosciute in questa battaglia delle idee e della modernizzazione possibile. Materiali scritti per altro con stili diversi”.
Ne nasce anche un bilancio di generazione. “Partecipativa ma anche ambigua e violenta” dice il sottotitolo. Perché?
“Varie connotazioni esprimono i caratteri di una generazione di cui questo libro propone una testimonianza. Intanto cominciamo con il dire che coloro che sono nati dopo la seconda guerra mondiale hanno preso strade diverse. In partenza sono stati fortunati, per l’evidente buona sorte toccata a chi è nato dopo una guerra orribile. Che ha lacerato famiglie, distrutto città, impoverito popoli, immiserito l’umanità e sotterrato cinque milioni di ragazzi in armi. Chi è nato “dopo” – diciamo la verità – ha avuto più affetti, più diritti, più opportunità”.
E questa fortuna consente di parlare di una generazione – universalmente nota come quella dei “baby boomers” – a percorso netto, cioè fin qui giudicabile “fortunata”?.
“Neanche per sogno. Tanto per cominciare i più sono stati inconsapevoli dei doni ricevuti e dunque disinteressati a tutelarli, salvo che in qualità di consumatori. Dunque un po’ assenti. Alcuni, certo non pochi, sono stati invece coerenti, perché al contrario consapevoli dell’investimento fatto dalla storia su di loro e, in fondo, sempre in battaglia per non tradire e per migliorare il paese e la società”.
Nel libro si parla di “coraggio, ma anche di violenza e ambiguità”. Perché?
“Più che di coraggio – che credo appartenga a pochi, cioè a chi ha rischiato o dato la vita per la libertà o per la sicurezza – parlo di ardimento, riferendomi cioè a quelli che seriamente e innovativamente hanno interpretato, progettato, proposto. In un tempo (la seconda metà del secolo) che è stato segnato dalla rivoluzione tecnologica e da un nuovo rapporto tra diritti e bisogni. Però, appunto, ci sono state strade anche più drammatiche. Quelle della violenza. Da molti praticata, con danni provocati a sé e agli altri, perché, tra pentimenti veri e finti, persino al mito della rivoluzione è stata fatta violenza. E molti – a metà di tutte le strade – si sono rivelati ambigui, perché sono riusciti a cucire sul tricolore, al posto della vecchia e rimossa croce sabauda, il punto di domanda sugli irrisolti dell’Italia contemporanea”.
Qual è allora il bilancio di una generazione, così differenziata, ma oggi ancora al potere, sia politico che economico, culturale e mediatico?.
“Se questo 2008 si è aperto all’insegna del “caos calmo” appunto per favorire alcuni bilanci collettivi, credo che ci sia posto anche per un bilancio generazionale che riguarda cosa quella generazione ha ricevuto e cosa sta restituendo ai più giovani. In vari paesi e anche in Italia c’è chi tende a stressare tutto e a leggere impoverimenti, danni ambientali, aumento della paura e dell’insicurezza, diminuzione del senso critico nei giovani, come forti segnali negativi. Cose vere. Ma ritengo che non si debba parlare di bilancio fallimentare, ma caso mai controverso. Per esempio il potenziale in materia di diritti e libertà che abbiamo ricevuto ha avuto anche consolidamenti e incrementi importanti. Non per questo assicurati in eterno”.
C’è molto di personale nel testo, nel percorso di idee. Rispetto a ciò il bilancio è positivo o negativo?
“Cerco di riflettere sul perché gli ardimentosi, almeno molti tra loro, si sono dichiarati sconfitti. O meglio perché vincenti e sconfitti, rispetto al senso che dovevano avere le cose, si sono scambiati le maglie. E perché i media hanno scelto di raccontare di preferenza le storie dei violenti e degli ambigui”.
E quali sono le cause più evidenti?
“Per quindici anni, insieme ad urla, risse, muro contro muro, poca incidenza della progettualità e pochissima del riformismo, abbiamo anche assistito a un forte taglio della memoria. Così che il cambio delle maglie si è reso possibile. Ora io credo che abbia ragione Veltroni quando chiede di ricomporre dialoghi, di aggiornare regole dell’interesse generale. Di guardare avanti senza riproporre le categorie ideologiche del novecento. Ma credo che ci sia posto anche per ridare legittimità a percorsi che hanno riguardato classi dirigenti che hanno operato nell’interesse del paese e che sono state ingiustamente zittite, marginalizzare, trascurate. Si può ricomporre in avanti riducendo fratture ed errori che sono stati compiuti”.
A quali fratture, a quali errori si riferisce?
“Appunto perché vedo una memorialistica sul passato prossimo dominata da chi ha ficcato pallottole nel cranio di democratici che volevano migliorare l’Italia e che attorno a ciò racconta la propria storia; o da altri che vogliono legittimare un’altra propria storia, ex-picchiatori di borgata diventati parlamentari, figli di ex-repubblichini che cercano la parità storica della guerra civile, nostalgici degli anni delle violenze, ma anche coloro che hanno individuato storicamente nel comunismo “il bene” che è stato però cancellato dagli eventi, insomma tanti che per svariate e alcune volte anche ragionevoli istanze occupano lo spazio mediatico ed editoriale con questo genere di racconti, reputo che questo spazio non vada più negato a chi ha dato con coerenza contributi all’interno delle regole costituzionali senza commettere illegittimità e lavorando, anche non solo da leader, per un’idea alta del paese e della politica”.
In questa fotografia si riconosce la vicenda dei socialisti e anche si vedono le tracce di una disputa durata a lungo, tanto che è stata chiamata “ il duello a sinistra”. E’ così?
“Questa vicenda mi sta a cuore. Ma non è la sola. Laici, cattolici, socialisti, liberali, radicali, moderati o progressisti, vasto è stato il territorio di chi nei sessanta anni dal varo della carta costituzionale a oggi ha dato un contributo a far migliorare il patrimonio di libertà e di diritti del paese. Battaglie, va detto, che hanno riguardato anche i comunisti, una parte dei quali non ha avuto ambiguità e doppiezze. Vi è un segmento di ex-ragazzi curiosi e appassionati che hanno guardato a tanti episodi della storia del mondo e dell’Italia per sintonizzare sentimenti che appartengono oggi a una storia raccontabilissima ai ragazzi di oggi”.
La spinta a questa riflessione viene dunque dall’attuale frontiera, quella del lavoro universitario?
“Ho scelto l’Università come ambito di ruolo nel 2001 e credo che se si vuole andare in aula tutti i giorni per raccontare materie fortemente intrecciate alla storia e alla realtà, bisogna partire con una credibilità personale rispetto a quella storia e a quella realtà. Questo sì. Ma credo che anche il lavoro culturale attorno all’identità italiana aiuti a combattere gli stereotipi. Non solo quelli lontani, sedimentati, famosi, velenosi per gli italiani. Ma anche quelli che si sono formati di recente. E che hanno cominciato ad avvelenare chi vive e lavora e chi dovrebbe oggi avere più concordia per fare migliorare le condizioni competitive generali di un paese che si è pericolosamente seduto”.
Ci sono persone famose raccontate in questo libro. Anzi raccontate “da vicino” così da fornire anche spunti originali per rileggere vicende e comportamenti.
“Sì, do conto di coloro con cui ho interagito di persona. Anzi di coloro con cui ho interagito con più emozioni, con più sentimenti. Tra i socialisti anche in un curioso equilibrio tra generazioni e personalità diverse. Come nei casi – ampiamente trattati – di Sandro Pertini e Bettino Craxi che negli anni ottanta sono stati al centro di una grande scatto di volontà del paese e del popolo italiano per uscire da molti guai e rilanciare il valore stesso della casa comune. E poi personalità diverse, intellettuali, giornalisti e operatori culturali (Norberto Bobbio, Carlo Bo, Paolo Grassi, Sergio Zavoli, Alberto Moravia, Umberto Eco, Cesare Musatti, Emlio Servadio, Gina Lagorio, Fabrizio Clerici, Federico Fellini, Renzo Piano, Frane Barbieri, e davvero molti altri). Padri della patria attivamente frequentati (Lelio Basso, Ugo La Malfa, Altiero Spinelli, Leo Valiani). Dirigenti della politica e delle istituzioni (intanto i dieci presidenti del consiglio con cui ho collaborato, i presidenti della Repubblica con particolare riferimento a Francesco Cossiga, poi in particolare tra i socialisti Giuliano Amato e Claudio Martelli, ma anche molti altri da Gianni De Michelis a Enrico Manca), ministri di cui sono stato consigliere o con cui ho strettamente collaborato (tra cui Luigi Berlinguer, Luigi Mazzella, Franco Frattini, Antonio Ruberti, Rosa Russo Jervolino, Francesco Rutelli) e ancora personalità internazionali che (dalla Francia alla Grecia, dalla Cina all’India, da Israele all’Algeria, dal Brasile all’Argentina, dagli USA al Giappone, dall’Iran ai Balcani, dalla Romania all’Urss) costituiscono una quota abbondante di interviste o di annotazioni in presa diretta. Ritratti di cattolici liberali, come Giuseppe De Rita e Piero Bassetti. Una bella memoria del novecento, la figlia di Nullo Baldini e nuora di Francesco Saverio Nitti lungamente intervistata alle soglie del suo centenario. E ancora interazioni con protagonisti del dibattito attuale, come Piero Fassino. E poi pagine su personalità conosciute nel tempo che sono tuttora in primo piano, da Romano Prodi a Silvio Berlusconi, a Carlo De Benedetti o di recente scomparse come Papa Woytila o come Giovanni Spadolini”.
Tra i racconti, uno spazio importante è dedicato alle vittime del terrorismo. In senso lato a vittime di violenze.
“Beh, certamente propongo di collocare un amico della mia gioventù come Walter Tobagi tra i protagonisti di un vero pantheon democratico. Ma non solo. Il tema del no al terrorismo e alla deriva violenta della politica è nelle pagine di questo libro dagli anni sessanta a oggi, con continue testimonianze. Citazioni dovute per persone con cui ho condiviso lavoro o idee (da Roberto Ruffilli a Marco Biagi ad Antonio Da Empoli). Così come c’è il caso Moro e altri inquietanti episodi che attribuisco alle ambiguità dei grandi irrisolti italiani. In chiaroscuro c’è poi uno spazio di analisi sul ’68 (ero al Mulino quell’anno e scrivevo di ciò), sul precedente vissuto di un liceo come “motore civile” (al Carducci a Milano in mezzo a tanto entusiasmo partecipativo e con l’epicentro del “caso Zanzara”) e sulle prime esperienze di vita politica (la mia prima nel ’67 come segretario dei giovani repubblicani a Milano).
A proposito del racconto che c’è nel libro sulla stagione di “meriti e bisogni” come viene trattato proprio il tema del “bisogno” inteso come visibilità delle condizioni di maggiore sofferenza o comunque di criticità.
“Viene trattato per come nella vita mi è stato dato modo di percepire, scrivere, qualche volta agire. Il tema dei diritti umani è presente negli anni sessanta – alle esperienze del Tribunale Russell contro la tortura in Brasile – e arriva fino a oggi attorno ad una straordinaria donna, Maggy Barankitse, che inverte il paradigma dell’odio nelle lotte etniche africane: Ma credo che ci sia anche altro, attraverso esperienze che hanno riguardato la cultura, la scuola, l’alfabetizzazione, la salute. Per esempio le pagine di iniziativa contro la droga o contro l’analfabetismo le ritengo tra le più formative della mia vita. Sui diritti della persona oggi, un colloquio con Stefano Rodotà. Il libro comincia con articoli giovanili sui diritti umani e si conclude con un lungo colloquio con i ragazzi della Locride del coraggioso movimento contro la ‘ndrangheta”.
In decenni in cui in Italia vi è stata una centralità democristiana, tra i tanti nomi che ha fatto mancano forse i ritratti di quella parte della classe dirigente?
No, naturalmente ci sono tanti spunti, non fosse altro per i capi di governo con cui ho potuto collaborare. Prima non ho fatto i nomi, ma certamente Giulio Andreotti in primis, ma anche Amintore Fanfani, Giovanni Goria, Ciriaco De Mita (oltre a Carlo Azeglio Ciampi e a Lamberto Dini, espressioni di distinte appartenenze) sono riguardati in molte occasioni. E più in generale c’è un segmento di classe dirigente appartenente al mondo cattolico senza il cui apporto non si capirebbero neppure certi anni. Vero è che in questi casi non c’è una pagina integralmente dedicata. Ma è un caso risultante dai materiali disponibili, non una scelta.
A proposito di “decenni” , essi sono caratterizzati da temi conduttori?
Ma, in realtà non credo che si possa inscatolare il tempo, che svolge la sua trama in modo più libero. I temi scorrono quindi lungo tutto il percorso: questioni identitarie, diritti e libertà, il metodo democratico e non violento, i luoghi della cultura e dell’educazione. In Italia e nello scenario internazionale frequentato. Penso però che in questi decenni si siano svolti duelli appassionanti attorno a cui chi ha voluto ha potuto partecipare. Anche potuto combattere. Nel dopoguerra (a cui, nascendo, abbiamo solo potuto contribuire come portatori di speranze), il duello fu fra la povertà e la ricostruzione Negli anni cinquanta è prevalso il duello di classe (padroni/operai) e naturalmente quello generato dalla guerra fredda. Negli anni sessanta il duello è stato sui diritti e su una profonda revisione del principio di autorità. Negli anni settanta da un lato vi è stato scontro fra conservatori ed eversori, ma il vero duello è stato trasformativo, fra l’economa industriale e l’insorgente economia immateriale. Negli anni ottanta è tornata a dominare la politica, sia nella scommessa dell’Italia di appartenere al novero dei paesi di testa (duello anche interno al Paese), sia nella seconda parte in un duello per l’egemonia (i socialisti di Craxi contro allo stesso tempo i comunisti di Berlinguer e i democristiani di De Mita). Gli anni novanta sono stati segnati dal duello fra politica e magistratura, in un impasse di ogni riformismo. Gli anni in corso sono quelli del duello sulle nuove povertà, il nuovo analfabetismo e, in una parola, attorno al principi di inclusione.
C’è il cinema, la tv, la comunicazione. Insomma le superfici con cui la rappresentazione della nostra identità si è più manifestata.
“Certamente, questo è stato anche il mio lavoro, in ambiti aziendali – come la Rai e il Luce e brevemente anche l’Olivetti – e nelle istituzioni nel cui quadro credo di avere contribuito in modo anche molto anticipatorio alla costruzione di una disciplina, di una professione, di un approccio metodologico che va sotto il nome di comunicazione pubblica, oggi intesa soprattutto come branding pubblico e come spazio di racconto della pubblica utilità. Di tutto ciò – e nelle pagine si capisce – il mio cuore è veramente agli anni del cinema e della televisione, di cui il libro contiene tracce di discussione e proposta in una fase in cui si poteva meglio salvaguardare e coniugare libertà e qualità”.
I materiali sono organizzati per decenni. Ma senza una cornice che riproponga compiutamente eventi di quel decennio e magari una chiave di lettura storica. Salvo brevi versi iniziali, per ogni capitolo decennale. Perché questa scelta?
“Non ho voluto aggiungere altra argomentazione. Nella brevità si rischia di ripetere solo cose note e in forma alla fine retorica. Effettivamente ci sono versi all’inizio dei sei capitoli in cui è distribuito il materiale. Versi miei, non di oggi, i più del 1986, dedicati a una selettiva, uniltaterale, scheggiata scelta di temi che, per ciascun decennio, ha colpito la mia soggettività. Questo è il dono della poesia. Dunque le chiavi di lettura ci sono. Ma essendo io più comunicatore che storico di professione, questa forma mi è parsa legittima. Una introduzione generale, tuttavia, c’è e anche lunghetta. Qui cerco di argomentare il bilancio del rapporto di questa generazione con il tempo che essa ha avuto in consegna creativa”.
Nell’ultimo capitolo una parte dei brani non guarda più indietro ma avanti e si chiama “per disegnare il futuro”. Di che si parla?
“Vorrei dire che la memoria in generale la concepisco per guardare avanti. Nel senso che senza di essa anche la scienza è povera. Figuriamoci la politica o il negoziato sociale. Però ho voluto dare un segnale esplicito di argomenti che mi stanno a cuore e che stanno in agenda. Ho scelto una riflessione sulla comunicazione come la vedo evolvere a medio termine, sull’Europa che dovrebbe lavorare sull’identità degli europei, sui nuovi approcci all’economia della cultura e della creatività, sull’indispensabile riforma della pubblica amministrazione che deve dare rendimento sociale, sui giovani del sud in affrancamento da ogni vizio storico di tipo mafioso. Uno sguardo particolare alle trasformazioni di Milano, ai nuovi paradigmi dell’attrattività, al tema multietnico soprattutto nel rapporto tra italiani e romeni”.
Ci sono “finestre sul mondo”, in questo libro, c’è molta Italia ma soprattutto due città, Milano e Roma.
“Sì, c’è questa sorta di capitale complementare fatta da due città che abito e in cui lavoro. Ma Roma è la cornice dei fatti nazionali. Milano è scavata per sessant’anni nella sua modernità, nella sua umoralità, nella sua frustrazione, nella sua riscossa. Ma non dimentico la Sicilia dei nonni materni e gli indimenticabili luoghi della villeggiatura, Bocca di Magra, la Versilia e Siusi tra le Dolomiti. Poi il mondo, frequentato per lavoro e curiosato per necessità”.
Una foto in copertina…
“Beh, è la foto di una pagina di giornale, anzi di due pagine dell’Espresso formato lenzuolo, del 1966, che mi sono tenuto appeso in casa per un po’, quella di un gruppo di ragazzi di sedici, diciassette anni, di vari licei milanesi, che costituivano il “pacchetto di mischia” di una battaglia civile e mediatica scoppiata quell’anno durante il “caso Zanzara”, censure e processi sulla libertà di informazione. Io tra quelli. Tutto emblematico. Anche l’Espresso, come giornale di riferimento di quegli anni”.
La vita privata, i ricordi, le persone amate. Che spazio ha tutto ciò nel libro?
“E’ filigrana. C’è ma con la necessaria discrezione. Così come anche il mondo dei miei amici o il mio attuale ambiente universitario è presente con citazioni vorrei dire riservate. Non ho inteso raccontare la mia vita. Ma eventi e persone che hanno consentito di svolgere, nel tempo, un’idea costante della mia vita. La comunicazione come mezzo interpretativo. Quindi cercare di capire e cercare di spiegare. O se si vuole, einaudianamente, cercare di conoscere per voler decidere. Ci sono persone amate. C’è famiglia. Certamente comincio in qualche modo dai miei indimenticabili genitori. E finisco raccontando una storia – per passare dal tu al noi – scritta per mia figlia Amelia, che ha 12 anni ed è una stellina nel cielo del nuovo firmamento plurilinguistico e plurinazionale”.